Purgatorio (64 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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Ed elli a lui: “Tu prima m’invïasti   

               
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,   

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e prima appresso Dio m’alluminasti.

               
Facesti come quei che va di notte,

               
che porta il lume dietro e sé non giova,

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ma dopo sé fa le persone dotte,

               
quando dicesti: ‘Secol si rinova;   

               
torna giustizia e primo tempo umano,

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e progenïe scende da ciel nova.’

               
Per te poeta fui, per te cristiano:

               
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,   

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a colorare stenderò la mano.

               
Già era ’l mondo tutto quanto pregno   

               
de la vera credenza, seminata

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per li messaggi de l’etterno regno;

               
e la parola tua sopra toccata

               
si consonava a’ nuovi predicanti;

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ond’ io a visitarli presi usata.

               
Vennermi poi parendo tanto santi,   

               
che, quando Domizian li perseguette,

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sanza mio lagrimar non fur lor pianti;

               
e mentre che di là per me si stette,

               
io li sovvenni, e i lor dritti costumi

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fer dispregiare a me tutte altre sette.

               
E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi   

               
di Tebe poetando, ebb’ io battesmo;

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ma per paura chiuso cristian fu’mi,   

               
lungamente mostrando paganesmo;

               
e questa tepidezza il quarto cerchio   

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cerchiar mi fé più che ’l quarto centesmo.

               
Tu dunque, che levato hai il coperchio   

               
che m’ascondeva quanto bene io dico,

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mentre che del salire avem soverchio,   

               
dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico,   

               
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:

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dimmi se son dannati, e in qual vico.”

               
“Costoro e Persio e io e altri assai,”

               
rispuose il duca mio, “siam con quel Greco

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che le Muse lattar più ch’altri mai,

               
nel primo cinghio del carcere cieco;

               
spesse fïate ragioniam del monte

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che sempre ha le nutrice nostre seco.

               
Euripide v’è nosco e Antifonte,

               
Simonide, Agatone e altri piùe

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Greci che già di lauro ornar la fronte.

               
Quivi si veggion de le genti tue   

               
Antigone, Deïfile e Argia,

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e Ismene sì trista come fue.

               
Védeisi quella che mostrò Langia;

               
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,

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e con le suore sue Deïdamia.”

               
Tacevansi ambedue già li poeti,

               
di novo attenti a riguardar dintorno,

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liberi da saliri e da pareti;

               
e già le quattro ancelle eran del giorno   

               
rimase a dietro, e la quinta era al temo,

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drizzando pur in sù l’ardente corno,

               
quando il mio duca: “Io credo ch’a lo stremo   

               
le destre spalle volger ne convegna,

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girando il monte come far solemo.”

               
Così l’usanza fu lì nostra insegna,

               
e prendemmo la via con men sospetto

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per l’assentir di quell’ anima degna.

               
Elli givan dinanzi, e io soletto   

               
di retro, e ascoltava i lor sermoni,

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ch’a poetar mi davano intelletto.

               
Ma tosto ruppe le dolci ragioni   

               
un alber che trovammo in mezza strada,

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con pomi a odorar soavi e buoni;

               
e come abete in alto si digrada

               
di ramo in ramo, così quello in giuso,

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cred’ io, perché persona sù non vada.

               
Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso,   

               
cadea de l’alta roccia un liquor chiaro

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e si spandeva per le foglie suso.

               
Li due poeti a l’alber s’appressaro;

               
e una voce per entro le fronde   

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gridò: “Di questo cibo avrete caro.”

               
Poi disse: “Più pensava Maria onde   

   

               
fosser le nozze orrevoli e intere,

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ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde.

               
E le Romane antiche, per lor bere,   

               
contente furon d’acqua; e Danïello

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dispregiò cibo e acquistò savere.

               
Lo secol primo, quant’ oro fu bello,   

               
fé savorose con fame le ghiande,

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e nettare con sete ogne ruscello.

               
Mele e locuste furon le vivande

               
che nodriro il Batista nel diserto;

               
per ch’elli è glorïoso e tanto grande

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quanto per lo Vangelio v’è aperto.”

PURGATORIO XXIII

               
Mentre che li occhi per la fronda verde

               
ficcava ïo sì come far suole

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chi dietro a li uccellin sua vita perde,   

               
lo più che padre mi dicea: “Figliuole,   

               
vienne oramai, ché ’l tempo che n’è imposto   

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più utilmente compartir si vuole.”

               
Io volsi ’l viso, e ’l passo non men tosto,

               
appresso i savi, che parlavan sìe,   

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che l’andar mi facean di nullo costo.

               
Ed ecco piangere e cantar s’udìe   

               
“Labïa mëa, Domine
” per modo

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tal, che diletto e doglia parturìe.

               
“O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?”   

               
comincia’ io; ed elli: “Ombre che vanno

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forse di lor dover solvendo il nodo.”

               
Sì come i peregrin pensosi fanno,

               
giugnendo per cammin gente non nota,

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che si volgono ad essa e non restanno,

               
così di retro a noi, più tosto mota,

               
venendo e trapassando ci ammirava

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d’anime turba tacita e devota.

               
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,   

               
palida ne la faccia, e tanto scema

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che da l’ossa la pelle s’informava.

               
Non credo che così a buccia strema   

               
Erisittone fosse fatto secco,

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per digiunar, quando più n’ebbe tema.

               
Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco

               
la gente che perdé Ierusalemme,

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quando Maria nel figlio diè di becco!”

               
Parean l’occhiaie anella sanza gemme:

               
chi nel viso de li uomini legge “omo”   

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ben avria quivi conosciuta l’emme.

               
Chi crederebbe che l’odor d’un pomo   

               
sì governasse, generando brama,

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e quel d’un’acqua, non sappiendo como?

               
Già era in ammirar che sì li affama,

               
per la cagione ancor non manifesta

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di lor magrezza e di lor trista squama,   

               
ed ecco del profondo de la testa

               
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;

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poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?”   

               
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;

               
ma ne la voce sua mi fu palese

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ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.

               
Questa favilla tutta mi raccese

               
mia conoscenza a la cangiata labbia,

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e ravvisai la faccia di Forese.

               
“Deh, non contendere a l’asciutta scabbia

               
che mi scolora,” pregava, “la pelle,

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né a difetto di carne ch’io abbia;

               
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle

               
due anime che là ti fanno scorta;

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non rimaner che tu non mi favelle!”

               
“La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,

               
mi dà di pianger mo non minor doglia,”

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rispuos’ io lui, “veggendola sì torta.

               
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;

               
non mi far dir mentr’ io mi maraviglio,

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ché mal può dir chi è pien d’altra voglia.”

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