Purgatorio (67 page)

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Authors: Dante

BOOK: Purgatorio
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E perché meno ammiri la parola,   

               
guarda il calor del sol che si fa vino,

78
           
giunto a l’omor che de la vite cola.

               
Quando Làchesis non ha più del lino,   

               
solvesi da la carne, e in virtute

81
           
ne porta seco e l’umano e ’l divino:

               
l’altre potenze tutte quante mute;

               
memoria, intelligenza e volontade

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in atto molto più che prima agute.

               
Sanza restarsi, per sé stessa cade   

               
mirabilmente a l’una de le rive;

87
           
quivi conosce prima le sue strade.

               
Tosto che loco lì la circunscrive,

               
la virtù formativa raggia intorno

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così e quanto ne le membra vive.

               
E come l’aere, quand’ è ben pïorno,

               
per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,

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di diversi color diventa addorno;

               
così l’aere vicin quivi si mette

               
e in quella forma ch’è in lui suggella

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virtüalmente l’alma che ristette;

               
e simigliante poi a la fiammella

               
che segue il foco là ’vunque si muta,

99
           
segue lo spirto sua forma novella.

               
Però che quindi ha poscia sua paruta,   

               
è chiamata ombra; e quindi organa poi

102
         
ciascun sentire infino a la veduta.

               
Quindi parliamo e quindi ridiam noi;

               
quindi facciam le lagrime e ’ sospiri

105
         
che per lo monte aver sentiti puoi.

               
Secondo che ci affliggono i disiri

               
e li altri affetti, l’ombra si figura;

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e quest’ è la cagion di che tu miri.”

               
E già venuto a l’ultima tortura   

               
s’era per noi, e vòlto a la man destra,

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ed eravamo attenti ad altra cura.

               
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,   

               
e la cornice spira fiato in suso

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che la reflette e via da lei sequestra;

               
ond’ ir ne convenia dal lato schiuso

               
ad uno ad uno; e io temëa ’l foco

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quinci, e quindi temeva cader giuso.

               
Lo duca mio dicea: “Per questo loco

               
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,

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però ch’errar potrebbesi per poco.”

               
“Summae Deus clementïae”
nel seno   

               
al grande ardore allora udi’ cantando,

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che di volger mi fé caler non meno;

               
e vidi spirti per la fiamma andando;

               
per ch’io guardava a loro e a’ miei passi,

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compartendo la vista a quando a quando.

               
Appresso il fine ch’a quell’ inno fassi,

               
gridavano alto:
“Virum non cognosco”
;   

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indi ricominciavan l’inno bassi.

               
Finitolo, anco gridavano: “Al bosco   

               
si tenne Diana, ed Elice caccionne

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che di Venere avea sentito il tòsco.”

               
Indi al cantar tornavano; indi donne   

               
gridavano e mariti che fuor casti

135
         
come virtute e matrimonio imponne.

               
E questo modo credo che lor basti

               
per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:

               
con tal cura conviene e con tai pasti   

139
         
che la piaga da sezzo si ricuscia.

PURGATORIO XXVI

               
Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,

               
ce n’andavamo, e spesso il buon maestro

3
             
diceami: “Guarda: giovi ch’io ti scaltro”;   

               
feriami il sole in su l’omero destro,   

               
che già, raggiando, tutto l’occidente

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mutava in bianco aspetto di cilestro;

               
e io facea con l’ombra più rovente   

               
parer la fiamma; e pur a tanto indizio

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vidi molt’ ombre, andando, poner mente.

               
Questa fu la cagion che diede inizio

               
loro a parlar di me; e cominciarsi

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a dir: “Colui non par corpo fittizio”;   

               
poi verso me, quanto potëan farsi,

               
certi si fero, sempre con riguardo

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di non uscir dove non fosser arsi.   

               
“O tu che vai, non per esser più tardo,   

               
ma forse reverente, a li altri dopo,

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rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.

               
Né solo a me la tua risposta è uopo;

               
ché tutti questi n’hanno maggior sete

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che d’acqua fredda Indo o Etïopo.

               
Dinne com’ è che fai di te parete

               
al sol, pur come tu non fossi ancora

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di morte intrato dentro da la rete.”

               
Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora

               
già manifesto, s’io non fossi atteso

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ad altra novità ch’apparve allora;

               
ché per lo mezzo del cammino acceso

               
venne gente col viso incontro a questa,

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la qual mi fece a rimirar sospeso.

               
Lì veggio d’ogne parte farsi presta   

               
ciascun’ ombra e basciarsi una con una

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sanza restar, contente a brieve festa;

               
così per entro loro schiera bruna

               
s’ammusa l’una con l’altra formica,

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forse a spïar lor via e lor fortuna.

               
Tosto che parton l’accoglienza amica,

               
prima che ’l primo passo lì trascorra,

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sopragridar ciascuna s’affatica:

               
la nova gente: “Soddoma e Gomorra”;   

               
e l’altra: “Ne la vacca entra Pasife,   

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perché ’l torello a sua lussuria corra.”

               
Poi, come grue ch’a le montagne Rife   

               
volasser parte, e parte inver’ l’arene,

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queste del gel, quelle del sole schife,

               
l’una gente sen va, l’altra sen vene;

               
e tornan, lagrimando, a’ primi canti

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e al gridar che più lor si convene;

               
e raccostansi a me, come davanti,

               
essi medesmi che m’avean pregato,

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attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.

               
Io, che due volte avea visto lor grato,

               
incominciai: “O anime sicure

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d’aver, quando che sia, di pace stato,

               
non son rimase acerbe né mature   

               
le membra mie di là, ma son qui meco

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col sangue suo e con le sue giunture.

               
Quinci sù vo per non esser più cieco;

               
donna è di sopra che m’acquista grazia,

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per che ’l mortal per vostro mondo reco.

               
Ma se la vostra maggior voglia sazia

               
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi

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ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,

               
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,   

               
chi siete voi, e chi è quella turba

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che se ne va di retro a’ vostri terghi.”

               
Non altrimenti stupido si turba

               
lo montanaro, e rimirando ammuta,

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quando rozzo e salvatico s’inurba,

               
che ciascun’ ombra fece in sua paruta;

               
ma poi che furon di stupore scarche,

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lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,

               
“Beato te, che de le nostre marche,”

               
ricominciò colei che pria m’inchiese,

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“per morir meglio, esperïenza imbarche!   

               
La gente che non vien con noi, offese   

               
di ciò per che già Cesar, trïunfando,   

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‘Regina’ contra sé chiamar s’intese:

               
però si parton ‘Soddoma’ gridando,

               
rimproverando a sé com’ hai udito,

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e aiutan l’arsura vergognando.

               
Nostro peccato fu ermafrodito;   

               
ma perché non servammo umana legge,   

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seguendo come bestie l’appetito,

               
in obbrobrio di noi, per noi si legge,

               
quando partinci, il nome di colei

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che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.

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