Purgatorio (60 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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però che forse appar la sua matera

               
sempre esser buona, ma non ciascun segno

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è buono, ancor che buona sia la cera.”

               
“Le tue parole e ’l mio seguace ingegno,”   

               
rispuos’ io lui, “m’hanno amor discoverto,

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ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;

               
ché, s’amore è di fuori a noi offerto

               
e l’anima non va con altro piede,

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se dritta o torta va, non è suo merto.”

               
Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede,   

               
dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta

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pur a Beatrice, ch’è opra di fede.

               
Ogne forma sustanzïal, che setta   

   

               
è da matera ed è con lei unita,

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specifica vertute ha in sé colletta,

               
la qual sanza operar non è sentita,

               
né si dimostra mai che per effetto,

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come per verdi fronde in pianta vita.

               
Però, là onde vegna lo ’ntelletto

               
de le prime notizie, omo non sape,

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e de’ primi appetibili l’affetto,

               
che sono in voi sì come studio in ape

               
di far lo mele; e questa prima voglia

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merto di lode o di biasmo non cape.

               
Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia,   

               
innata v’è la virtù che consiglia,

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e de l’assenso de’ tener la soglia.

               
Quest’ è ’l principio là onde si piglia

               
ragion di meritare in voi, secondo

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che buoni e rei amori accoglie e viglia.

               
Color che ragionando andaro al fondo,   

               
s’accorser d’esta innata libertate;

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però moralità lasciaro al mondo.

               
Onde, poniam che di necessitate   

               
surga ogne amor che dentro a voi s’accende,

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di ritenerlo è in voi la podestate.

               
La nobile virtù Beatrice intende

               
per lo libero arbitrio, e però guarda

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che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende.”

               
La luna, quasi a mezza notte tarda,   

               
facea le stelle a noi parer più rade,

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fatta com’ un secchion che tuttor arda;

               
e correa contra ’l ciel per quelle strade

               
che ’l sole infiamma allor che quel da Roma

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tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.

               
E quell’ ombra gentil per cui si noma   

               
Pietola più che villa mantoana,

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del mio carcar diposta avea la soma;

               
per ch’io, che la ragione aperta e piana

               
sovra le mie quistioni avea ricolta,

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stava com’ om che sonnolento vana.   

               
Ma questa sonnolenza mi fu tolta

               
subitamente da gente che dopo   

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le nostre spalle a noi era già volta.

               
E quale Ismeno già vide e Asopo   

               
lungo di sé di notte furia e calca,

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pur che i Teban di Bacco avesser uopo,

               
cotal per quel giron suo passo falca,

               
per quel ch’io vidi di color, venendo,

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cui buon volere e giusto amor cavalca.

               
Tosto fur sovr’ a noi, perché correndo   

               
si movea tutta quella turba magna;

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e due dinanzi gridavan piangendo:   

   

               
“Maria corse con fretta a la montagna;

               
e Cesare, per soggiogare Ilerda,   

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punse Marsilia e poi corse in Ispagna.”

               
“Ratto, ratto, che ’l tempo non si perda   

               
per poco amor,” gridavan li altri appresso,   

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“che studio di ben far grazia rinverda.”

               
“O gente in cui fervore aguto adesso

               
ricompie forse negligenza e indugio   

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da voi per tepidezza in ben far messo,

               
questi che vive, e certo i’ non vi bugio,

               
vuole andar sù, pur che ’l sol ne riluca;

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però ne dite ond’ è presso il pertugio.”

               
Parole furon queste del mio duca;

               
e un di quelli spirti disse: “Vieni

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di retro a noi, e troverai la buca.

               
Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,

               
che restar non potem; però perdona,

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se villania nostra giustizia tieni.

               
Io fui abate in San Zeno a Verona   

               
sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,

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di cui dolente ancor Milan ragiona.

               
E tale ha già l’un piè dentro la fossa,   

               
che tosto piangerà quel monastero,

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e tristo fia d’avere avuta possa;

               
perché suo figlio, mal del corpo intero,

               
e de la mente peggio, e che mal nacque,

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ha posto in loco di suo pastor vero.”

               
Io non so se più disse o s’ei si tacque,   

               
tant’ era già di là da noi trascorso;

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ma questo intesi, e ritener mi piacque.

               
E quei che m’era ad ogne uopo soccorso

               
disse: “Volgiti qua: vedine due

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venir dando a l’accidïa di morso.”

               
Di retro a tutti dicean: “Prima fue   

               
morta la gente a cui il mar s’aperse,

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che vedesse Iordan le rede sue.

               
E quella che l’affanno non sofferse   

               
fino a la fine col figlio d’Anchise

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sé stessa a vita sanza gloria offerse.”

               
Poi quando fuor da noi tanto divise

               
quell’ ombre, che veder più non potiersi,

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novo pensiero dentro a me si mise,   

               
del qual più altri nacquero e diversi;

               
e tanto d’uno in altro vaneggiai,   

               
che li occhi per vaghezza ricopersi,

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e ’l pensamento in sogno trasmutai.   

PURGATORIO XIX

               
Ne l’ora che non può ’l calor dïurno   

               
intepidar più ’l freddo de la luna,

3
             
vinto da terra, e talor da Saturno

               
—quando i geomanti lor Maggior Fortuna   

               
veggiono in orïente, innanzi a l’alba,

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surger per via che poco le sta bruna—,

               
mi venne in sogno una femmina balba,   

               
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,

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con le man monche, e di colore scialba.

               
Io la mirava; e come ’l sol conforta   

               
le fredde membra che la notte aggrava,

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così lo sguardo mio le facea scorta

               
la lingua, e poscia tutta la drizzava

               
in poco d’ora, e lo smarrito volto,

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com’ amor vuol, così le colorava.

               
Poi ch’ell’ avea ’l parlar così disciolto,   

               
cominciava a cantar sì, che con pena

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da lei avrei mio intento rivolto.

               
“Io son,” cantava, “io son dolce serena,

               
che ’ marinari in mezzo mar dismago;   

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tanto son di piacere a sentir piena!

               
Io volsi Ulisse del suo cammin vago   

               
al canto mio; e qual meco s’ausa,

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rado sen parte; sì tutto l’appago!”

               
Ancor non era sua bocca richiusa,

               
quand’ una donna apparve santa e presta   

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lunghesso me per far colei confusa.

               
“O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”   

               
fieramente dicea; ed el venìa

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con li occhi fitti pur in quella onesta.

               
L’altra prendea, e dinanzi l’apria   

               
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;

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quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

               
Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: “Almen tre   

               
voci t’ho messe!” dicea, “Surgi e vieni;

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troviam l’aperta per la qual tu entre.”

               
Sù mi levai, e tutti eran già pieni   

               
de l’alto dì i giron del sacro monte,

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e andavam col sol novo a le reni.

               
Seguendo lui, portava la mia fronte

               
come colui che l’ha di pensier carca,

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che fa di sé un mezzo arco di ponte;

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