Moll Flanders (Collins Classics) (55 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Avevo ora il grosso problema di trovare un mercato per la mia roba, specialmente per le due pezze di seta. Non mi andava per nulla di darle via per una sciocchezza, come in generale fanno quei poveri infelici di ladri che, dopo aver rischiato la vita per un oggetto magari di valore, si contentano di rivenderlo a cose fatte al prezzo d’una canzonetta; ma io ero decisa a non regolarmi a quel modo, in qualunque strettezza mi dovessi trovare, a meno di giungere ad un caso estremo. Comunque non sapevo bene che strada prendere. Alla fine decisi di andare dalla mia vecchia governante e di riprendere rapporti con lei. Le avevo puntualmente fatto avere cinque sterline ogni anno per il mio ragazzo finché avevo potuto, ma alla fine ero stata costretta a smettere. Le avevo però scritto una lettera nella quale le dicevo che la mia situazione era molto peggiorata; avevo perduto il marito, non ero più in grado di sostenere quella spesa, e perciò pregavo lei di fare in modo che il povero ragazzo non dovesse troppo soffrire per le sventure della madre.

Le andai a far visita e trovai che faceva ancora in parte il mestiere di una volta, ma non era più nella situazione brillante di un tempo. Infatti l’aveva denunziata un gentiluomo al quale avevano portato via la figlia, con l’aiuto, pare, di lei; ed era stato di stretta misura che era scampata alla forca. Anche le spese del processo l’avevano rovinata, ed era così diventata poverissima; aveva in casa solo mobili scadenti, e non era più rinomata come una volta per la sua abilità; tuttavia si reggeva, come si dice, sulle gambe, e siccome era una donna attiva e dinamica, e le era rimasto un piccolo capitale, s’era messa a prestar denaro su pegno, e viveva piuttosto bene.

Mi accolse con la massima gentilezza e mi disse, col suo abituale garbo, che non avrebbe avuto minori riguardi adesso per me solo perché avevo mutato in peggio posizione; s’era presa cura lei che il mio ragazzo fosse trattato nel modo migliore anche se io non potevo più pagare per lui, la donna che lo teneva era piuttosto agiata, e non v’era bisogno che io adesso mi occupassi di lui fino al momento in cui non avrei di nuovo potuto farlo in modo concreto.

Io le dissi che non m’era restato molto denaro, ma possedevo alcune cose che potevano avere un valore immediato, se lei sapeva dirmi come trasformarle in denaro. Lei mi domandò che cos’era che avevo. Io le mostrai il laccio di ciondoli d’oro, e le dissi che era uno dei regali che mi aveva fatto mio marito; poi le mostrai le due pezze di seta, che le dissi di aver ricevuto dall’Irlanda e di avere portato con me in città; e l’anello col brillantino. Della piccola scorta di argenteria e cucchiai avevo già prima trovato il modo di disfarmi per conto mio; e il corredo di biancheria da parto che avevo, s’offrì di comprarmelo lei, credendo che fosse stato il mio. Mi disse che s’era messa ora a prestar su pegno, e avrebbe perciò venduto quegli oggetti come se io li avessi impegnati presso di lei; e mandò subito a chiamare le persone adatte, le quali, siccome la roba veniva dalle sue mani, l’acquistarono senza farsi il minimo scrupolo, e pagarono anche un buon prezzo.

Cominciai allora a pensare che quella indispensabile donna avrebbe potuto aiutarmi un po’ nella mia brutta situazione a trovare lavoro, poiché sarei stata lieta di mettermi a fare qualsiasi mestiere onesto mi fosse capitato sotto mano. Ma quella, da questo punto di vista, non funzionava; il lavoro onesto non faceva parte del suo giro. Fossi stata più giovane, avrebbe magari potuto aiutarmi a pescare un ganzo, ma la mia idea era che da quella strada e da quel modo di guadagnarsi la vita si è tagliati fuori quando, come era appunto il mio caso, si sono già passati da un po’ i cinquanta; e glielo dissi.

Lei alla fine mi invitò ad andare a stare a casa sua finché non avessi trovato qualcosa da fare, mi sarebbe costato molto poco, e questo io l’accettai con piacere. E poiché vivevo ora con un poco più di agio, feci i passi necessari per sbarazzarmi dell’ultimo bambino che avevo avuto da mio marito; e lei anche questo mi rese possibile, impegnandomi a pagare soltanto, se potevo, cinque sterline l’anno. Questo fu per me un tale aiuto che per un bel po’ di tempo io smisi il brutto mestiere che avevo da poco intrapreso a praticare; e con gran gioia mi sarei messa a guadagnarmi il pane con l’ago se avessi potuto aver lavoro, ma era una cosa molto difficile per chi non aveva nessuna maniera al mondo di far conoscenze.

Alla fine trovai, comunque, un po’ di lavoro in coperte trapunte per signora, sottane, e simili; mi piaceva molto, lavoravo sodo, e di quello incominciai a vivere; ma il diavolo ostinato, che aveva deciso di farmi restare al suo servizio, continuava a spingermi ad uscire di casa per fare quattro passi, e cioè per vedere se mi si presentava qualche occasione del vecchio tipo.

Una sera obbedii ciecamente ai suoi ordini e compii una lunga peregrinazione di strada in strada, ma non m’imbattei in nulla di redditizio, e rincasai molto stanca e a mani vuote; pure, non contenta di ciò, uscii la sera dopo, e, passando davanti a una birreria, vidi aperta la porta di una stanzetta, molto vicina alla strada, e sulla tavola una caraffa d’argento, oggetto di un tipo che si usava molto nei locali pubblici a quell’epoca. Si capiva che una comitiva doveva essersi trattenuta lì a bere, e i garzoni distratti s’erano dimenticati di portarla via.

Entrai con disinvoltura nella saletta e, piazzata la caraffa d’argento nell’angolo del banco, mi sedetti lì davanti, e battei col piede in terra; venne subito un garzone, e io gli ordinai di portarmi una pinta di birra tiepida, perché faceva freddo; il garzone corse via, lo sentii scendere in cantina per spillare la birra. Mentre quel garzone se ne andava, ne entrò nella sala un altro e disse: “Avete chiamato?” Io gli risposi con aria annoiata, dicendo: “No, bimbo; è andato già quel garzone a prendermi una pinta di birra.”

Seduta lì, sentii la donna al bar dire: “Sono andati via quelli del cinque?” che era la saletta dove mi trovavo io, e il ragazzo disse: “Sì.” “Chi ha ritirato la caraffa?” disse la donna. “Io,” disse un altro garzone, “eccola,” e a quanto pare indicava un’altra caraffa, che aveva ritirata da un altro tavolo per errore; o altrimenti era accaduto che il cialtroncello s’era dimenticato di non averla portata dentro, visto che di certo non l’aveva fatto.

Io sentii tutto ciò con grande soddisfazione, perché mi rendevo conto che la caraffa non risultava mancante, mentre quelli credevano che fosse stata già ritirata; bevvi perciò la mia birra, chiamai per pagare, e uscendo dissi: “Attento all’argenteria, piccolo,” e gli indicai un calice d’argento da una pinta, che lui m’aveva portato per bere. Il ragazzo disse: “Sissignora, grazie, arrivederci,” e io me ne andai.

Tornai a casa dalla mia governante e pensai che era venuto il momento di metterla alla prova per sapere se, trovandomi io nella necessità di cavarmela da qualche pasticcio, lei sarebbe stata in grado di darmi la sua assistenza. Qualche tempo dopo essere rincasata, e avendo avuto l’occasione di parlar con lei, le dissi che avevo da confidarle un segreto della massima importanza, se lei aveva tanta considerazione per me da esser disposta a mantenere il segreto. Lei mi disse che aveva già custodito gelosamente un segreto mio: come potevo dubitare che sapesse serbarne un altro? Io le dissi allora che m’era capitata la cosa più assurda del mondo, motivo per cui ero diventata una ladra, senza averne nessuna intenzione, e le raccontai tutta la storia della caraffa.

“E l’hai portata con te, mia cara?” dice lei.

“Certo che sì,” dico io, e gliela mostrai. “Ma ora che devo fare?” dissi; “devo riportarla?”

“Riportarla?” dice lei. “Sì, se hai voglia di farti mandare a Newgate per furto.”

“Ma,” dico io, “quelli non saranno così vigliacchi da farmi arrestare, se io gliela riporto.”

“Non conosci quella gente, piccola,” dice lei. “Non solo ti porteranno a Newgate, ma ti faranno anche impiccare, senza preoccuparsi dell’onestà dimostrata da te col restituirla; faranno il conto di tutte le altre caraffe che hanno perduto, e faranno pagare te per tutte.”

“E allora che devo fare?” dico io.

“Ecco,” dice lei, “visto che ti sei portata da furba e l’hai rubata, adesso devi anche tenertela; ormai non si torna indietro. E poi, piccola,” dice, “non ne hai forse più bisogno tu di loro? Io ti augurerei di fare ogni settimana un affare così.”

Questo mi dette una nuova idea della mia governante, e del fatto che, da quando s’era messa a fare l’usuraia, aveva intorno persone ben diverse da quelle oneste che in quel luogo avevo conosciuto un tempo.

Non restai lì molto tempo ancora senza scoprire anche meglio come stavano le cose, perché continuamente vedevo portare else di spade, forchette, cucchiai, caraffe, e altra argenteria d’ogni genere, non per pignorarla ma per venderla sottobanco; e lei comprava senza far domande tutto quel che arrivava, ma faceva ottimi affari, come appresi dai suoi discorsi.

Scoprii anche che per svolgere quel suo mestiere lei fondeva sempre l’argenteria che comprava, in modo che non potesse essere riconosciuta; e una mattina venne da me a dirmi che stava per fondere e che, se volevo, poteva metter dentro anche la mia caraffa, così nessuno avrebbe mai potuto trovarla. Ben volentieri, le dissi io; così lei la pesò, e mi ridette l’intero valore in argento; ma mi accorsi che con gli altri suoi clienti non faceva così.

Qualche tempo dopo, mentre stavo lavorando, ed ero piuttosto triste, lei si mette a chiedermi che avevo, secondo il suo solito. Io le dissi che mi sentivo un peso sul cuore, perché avevo poco lavoro, non avevo di che vivere e non sapevo che strada prendere. Lei rise, e mi disse che dovevo uscire ancora in cerca di fortuna; poteva darsi che m’imbattessi in qualche altro pezzo d’argenteria.

“Oh, mamma,” dico io, “è un lavoro nel quale non sono per nulla brava, e se mi dovessero prendere sarei bell’e perduta.”

Dice lei: “Potrei mandarti da una maestra che ti farebbe diventare brava quanto lei.”

Io tremai a quella proposta, perché fino a quel momento non avevo né colleghi né conoscenti di quella razza. Ma lei sconfisse la mia ritrosia e tutti i miei timori; e in breve tempo, con l’aiuto di quella collega, diventai una ladra coi fiocchi, brava addirittura come Moll Tagliaborse, che però, se la sua fama non le fa torto, non valeva nemmeno la metà di me come bellezza.

La collega alla quale la governante mi affidò lavorava in tre specialità del ramo, e cioè taccheggio di negozi, furto con destrezza di casse di negozio e di portafogli, e scippo di orologi d’oro dal fianco delle signore; in quest’ultima era tanto brava che mai nessuna donna giunse a tale perfezione d’arte da saperlo fare come lei. A me andarono molto a genio la prima e l’ultima delle tre specializzazioni, e le fui vicina per qualche tempo nel suo lavoro, come un’apprendista assiste una levatrice, e cioè senza paga.

Alla fine lei mise anche me al lavoro. Mi aveva mostrato ogni trucco della sua arte, e io ero già riuscita più volte a sganciarle un orologio dal fianco con notevole bravura. Infine fu lei a indicarmi l’obiettivo, e cioè una giovane signora che aspettava un bambino e aveva un orologio delizioso. La cosa era da fare quando quella usciva di chiesa. Lei si mette di lato alla signora e finge, appena arrivata ai gradini, di cadere, e cadde addosso alla signora con tale impeto da farle prendere un grosso spavento, e tutte e due strillarono molto forte. Nel preciso momento in cui lei urtava la signora, io afferrai l’orologio e lo tenni nel modo giusto, sicché la spinta che lei dette fece uscire il gancio, e quella non s’accorse di niente. Io me la battei immediatamente, e lasciai la mia maestra a riprendersi a poco a poco dal suo finto spavento, e anche la signora; e subito fu notata la scomparsa dell’orologio. “Ah,” dice la mia compagna, “allora sono stati quei cialtroni che mi hanno dato la spinta, ci giurerei; peccato che questa signora non si sia accorta prima che le mancava l’orologio, potevamo prenderli.”

Seppe girarla così bene, con tanta presenza di spirito, che nessuno sospettò di lei, e io arrivai a casa un’ora buona prima di lei. Quello fu il mio primo lavoro in società. L’orologio era davvero molto bello, era ornato di una quantità di ciondoli, e la mia governante ce lo pagò venti sterline, delle quali io ebbi la metà. Ero così diventata una ladra completa, una dura al di là di ogni scrupolo di coscienza e di ogni vergogna, a un livello che devo ammettere non avrei mai creduto di poter toccare.

Così il diavolo, che per spingermi al male aveva incominciato servendosi di una insopportabile povertà, mi portò avanti fino a raggiungere livelli molto superiori alla media, anche quando i miei bisogni non furono più così grandi, né le mie prospettive di povertà così terribili; un piccolo filone di lavoro l’avevo ormai trovato, infatti, e siccome a tener l’ago non ero affatto un disastro, è probabile che, con qualche nuova conoscenza, sarei stata in grado di guadagnarmi abbastanza onestamente il pane.

Devo dire che, se quelle possibilità di lavoro mi si fossero presentate in principio, quando mi ero resa conto della miserevole situazione nella quale stavo per venirmi a trovare, e cioè se mi si fosse presentata allora la possibilità di guadagnarmi il pane lavorando, io non sarei mai caduta in quel brutto mestiere, né in mezzo ad una compagnia così cattiva come quella con la quale m’ero ormai imbarcata; ma la pratica m’aveva fatto diventar dura, e audace fino alla temerarietà; tanto più che, pur facendo io quel mestiere per tanto tempo, non mi avevano beccata mai; in poche parole, la mia nuova compagna di misfatti e io lavorammo per tanto tempo insieme, senza farci mai beccare, che non solo ci sentimmo sicurissime di noi, ma diventammo anche ricche, e arrivammo ad avere in mano nostra in una sola volta ventuno orologi d’oro.

Ricordo che un giorno in cui ero un po’ più riflessiva del solito, e mi resi conto d’avere a portata di mano un così discreto peculio, dato che la mia parte erano duecento sterline in contanti, mi venne fatto improvvisamente di pensare, senza dubbio grazie ad una buona ispirazione, che in principio era stata la povertà a spingermi, e che erano state le mie sventure a condurmi a così spaventevoli passi; ma, visto che quelle sventure erano ormai passate, che potevo anche procurarmi più o meno i mezzi di sussistenza lavorando, e che avevo un discreto capitale per mantenermi, perché dunque non mi ritiravo, come si dice, finché mi andava bene? Non potevo aspettarmi che m’andasse sempre liscia; e se una volta mi beccavano, e facevo fiasco, ero perduta.

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