Purgatorio (63 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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nuvole spesse non paion né rade,

               
né coruscar, né figlia di Taumante,

51
           
che di là cangia sovente contrade;

               
secco vapor non surge più avante

               
ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,

54
           
dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante.

               
Trema forse più giù poco o assai;

               
ma per vento che ’n terra si nasconda,

57
           
non so come, qua sù non tremò mai.

               
Tremaci quando alcuna anima monda

               
sentesi, sì che surga o che si mova

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per salir sù; e tal grido seconda.

               
De la mondizia sol voler fa prova,   

               
che, tutto libero a mutar convento,

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l’alma sorprende, e di voler le giova.

               
Prima vuol ben, ma non lascia il talento

               
che divina giustizia, contra voglia,

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come fu al peccar, pone al tormento.

               
E io, che son giaciuto a questa doglia   

               
cinquecent’ anni e più, pur mo sentii

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libera volontà di miglior soglia:

               
però sentisti il tremoto e li pii

               
spiriti per lo monte render lode

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a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii.”

               
Così ne disse; e però ch’el si gode   

               
tanto del ber quant’ è grande la sete,

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non saprei dir quant’ el mi fece prode.

               
E ’l savio duca: “Omai veggio la rete

               
che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,

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perché ci trema e di che congaudete.   

               
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,

               
e perché tanti secoli giaciuto

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qui se’, ne le parole tue mi cappia.”   

               
“Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto   

   

               
del sommo rege, vendicò le fóra

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ond’ uscì ’l sangue per Giuda venduto,

               
col nome che più dura e più onora   

               
era io di là,” rispuose quello spirto,

87
           
“famoso assai, ma non con fede ancora.

               
Tanto fu dolce mio vocale spirto,   

               
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,

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dove mertai le tempie ornar di mirto.   

               
Stazio la gente ancor di là mi noma:

               
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;

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ma caddi in via con la seconda soma.   

               
Al mio ardor fuor seme le faville,   

               
che mi scaldar, de la divina fiamma

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onde sono allumati più di mille;

               
de l’Eneïda dico, la qual mamma   

               
fummi, e fummi nutrice, poetando:

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sanz’ essa non fermai peso di dramma.

               
E per esser vivuto di là quando   

               
visse Virgilio, assentirei un sole

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più che non deggio al mio uscir di bando.”

               
Volser Virgilio a me queste parole   

               
con viso che, tacendo, disse “Taci”;

105
         
ma non può tutto la virtù che vuole;

               
ché riso e pianto son tanto seguaci

               
a la passion di che ciascun si spicca,

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che men seguon voler ne’ più veraci.

               
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;

               
per che l’ombra si tacque, e riguardommi

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ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;

               
e “Se tanto labore in bene assommi,”

               
disse, “perché la tua faccia testeso

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un lampeggiar di riso dimostrommi?”

               
Or son io d’una parte e d’altra preso:

               
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura

117
         
ch’io dica; ond’ io sospiro, e sono inteso

               
dal mio maestro, e “Non aver paura,”

               
mi dice, “di parlar; ma parla e digli

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quel ch’e’ dimanda con cotanta cura.”

               
Ond’ io: “Forse che tu ti maravigli,

               
antico spirto, del rider ch’io fei;

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ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.

               
Questi che guida in alto li occhi miei,

               
è quel Virgilio dal qual tu togliesti   

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forte a cantar de li uomini e d’i dèi.

               
Se cagion altra al mio rider credesti,

               
lasciala per non vera, ed esser credi

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quelle parole che di lui dicesti.”

               
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi   

               
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,

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non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi.”

               
Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate

               
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,

               
quand’ io dismento nostra vanitate,

136
         
trattando l’ombre come cosa salda.”

PURGATORIO XXII

               
Già era l’angel dietro a noi rimaso,   

               
l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,

3
             
avendomi dal viso un colpo raso;

               
e quei c’hanno a giustizia lor disiro

               
detto n’avea beati, le sue voci

6
             
con
‘sitiunt,’
sanz’altro, ciò forniro.

               
E io più lieve che per l’altre foci   

               
m’andava, sì che sanz’alcun labore

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seguiva in sù li spiriti veloci;

               
quando Virgilio incominciò: “Amore,   

               
acceso di virtù, sempre altro accese,

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pur che la fiamma sua paresse fore;

               
onde da l’ora che tra noi discese

               
nel limbo de lo ’nferno Giovenale,

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che la tua affezion mi fé palese,

               
mia benvoglienza inverso te fu quale

               
più strinse mai di non vista persona,

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sì ch’or mi parran corte queste scale.

               
Ma dimmi, e come amico mi perdona   

               
se troppo sicurtà m’allarga il freno,

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e come amico omai meco ragiona:

               
come poté trovar dentro al tuo seno

               
loco avarizia, tra cotanto senno

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di quanto per tua cura fosti pieno?”

               
Queste parole Stazio mover fenno   

               
un poco a riso pria; poscia rispuose:

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“Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno.

               
Veramente più volte appaion cose   

               
che danno a dubitar falsa matera

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per le vere ragion che son nascose.

               
La tua dimanda tuo creder m’avvera

               
esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita,

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forse per quella cerchia dov’ io era.

               
Or sappi ch’avarizia fu partita

               
troppo da me, e questa dismisura

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migliaia di lunari hanno punita.   

               
E se non fosse ch’io drizzai mia cura,

               
quand’io intesi là dove tu chiame,   

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crucciato quasi a l’umana natura:

               
‘Per che non reggi tu, o sacra fame   

               
de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,

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voltando sentirei le giostre grame.

               
Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali

               
potean le mani a spendere, e pente’mi

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così di quel come de li altri mali.

               
Quanti risurgeran coi crini scemi   

               
per ignoranza, che di questa pecca   

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toglie ’l penter vivendo e ne li stremi!

               
E sappie che la colpa che rimbecca   

               
per dritta opposizione alcun peccato,

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con esso insieme qui suo verde secca;

               
però, s’io son tra quella gente stato   

               
che piange l’avarizia, per purgarmi,

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per lo contrario suo m’è incontrato.”

               
“Or quando tu cantasti le crude armi   

   

               
de la doppia trestizia di Giocasta,”

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disse ’l cantor de’ buccolici carmi,

               
“per quello che Clïò teco lì tasta,   

               
non par che ti facesse ancor fedele

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la fede, sanza qual ben far non basta.

               
Se così è, qual sole o quai candele   

               
ti stenebraron sì, che tu drizzasti

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poscia di retro al pescator le vele?”

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