Moll Flanders (Collins Classics) (56 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Quello fu indubbiamente l’attimo felice in cui, se avessi dato ascolto alla benedetta ispirazione, da qualunque parte venisse, avrei avuto ancora la strada aperta per una esistenza tranquilla. Ma la mia sorte era altrimenti decisa; il diavolo infaticabile che così abilmente mi guidava mi teneva troppo stretta per lasciarmi tornare indietro; e come la povertà mi aveva condotta nel fango, così la cupidigia mi ci tenne, finché non vi fu più modo di tornare indietro. E quanto agli argomenti che la mia ragione portava per convincermi a smettere, si fece avanti la mia cupidigia e disse: “Vai avanti, vai avanti; hai tanta fortuna; vai avanti finché avrai quattro o cinquecento sterline, e allora sì che potrai ritirarti, e viver bene senza dover lavorare più.”

A questo modo io, dopo essere stata nelle grinfie del demonio, mi trovai prigioniera di una specie d’incantesimo, e non ebbi la forza di uscire da quel cerchio, finché m’ingolfai in un labirinto di guai troppo grossi per venirne fuori.

Quei pensieri mi fecero comunque una certa impressione e m’indussero ad agire con più cautela di prima, più di quanta i miei maestri usavano per se stessi. La mia compagna, così la chiamavo mentre avrei dovuto senza dubbio chiamarla maestra, fu la prima ad avere sfortuna, insieme con un’altra delle sue allieve; un giorno, infatti, che erano in giro a caccia di bottino, fecero un tentativo con un mercante di lini di Cheapside, ma furono pizzicate da un commesso dall’occhio di lince, e prese con due pezze di batista che trovaron loro addosso.

Fu abbastanza per ficcarle tutte e due a Newgate, dove ebbero la sfortuna di veder ricordati alcuni peccati da loro commessi in precedenza. Furono portate contro di loro altre due accuse e, poiché i fatti risultarono provati a loro danno, furono tutte e due condannate a morte. Fecero tutte e due il ricorso di gravidanza, e tutte e due furono dichiarate incinte; anche se la mia maestra non era più incinta di quanto lo fossi io.

Andai spesso a trovarle e a rammaricarmi con loro, aspettandomi che la prossima volta sarebbe toccata a me; ma quel luogo mi faceva un tale orrore, poiché riflettevo che era il luogo della mia infelice nascita e delle sventure di mia madre, che non potevo sopportarlo, e fui perciò costretta a smettere di andarle a trovare.

Fossi almeno stata capace di ricavare un monito dalla loro disgrazia, avrei potuto dirmi fortunata, perché ancora ero in libertà, e ancora non c’era nulla contro di me; ma non fu possibile, la misura non era ancora colma.

La mia compagna, che era nota come vecchia delinquente, fu impiccata; la delinquente più giovane ebbe salva la vita, grazie a un rinvio che ottenne, ma restò a lungo a crepar di fame in prigione, finché il suo nome fu incluso in quel che si chiama un atto d’amnistia, e così venne fuori.

L’esempio tremendo della mia compagna mi spaventò a morte, e per qualche tempo non feci sortite; ma una sera, nel vicinato della mia governante, gridarono “Al fuoco”. La mia governante s’affacciò a guardare, perché eravamo tutti ancora alzati, e gridò subito che la casa della tal signora bruciava dal tetto, ed era davvero così. A questo punto mi dà una gomitata. “Senti, piccola,” dice, “ecco un’occasione rara, il fuoco è così vicino che tu puoi arrivarci prima che la strada sia bloccata dalla folla.”, Mi dette subito lei l’imbeccata. “Vai a quella casa, piccola,” dice, “corri dentro e di’ che sei venuta per aiutarli, mandata dalla tal signora (una donna, cioè, di sua conoscenza che abitava nella stessa strada più in là).” Così mi dette l’imbeccata per quella casa, dicendomi anche il nome di una signora che era amica della padrona.

Io corsi, e, giunta a quella casa, li trovai tutti in grande agitazione, come vi potete immaginare. Entrai e, trovando una delle cameriere, “Cielo, tesoro mio,” dico, “come è successo questo brutto guaio? E la tua padrona dov’è? E come sta? È salva? E dove sono i bambini? Io vengo da parte della signora… per aiutarvi.”

La cameriera scappa via. “Signora, signora,” dice, gridando con tutte le sue forze, “c’è qui una donna mandata dalla signora… ad aiutarci.” La povera donna, a metà fuor di sé, con un fagotto sotto braccio e due bambini, mi viene incontro.

“Cielo, signora,” dico io, “lasciatemi condurre questi poveri bambini dalla signora…; ha detto di mandarglieli; baderà lei a queste povere creature,” e immediatamente io gliene prendo uno di mano, e lei mi mette l’altro in braccio.

“Oh, sì, per amor del Cielo,” dice, “portateglieli. Oh, ringraziatela tanto per la sua gentilezza.”

“Avete nient’altro da mettere al sicuro?” dico io, “ci penserà lei.”

“Oh, cara, sì,” dice quella, “il Cielo la benedica, ditele grazie. Prendete questo fagotto d’argenteria e portatele anche questo. Oh, è una brava donna. Cielo, siamo completamente rovinati, completamente rovinati.” E si allontana di corsa da me, come impazzita, e dietro di lei le cameriere; e io me ne vengo via con i due bambini e il fagotto.

Ero appena uscita in strada che vidi un’altra donna venirmi incontro. “Oh,” dice, “signora,” con un tono compassionevole, “vi può cadere il bambino. Venite, è un momento brutto, lasciate che vi aiuti.” E subito mette le mani sul fagotto per portarlo in vece mia.

“No,” dico io, “se vuoi aiutarmi prendi per mano il bambino e conducilo fino in fondo alla strada; io verrò con te e ti ricompenserò per la pena che ti prendi.”

Lei non poté rifiutarsi di farlo, dopo quel che le avevo detto; ma, per farla breve, quella tale era una del mio stesso mestiere, e non voleva altro che il fagotto; venne comunque con me fino a quella porta, perché non poté farne a meno. Quando fummo giunte lì, io le mormorai: “Vai, bimba, lo so che cosa vuoi. Vai, e qualcosa ci potrai guadagnare.”

Lei capì e se ne andò. Io bussai alla porta con i bambini, e siccome tutti in casa erano già in piedi per il chiasso dell’incendio, fui subito lasciata entrare, e dissi: “È sveglia la signora? Ditele, vi prego, che la signora… le chiede il favore di tenere qui questi due bambini; povera signora, è rovinata, la sua casa è una fiamma sola.” Quelli accolsero molto gentilmente i bambini, espressero la loro compassione per il guaio di quella famiglia, e io me ne andai con il mio fagotto. Una delle cameriere mi domandò se non dovevo lasciar lì anche il fagotto. Io dissi: “No, tesoro, questo va in un altro posto, non è roba loro.”

Ero uscita dal centro della confusione, ormai, e così proseguii, senza che nessuno mi facesse domande, e portai il fagotto d’argenteria, che era ragguardevole, direttamente a casa della mia governante. Costei mi disse che non voleva nemmeno aprirlo, mi spinse a uscire di nuovo per cercarne ancora.

Mi dette l’imbeccata per la signora della casa accanto a quella che andava a fuoco, e io mi sforzai di arrivarci, ma ormai l’allarme dell’incendio era così esteso, e tante trombe suonavano, e la strada era così affollata di gente, che non riuscii nonostante tutti i miei sforzi ad avvicinarmi alla casa; perciò tornai di nuovo dalla mia governante e, portato il fagotto in camera mia, incominciai ad esaminarlo. È con orrore che racconto quale tesoro vi trovai dentro; basterà dire che, oltre la maggior parte dell’argenteria di famiglia, che era molta, trovai una catena d’oro, oggetto di foggia antiquata che aveva una fibbia rotta, sicché pensai che non fosse stato usato da molti anni, ma non per questo l’oro era di minor valore; e anche una scatoletta di anelli col sigillo, l’anello matrimoniale della signora, frammenti di una vecchia fibbia d’oro, un orologio d’oro, una borsa con un valore di circa ventiquattro sterline in monete di vecchio conio, e diverse altre cose di valore.

Fu quello il colpo più grosso, e anche il più infame, che mai mi capitò di fare; benché infatti, come ho detto prima, mi fossi fatta tanto dura da non darmi il minimo pensiero per i casi altrui, tuttavia restai commossa fino in fondo all’anima quando guardai nel mio tesoro, al pensiero di quella povera signora che oltretutto aveva perduto tante cose nell’incendio, e che, di certo, credeva d’aver salvato l’argenteria e le sue cose più belle; come sarebbe rimasta sconvolta e addolorata quando si sarebbe accorta d’essere stata ingannata, quando avrebbe scoperto che la persona che aveva portato via i bambini e la roba non veniva per nulla, come aveva detto, da parte della signora della via vicina, ma che costei s’era vista affidare i bambini senza essere al corrente di nulla.

Devo confessare che la disumanità di quell’azione mi turbò molto, mi sentii mancare, e mi si riempirono per quel motivo gli occhi di lacrime; ma, pur con tutta la consapevolezza d’essere crudele e disumana, mai il cuore mi suggerì di restituire qualcosa. Quei pensieri svanirono, e io passai presto a dimenticare le circostanze che riguardavano quel colpo.

Né questo fu tutto; perché, sebbene con quell’impresa io fossi divenuta considerevolmente più ricca di prima, tuttavia la decisione che avevo preso in precedenza, ovvero di abbandonare quel tremendo mestiere quando avessi avuto qualcosa di più, quella volta non mi tornò in mente, ma mi sentii spinta ad andare ancora oltre, ad accumulare ancora; così la cupidigia si alleò al successo, al punto che io non pensai nemmeno più a cambiar vita in tempo, benché senza di ciò non potessi attendermi salvezza né possibilità di godere tranquillamente quel che avevo mal guadagnato; ma altro ancora, altro ancora, questo volevo.

Alla fine, cedendo alla suggestione dei miei misfatti, io misi da parte ogni rimorso e ogni pentimento, e di tanti pensieri me ne restò in capo soltanto uno, quello cioè di riuscire a fare un altro colpo per esaudire completamente i miei desideri; ma anche quando ci riuscivo, ogni colpo mi spingeva a farne un altro, incoraggiandomi così a continuare il mestiere, al punto che non mi sognavo neppure di pensare a smettere.

In tale situazione, io, indurita dal successo, decisa a continuare, caddi nella trappola che per quel genere d’esistenza mi meritavo. Ma nemmeno questo accadde subito, ebbi infatti diverse altre fortunate avventure sempre proseguendo su quella via di perdizione.

Restai ancora dalla mia governante, la quale per un certo tempo fu molto sconvolta per la disgrazia di quella mia compagna che era stata impiccata; costei, a quanto pare, ne sapeva della mia governante abbastanza per farle fare la stessa fine, e la mia governante era molto agitata, aveva una gran paura.

Vero è che, morta quella senza aprir bocca su quel che sapeva, la governante si sentì tranquilla da quel punto di vista, e forse non le dispiacque che la impiccassero, perché aveva la possibilità di farle ottenere la grazia a spese di certi suoi amici; ma, d’altra parte, il fatto d’averla perduta, e il fatto di capire quanto quella era stata generosa a non mettere in vendita quel che sapeva, commossero la mia governante, la indussero a prendere sinceramente il lutto per quella donna. Io la consolai come meglio seppi, e lei in compenso mi aiutò ad acquistare la durezza che doveva condurmi inesorabilmente a quel medesimo destino.

Diventai comunque, come ho detto, più prudente, e in particolare ero poco attratta dal taccheggio di negozio, specialmente nelle botteghe dei merciai e dei drappieri, una razza di gente che sa tenere gli occhi bene aperti. Feci un paio di colpi nel ramo merletti e modisteria, in particolare uno in un negozio dove m’ero accorta che c’erano due ragazze appena assunte, non ancora pratiche del mestiere. Di lì portai via, mi pare, un rotolo di merletto per busti e un cartata di filo. Ma fu una volta sola: era un trucco che non poteva funzionare un’altra volta.

Si giudicava sempre che fosse un colpo sicuro quando si veniva a sapere di un negozio nuovo, specialmente se c’era gente che di negozi non aveva esperienza. Il minimo che gli può capitare è di ricevere appena incominciano un paio di visitine, e possono dirsi davvero bravi se riescono a prevenirle.

Compii una o due altre imprese, ma furono cose da nulla, anche se davano da vivere. Poi, nulla di notevole mi si presentò per un certo tempo, e io incominciai a pensare sul serio che dovevo smettere il mestiere; ma la mia governante, che non voleva perdermi e si aspettava da me grandi cose, mi mise un giorno in compagnia di una giovane e di un tipo che passava per suo marito, anche se, come poi si vide, non erano affatto marito e moglie, erano invece compari nel mestiere che facevano, e compari in tutto il resto. A farla breve, rubavano insieme, si coricavano insieme, furono presi insieme, e alla fine insieme furono impiccati.

Io feci con quei due una specie di società, con l’aiuto della mia governante, e loro mi portarono in un paio di avventure dove io mi limitai a osservarli commettere dei furti così grossolani e goffi che potevano riuscire soltanto per la grandissima sfrontatezza loro e per l’enorme disattenzione delle persone che venivano derubate. Decisi perciò, da allora in poi, d’esser molto cauta nell’arrischiarmi in loro compagnia; e per la verità, quando mi vennero proposti da loro due o tre progetti infelici, io declinai l’offerta, e convinsi anche loro a non farlo. Una volta, in particolare, proposero di rubare a un orologiaio tre orologi d’oro che avevano visto di giorno, e avevano scoperto il posto dove lui li riponeva; così prendemmo un mezzo accordo; ma, quando considerai più addentro la cosa, capii che proponevano di entrare in quella casa con la violenza, e, siccome la cosa non era il mio genere, io non volli imbarcarmi, e quelli andarono senza di me. Entrarono in quella casa scardinando la porta, scassinarono il ripostiglio chiuso a chiave dov’erano gli orologi, ma trovarono uno solo degli orologi d’oro, più un altro d’argento, li presero, e sveltissimi uscirono fuori scappando. Ma la gente in casa, svegliata, gridò “Al ladro”, e l’uomo fu inseguito e preso; la donna era riuscita a scappare anche lei, ma sventuratamente la presero un po’ più lontano, e le trovarono gli orologi addosso. E così io me la cavai una seconda volta, perché quelli furono giudicati colpevoli e impiccati, come vecchi delinquenti, anche se d’età erano giovani. Come ho già detto, rubavano insieme, si coricavano insieme, e alla fine furono impiccati insieme. Così finì la mia nuova società.

Incominciai allora ad essere prudentissima, perché avevo evitato di stretta misura una purga pesante, e avevo davanti agli occhi quell’esempio; ma avevo adesso un tentatore nuovo, che ogni giorno mi sollecitava: intendo la mia governante; e si presentò da fare un colpo, dal quale, siccome nasceva con l’organizzazione sua, lei si aspettava una buona parte del bottino. Era depositata in una casa privata una gran quantità di merletti delle Fiandre, e lei l’aveva saputo; siccome i merletti delle Fiandre erano proibiti, quello era un gran bel bottino per qualunque funzionario della dogana arrivasse a metterci sopra le mani. Io ebbi dalla mia governante tutte le informazioni, sia sulla qualità sia sul luogo dove la roba era nascosta, e andai da un funzionario della dogana e gli dissi che avevo una certa rivelazione da fargli a proposito di una partita di merletti, se lui mi assicurava che avrei avuto la parte dovuta della ricompensa. Era una proposta così corretta, che niente poteva esserci di più pulito; lui disse di sì, chiamò un gendarme e andammo tutti e tre a frugare quella casa. Siccome io gli dissi che sapevo trovare direttamente il posto, lui lasciò fare a me; era un buco molto buio, io m’infilai dentro, con una candela in mano, e gli passai le pezze, preoccupandomi, mentre alcune le davo a lui, di nascondermene addosso quante più potevo. C’era in quel buco un valore di circa trecento sterline in merletti, e io ne presi per circa cinquanta sterline. I merletti non erano proprietà degli abitanti di quella casa, ma di un mercante che li aveva affidati a loro; loro, perciò, si meravigliarono meno di quel che io avevo previsto.

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