Authors: Dante
Ed elli a lui: “Tu prima m’invïasti
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verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
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e prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
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ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: ‘Secol si rinova;
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torna giustizia e primo tempo umano,
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e progenïe scende da ciel nova.’
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
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a colorare stenderò la mano.
Già era ’l mondo tutto quanto pregno
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de la vera credenza, seminata
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per li messaggi de l’etterno regno;
Vennermi poi parendo tanto santi,
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che, quando Domizian li perseguette,
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sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
e mentre che di là per me si stette,
io li sovvenni, e i lor dritti costumi
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fer dispregiare a me tutte altre sette.
E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi
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di Tebe poetando, ebb’ io battesmo;
lungamente mostrando paganesmo;
e questa tepidezza il quarto cerchio
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cerchiar mi fé più che ’l quarto centesmo.
Tu dunque, che levato hai il coperchio
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che m’ascondeva quanto bene io dico,
dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico,
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Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
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dimmi se son dannati, e in qual vico.”
“Costoro e Persio e io e altri assai,”
rispuose il duca mio, “siam con quel Greco
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che le Muse lattar più ch’altri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
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che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide v’è nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piùe
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Greci che già di lauro ornar la fronte.
Védeisi quella che mostrò Langia;
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
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e con le suore sue Deïdamia.”
Tacevansi ambedue già li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
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liberi da saliri e da pareti;
e già le quattro ancelle eran del giorno
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rimase a dietro, e la quinta era al temo,
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drizzando pur in sù l’ardente corno,
quando il mio duca: “Io credo ch’a lo stremo
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le destre spalle volger ne convegna,
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girando il monte come far solemo.”
Così l’usanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
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per l’assentir di quell’ anima degna.
Elli givan dinanzi, e io soletto
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di retro, e ascoltava i lor sermoni,
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ch’a poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe le dolci ragioni
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un alber che trovammo in mezza strada,
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con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
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cred’ io, perché persona sù non vada.
Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso,
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cadea de l’alta roccia un liquor chiaro
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e si spandeva per le foglie suso.
Li due poeti a l’alber s’appressaro;
e una voce per entro le fronde
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gridò: “Di questo cibo avrete caro.”
Poi disse: “Più pensava Maria onde
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fosser le nozze orrevoli e intere,
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ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde.
E le Romane antiche, per lor bere,
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contente furon d’acqua; e Danïello
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dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
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fé savorose con fame le ghiande,
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e nettare con sete ogne ruscello.
Mele e locuste furon le vivande
che nodriro il Batista nel diserto;
per ch’elli è glorïoso e tanto grande
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quanto per lo Vangelio v’è aperto.”
Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
lo più che padre mi dicea: “Figliuole,
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vienne oramai, ché ’l tempo che n’è imposto
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più utilmente compartir si vuole.”
Io volsi ’l viso, e ’l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
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che l’andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e cantar s’udìe
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“Labïa mëa, Domine
” per modo
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tal, che diletto e doglia parturìe.
“O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?”
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comincia’ io; ed elli: “Ombre che vanno
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forse di lor dover solvendo il nodo.”
Sì come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
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che si volgono ad essa e non restanno,
così di retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
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d’anime turba tacita e devota.
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
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palida ne la faccia, e tanto scema
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che da l’ossa la pelle s’informava.
Non credo che così a buccia strema
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Erisittone fosse fatto secco,
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per digiunar, quando più n’ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
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quando Maria nel figlio diè di becco!”
Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge “omo”
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ben avria quivi conosciuta l’emme.
Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
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sì governasse, generando brama,
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e quel d’un’acqua, non sappiendo como?
Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
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ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
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e ravvisai la faccia di Forese.
“Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora,” pregava, “la pelle,
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né a difetto di carne ch’io abbia;
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
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non rimaner che tu non mi favelle!”
“La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia,”
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rispuos’ io lui, “veggendola sì torta.