Authors: Dante
Poi piovve dentro a l’alta fantasia
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un crucifisso, dispettoso e fero
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ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso era il grande Assüero,
Estèr sua sposa e ’l giusto Mardoceo,
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che fu al dire e al far così intero.
E come questa imagine rompeo
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sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
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cui manca l’acqua sotto qual si feo,
surse in mia visïone una fanciulla
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piangendo forte, e dicea: “O regina,
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perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t’hai per non perder Lavina;
or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
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madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina.”
Come si frange il sonno ove di butto
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nova luce percuote il viso chiuso,
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che fratto guizza pria che muoia tutto;
così l’imaginar mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
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maggior assai che quel ch’è in nostro uso.
I’ mi volgea per veder ov’ io fosse,
quando una voce disse “Qui si monta,”
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che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia voglia tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
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che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol che nostra vista grava
e per soverchio sua figura vela,
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così la mia virtù quivi mancava.
“Questo è divino spirito, che ne la
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via da ir sù ne drizza sanza prego,
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e col suo lume sé medesmo cela.
Sì fa con noi, come l’uom si fa sego;
ché quale aspetta prego e l’uopo vede,
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malignamente già si mette al nego.
Or accordiamo a tanto invito il piede
procacciam di salir pria che s’abbui,
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ché poi non si poria, se ’l dì non riede.”
Così disse il mio duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala;
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e tosto ch’io al primo grado fui,
senti’mi presso quasi un muover d’ala
e ventarmi nel viso e dir: “
Beati
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pacifici
, che son sanz’ ira mala!”
Già eran sovra noi tanto levati
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li ultimi raggi che la notte segue,
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che le stelle apparivan da più lati.
“O virtù mia, perché sì ti dilegue?”
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fra me stesso dicea, ché mi sentiva
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la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove più non saliva
la scala sù, ed eravamo affissi,
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pur come nave ch’a la piaggia arriva.
E io attesi un poco, s’io udissi
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alcuna cosa nel novo girone;
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poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
“Dolce mio padre, dì, quale offensione
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si purga qui nel giro dove semo?
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Se i piè si stanno, non stea tuo sermone.”
Ed elli a me: “L’amor del bene, scemo
del suo dover, quiritta si ristora;
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qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perché più aperto intendi ancora,
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volgi la mente a me, e prenderai
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alcun buon frutto di nostra dimora.”
Lo naturale è sempre sanza errore,
ma l’altro puote errar per malo obietto
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o per troppo o per poco di vigore.
Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,
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e ne’ secondi sé stesso misura,
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esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
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contra ’l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi ch’esser convene
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amor sementa in voi d’ogne virtute
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e d’ogne operazion che merta pene.
Or, perché mai non può da la salute
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amor del suo subietto volger viso,
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da l’odio proprio son le cose tute;
e perché intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
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da quello odiare ogne effetto è deciso.
Resta, se dividendo bene stimo,
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che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
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amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
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ch’el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch’ altri sormonti,
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onde s’attrista sì che ’l contrario ama;
ed è chi per ingiuria par ch’aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
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e tal convien che ’l male altrui impronti.
Questo triforme amor qua giù di sotto
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si piange: or vo’ che tu de l’altro intende,
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che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente un bene apprende
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nel qual si queti l’animo, e disira;
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per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore a lui veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
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dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben è che non fa l’uom felice;
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non è felicità, non è la buona
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essenza, d’ogne ben frutto e radice.
L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,
di sovr’ a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona,
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tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi.”
Posto avea fine al suo ragionamento
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l’alto dottore, e attento guardava
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ne la mia vista s’io parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava,
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di fuor tacea, e dentro dicea: “Forse
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lo troppo dimandar ch’io fo li grava.”
Ma quel padre verace, che s’accorse
del timido voler che non s’apriva,
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parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond’io: “Maestro, il mio veder s’avviva
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
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quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, dolce padre caro,
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che mi dimostri amore, a cui reduci
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ogne buono operare e ’l suo contraro.”
“Drizza,” disse, “ver’ me l’agute luci
de lo ’ntelletto, e fieti manifesto
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l’error de’ ciechi che si fanno duci.
L’animo, ch’è creato ad amar presto,
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ad ogne cosa è mobile che piace,
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tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra apprensiva da esser verace
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tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
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sì che l’animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
quel piegare è amor, quell’ è natura
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che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come ’l foco movesi in altura
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per la sua forma ch’è nata a salire
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là dove più in sua matera dura,
così l’animo preso entra in disire,
ch’è moto spiritale, e mai non posa
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fin che la cosa amata il fa gioire.