Authors: Dante
però che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
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è buono, ancor che buona sia la cera.”
“Le tue parole e ’l mio seguace ingegno,”
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rispuos’ io lui, “m’hanno amor discoverto,
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ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;
ché, s’amore è di fuori a noi offerto
e l’anima non va con altro piede,
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se dritta o torta va, non è suo merto.”
Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede,
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dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta
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pur a Beatrice, ch’è opra di fede.
Ogne forma sustanzïal, che setta
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è da matera ed è con lei unita,
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specifica vertute ha in sé colletta,
la qual sanza operar non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
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come per verdi fronde in pianta vita.
Però, là onde vegna lo ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
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e de’ primi appetibili l’affetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
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merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia,
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innata v’è la virtù che consiglia,
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e de l’assenso de’ tener la soglia.
Quest’ è ’l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
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che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo,
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s’accorser d’esta innata libertate;
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però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitate
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surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
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di ritenerlo è in voi la podestate.
La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
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che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende.”
La luna, quasi a mezza notte tarda,
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facea le stelle a noi parer più rade,
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fatta com’ un secchion che tuttor arda;
e correa contra ’l ciel per quelle strade
che ’l sole infiamma allor che quel da Roma
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tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.
E quell’ ombra gentil per cui si noma
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Pietola più che villa mantoana,
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del mio carcar diposta avea la soma;
per ch’io, che la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
Ma questa sonnolenza mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
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le nostre spalle a noi era già volta.
E quale Ismeno già vide e Asopo
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lungo di sé di notte furia e calca,
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pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron suo passo falca,
per quel ch’io vidi di color, venendo,
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cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr’ a noi, perché correndo
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si movea tutta quella turba magna;
“Maria corse con fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare Ilerda,
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punse Marsilia e poi corse in Ispagna.”
“Ratto, ratto, che ’l tempo non si perda
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per poco amor,” gridavan li altri appresso,
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“che studio di ben far grazia rinverda.”
“O gente in cui fervore aguto adesso
ricompie forse negligenza e indugio
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da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che vive, e certo i’ non vi bugio,
vuole andar sù, pur che ’l sol ne riluca;
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però ne dite ond’ è presso il pertugio.”
Parole furon queste del mio duca;
e un di quelli spirti disse: “Vieni
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di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
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se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in San Zeno a Verona
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sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,
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di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha già l’un piè dentro la fossa,
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che tosto piangerà quel monastero,
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e tristo fia d’avere avuta possa;
perché suo figlio, mal del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal nacque,
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ha posto in loco di suo pastor vero.”
Io non so se più disse o s’ei si tacque,
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tant’ era già di là da noi trascorso;
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ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che m’era ad ogne uopo soccorso
disse: “Volgiti qua: vedine due
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venir dando a l’accidïa di morso.”
Di retro a tutti dicean: “Prima fue
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morta la gente a cui il mar s’aperse,
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che vedesse Iordan le rede sue.
E quella che l’affanno non sofferse
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fino a la fine col figlio d’Anchise
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sé stessa a vita sanza gloria offerse.”
Poi quando fuor da noi tanto divise
quell’ ombre, che veder più non potiersi,
del qual più altri nacquero e diversi;
e tanto d’uno in altro vaneggiai,
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che li occhi per vaghezza ricopersi,
Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
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intepidar più ’l freddo de la luna,
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vinto da terra, e talor da Saturno
—quando i geomanti lor Maggior Fortuna
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veggiono in orïente, innanzi a l’alba,
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surger per via che poco le sta bruna—,
mi venne in sogno una femmina balba,
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ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
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con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ’l sol conforta
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le fredde membra che la notte aggrava,
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così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
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com’ amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’ avea ’l parlar così disciolto,
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cominciava a cantar sì, che con pena
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da lei avrei mio intento rivolto.
“Io son,” cantava, “io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
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tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
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al canto mio; e qual meco s’ausa,
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rado sen parte; sì tutto l’appago!”
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’ una donna apparve santa e presta
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lunghesso me per far colei confusa.
“O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”
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fieramente dicea; ed el venìa
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con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
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fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
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quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: “Almen tre
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voci t’ho messe!” dicea, “Surgi e vieni;
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troviam l’aperta per la qual tu entre.”