“Bene, signore,” dice il prete, “non tutto il male vien per nuocere. Vostra, signore, è stata la contrarietà,” dice rivolto al mio signore, “e mia è stata la buona sorte, perché se vi foste incontrati a Stony-Stratford io non avrei adesso l’onore di sposarvi. Padrone, avete un Libro delle Devozioni?”
Io saltai su come spaventata. “Dio mio, signore,” dico, “che volete dire? Sposarci in una locanda, e di sera?”
“Signora,” dice il prete, “se volete, potete sposarvi in chiesa; ma io vi assicuro che, celebrato qui, il vostro matrimonio sarà valido quanto se fosse celebrato in chiesa; i canoni non ci fanno obbligo di celebrare matrimoni esclusivamente in chiesa; se il matrimonio lo vorrete in chiesa, sarà una cosa pubblica quanto una festa di paese; e quanto all’ora, non conta affatto; i nostri principi si sposano nelle loro stanze, alle otto e alle dieci di sera.”
Io ci misi parecchio tempo per farmi convincere, e finsi di non volermi sposare altro che in chiesa. Ma era tutta una commedia; alla fine finsi di lasciarmi convincere, e vennero chiamati di sopra il padrone della locanda e sua moglie. Il padrone fece da padrino e da scrivano, e così ci sposammo in grande allegria; anche se devo confessare che i rimproveri che mi rivolgevo li avevo tuttora in mente, tanto che di quando in quando mi facevano emettere un sospiro profondo, del che il mio sposo si accorse, e fece di tutto per farmi coraggio, credendo, poveretto, che io esitassi di fronte al passo cui m’ero decisa tanto in fretta.
Ci godemmo pienamente quella serata, e tuttavia la cosa restò tanto privata nella locanda che nemmeno uno dei servi ne seppe nulla, dato che si occuparono di me il padrone e la figlia e non fecero venir di sopra nessuna delle cameriere, tranne quando fu servita la cena. Nominai mia ancella la figlia del padrone; e il giorno dopo, mandato a chiamare un bottegaio, regalai alla giovane una serie completa di lavori d’ago, il meglio che offriva il posto, e, poiché scopersi che era un paese di fabbricanti di merletti, regalai alla madre uno scialle di merletto da portare in capo.
Una delle ragioni per cui il padrone della locanda ci stette tanto addosso era che non voleva far sapere nulla al prete della parrocchia; ma, chissà come, qualcuno venne a saperlo, e così la mattina dopo molto presto sentimmo suonar le campane, e sotto le nostre finestre venne la musica, una musica all’altezza di quel posto; ma il padrone raccontò una fandonia, disse che noi ci eravamo sposati prima di arrivar lì, avevamo soltanto fatto nella sua locanda la cena di nozze.
Non avemmo troppa voglia di agitarci il giorno dopo; insomma, a dirla in breve, svegliati dalle campane al mattino, e senza probabilmente aver dormito troppo durante la notte, ci venne subito dopo un tal sonno che restammo in letto fin quasi a mezzogiorno.
Io chiesi alla padrona di non far suonare altra musica in paese e di non far suonare le campane, e lei s’adoperò in modo da lasciarci tranquilli; ma uno strano avvenimento mi tolse per qualche tempo ogni gioia. La camera grande della casa affacciava sulla strada e, mentre il mio sposo era al piano di sotto, io m’ero portata in fondo alla stanza: siccome era una giornata calda e piacevole, avevo aperto la finestra, e me ne stavo lì in piedi a prendere una boccata d’aria quando vidi arrivare tre signori a cavallo, che scesero a una locanda proprio di fronte alla nostra.
Non si poteva negare, né io potevo avere il minimo dubbio, che il secondo dei tre era il mio marito del Lancashire. Io ne fui spaventata mortalmente; non caddi mai in una tale costernazione in vita mia; mi sembrò di sprofondare sottoterra; mi si gelò il sangue nelle vene, e mi misi a tremare come se avessi la febbre. Ripeto che non v’era il minimo dubbio che fosse così; riconoscevo i suoi vestiti, il suo cavallo, la sua faccia.
La prima riflessione sensata che feci fu che mio marito non era accanto a me ad accorgersi del mio turbamento, e di ciò fui molto lieta. Quei signori non restarono nella casa troppo tempo senza venire ad affacciarsi, come si fa di solito, alla finestra: ma la mia finestra, potete giurarci, era chiusa. Non potei comunque fare a meno di spiare attraverso la finestra, e, lo vidi di nuovo, lo sentii chiamare uno dei servi della locanda per chiedere qualcosa di cui aveva bisogno, ebbi ogni più tremenda conferma possibile del fatto che era proprio lui.
Il mio primo pensiero fu cercar di sapere, se possibile, che cosa faceva lì; ma non fu possibile. Ora mi veniva in mente un pensiero spaventevole, ora un altro; più volte pensai che mi avesse scoperta e volesse rinfacciarmi la mia ingratitudine e la mia infedeltà; ad ogni momento mi figuravo che stesse salendo le scale per venirmi ad insultare; e nella mia mente fantasticavo di innumerevoli cose che invece a lui non potevano affatto passare per la mente, a meno che gliele avesse svelate il diavolo.
Restai in quello stato di terrore per quasi due ore, senza riuscire a staccare gli occhi dalle finestre e dalla porta della locanda in cui stavano quelli. Alla fine, sentendo un forte clamore all’ingresso della loro locanda, corsi alla finestra e, con mia viva soddisfazione, li vidi uscire tutti e tre e rimettersi in viaggio verso ovest. Si fossero diretti verso Londra, io sarei rimasta nel terrore d’incontrarlo ancora lungo la strada e d’essere riconosciuta da lui; ma lui se ne andò dall’altra parte, e così il turbamento mi passò.
Decidemmo di partire il giorno dopo, ma alle sei di sera fummo messi in allarme da un grande chiasso nella strada, e da gente che correva come impazzita; davano la caccia, gridando il bando di cattura, a tre banditi che avevano rapinato due diligenze e un certo numero d’altri viaggiatori presso Dunstable Hill, e a quanto pare s’era saputo che li avevano visti a Brickhill in una certa locanda, e cioè nella locanda dov’erano scesi quei tre.
La casa fu immediatamente occupata e perquisita, ma c’erano molti in grado di testimoniare che quei signori se ne erano andati da più di tre ore. Come si fu raccolta una folla, sapemmo subito tutto; e io fui presa allora da un’altra preoccupazione.
Dissi subito a quelli che erano in casa che mi arrischiavo a dire che le persone ricercate non potevano essere quelle tre, perché uno di quei signori io lo conoscevo per una persona onestissima, detentore di un grosso patrimonio nel Lancashire.
Il gendarme che era giunto col bando di cattura ne fu immediatamente informato, e venne subito da me per sentirlo dalla viva voce, e io gli garantii che stando alla mia finestra avevo visto quei tre signori, li avevo poi rivisti alla finestra della camera dove avevano pranzato, e li avevo infine visti rimontare a cavallo; e potevo assicurargli che sapevo che uno era il tale, e cioè un ricco gentiluomo, persona al di sopra di ogni sospetto, nel Lancashire, donde appunto io venivo.
Il tono di sicurezza col quale lo dissi colpì quella masnada e convinse il gendarme al punto che costui subito suonò la ritirata, dicendo che aveva saputo che quelle erano persone per bene, non erano i tre che cercavano; e se ne andarono via tutti. Quale fosse la verità io non lo sapevo, ma di sicuro c’era solo che le diligenze presso Dunstable Hill erano state rapinate, e cinquecentosessanta sterline in contanti rubate; per di più, anche alcuni dei mercanti di merletti che viaggiano sempre da quelle parti erano stati assaliti. Quanto ai tre gentiluomini, la spiegazione verrà in seguito.
Quell’allarme ci fece fermare un altro giorno, benché il mio sposo fosse dell’idea di rimetterci in viaggio subito, e mi disse che era sempre la cosa più prudente viaggiare dopo che era stata compiuta una rapina, perché si poteva star certi che dopo aver gettato l’allarme nella zona i ladri se n’erano andati lontano; ma io avevo paura e non me la sentivo, perché soprattutto temevo in realtà che la mia vecchia conoscenza si trovasse ancora per via e avesse l’occasione di vedermi.
Non trascorsi mai quattro giorni più belli in vita mia. In quei giorni non ero altro che una sposa, e il mio novello sposo faceva ogni sforzo per farmi sentire in tutto a mio perfetto agio. Oh, fosse potuto continuare quel genere di vita, quanto facilmente avrei scordato i guai passati e scongiurato le tribolazioni avvenire! Ma avevo tutta una esistenza infame della quale pagare il fio, parte in questo mondo e parte in un altro.
Partimmo il quinto giorno; il padrone della locanda, siccome non mi vide tranquilla, salì a cavallo anche lui, col figlio e tre onesti campagnoli, tutti muniti di buone armi da fuoco; e senza dircelo, seguirono la carrozza finché ci videro arrivare sani e salvi a Dunstable. Noi, a Dunstable, non potemmo fare a meno di ringraziarli moltissimo, il che costò al mio sposo dieci o dodici scellini, più qualcos’altro che dette agli uomini per il loro tempo, ma il padrone della locanda non volle nulla per sé.
Fu quella la combinazione migliore che potesse capitarmi; infatti, se fossi arrivata a Londra senza essermi prima sposata, o avrei dovuto stare a casa sua la prima notte, oppure avrei dovuto rivelargli che non conoscevo in tutta la città di Londra nessuno in grado di ospitare una povera sposa per la prima notte di nozze con il suo sposo. Ma ora, essendo una donna sposata di una certa età, io non mi feci scrupolo di andare direttamente a casa con lui, e là presi subito possesso di una casa benissimo arredata, nonchè di un marito in floride condizioni, cosicché mi si apriva la prospettiva di una vita felice, se ci sapevo fare; e mi dava soddisfazione poter calcolare il valore della vita che mi accingevo a intraprendere. Com’era diverso questo dall’esistenza sregolata e trista che avevo prima condotto, e quanto è più felice una vita virtuosa e per bene di quella che si chiama vita di piacere.
Oh, fosse durato a lungo quel capitolo della mia esistenza, avessi io almeno appreso da quel momento ad apprezzarla, a gustarne la vera dolcezza, e non fossi ricaduta nella miseria che della virtù è la tomba certa, quanto sarei stata felice, e forse non solo in questo mondo, ma per sempre!, perché in quel periodo ero veramente pentita di tutta la mia vita passata. Mi voltavo a guardare indietro inorridendo, addirittura, direi, provando disprezzo per me stessa. Spesso riflettevo come il mio amante di Bath, colpito dalla mano di Dio, si fosse pentito e mi avesse lasciata, rifiutandosi di vedermi più, benché mi amasse moltissimo; ma io, spinta dal peggiore dei demonii, la miseria, ero tornata all’ignobile mestiere e m’ero servita di quel che si dice un volto grazioso come risorsa per i miei bisogni, e della bellezza come ruffiana per il vizio.
Ora pareva che fossi sbarcata in un porto sicuro, dopo che s’era concluso il tempestoso viaggio della mia vita passata, e incominciavo a esser molto felice della mia liberazione. Passavo molte ore da sola, seduta a piangere sui ricordi delle trascorse follie, sulle spaventose stravaganze di una vita corrotta, e qualche volta mi lusingavo di essere sinceramente pentita.
Ma vi sono tentazioni alle quali non è in facoltà della natura umana resistere, e pochi si rendono conto di quella che sarebbe la loro sorte se si trovassero nelle medesime circostanze. Come la cupidigia è la radice del male, così, secondo me, il peggiore dei trabocchetti è la miseria. Ma prima di fare queste considerazioni, è opportuno che io riferisca le mie esperienze.
Vivevo con questo marito nella più perfetta serenità; era un uomo tranquillo, ragionevole, per bene; era virtuoso, modesto e sincero, e negli affari diligente e corretto. I suoi affari si svolgevano in un giro ristretto, e il suo reddito era sufficiente per vivere con abbondanza una vita di livello medio; non dico al punto da aver la carrozza e fare, come si dice, sfoggio; ma io non m’aspettavo tanto, né ci tenevo. Infatti, poiché mi ripugnavano grandemente la leggerezza e la stravaganza di quella che era stata la mia vita precedente, avevo ora scelto di condurre una vita ritirata, semplice, per nostro conto. Non avevo amicizie, non facevo visite; badavo alla mia famiglia ed ero devota a mio marito; e quel tipo di vita diventò per me un piacere.
Vivemmo così un periodo di agio e contentezza, senza interruzione per cinque anni, quando un colpo improvviso vibrato da una mano quasi invisibile fece crollare tutta la mia felicità e mi ributtò nel mondo in una situazione opposta a quella in cui ero stata fino a quel momento.
Mio marito aveva affidato a uno dei suoi colleghi d’impiego una somma di denaro, più grossa della perdita che le nostre sostanze ci consentivano d’affrontare: quell’impiegato fallì, e la perdita ricadde pesantemente su mio marito, e tuttavia non era nemmeno una perdita così enorme da non poter lui, avendo l’animo e il coraggio di guardare in faccia la propria sventura, rifarsi con facilità, come gli dicevo io, perché godeva di molto credito; piegarsi sotto le calamità è, infatti, il modo migliore di raddoppiarne il peso, si rovina sempre chi vuole rovinarsi.
Fu inutile parlargli in modo ragionevole; il colpo lo aveva ferito troppo profondamente; era stata una pugnalata che l’aveva toccato in un organo vitale; diventò malinconico e disperato, cadde in una specie di letargo, e morì. Io previdi l’uragano, e mi trovai in una tremenda condizione di spirito, perché capivo benissimo che, se moriva lui, ero rovinata.
Avevo avuto da lui altri due figli, e non di più, perché, per dir la verità, cominciava a esser tempo per me di non farne più, avevo ormai quarantotto anni, e credo che anche se lui fosse vissuto non avrei avuto altri figli.
Ero ridotta ora in una condizione brutta e disperata, per molti versi la peggiore che mai. In primo luogo, era passata per me la fiorente età nella quale potevo attendermi che qualcuno mi corteggiasse e mi prendesse per amante; quelle belle cose erano da tempo in declino, di quel che era stato si scorgevano ormai soltanto le rovine; e in tutto ciò la cosa peggiore era che mi capitava d’essere la persona più derelitta e disperata del mondo. Io che avevo fatto coraggio a mio marito, e m’ero adoperata per dargli forza d’animo nel suo guaio, non ero capace adesso di sopportare il mio; mi mancava, nel momento della calamità, proprio quell’animo, che a lui avevo detto quanto fosse necessario per reggere il peso delle difficoltà.
Ma il caso mio era davvero lamentevole, perché ero rimasta completamente senza amici e senza aiuto, e la perdita sofferta da mio marito aveva talmente ridotto le sue sostanze che io, pur non avendo in verità debiti, potevo facilmente capire che quanto era rimasto non sarebbe bastato a mantenermi a lungo; mentre scemava ogni giorno un po’ per le spese del mantenimento, io non ero in grado di farlo crescere di un solo scellino, e così, ben presto, sarebbe stato speso tutto, e io non mi vedevo dinanzi altro che la sventura peggiore; questa mi si presentava alla mente con tale evidenza che era come se fosse già arrivata, addirittura prima che fosse vicina; ed anche quell’angoscia raddoppiava la mia miseria, perché ogni moneta da sei pence che spendevo per una forma di pane mi pareva l’ultima moneta che possedessi al mondo, e mi vedevo per l’indomani già costretta a digiunare e a crepar di fame.