Moll Flanders (Collins Classics) (54 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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In quell’ambascia non avevo nessuno, non un amico che mi confortasse o mi desse consiglio; me ne stavo in casa a piangere e a tormentarmi notte e giorno, torcendomi le mani, e a volte smaniando come una pazza; e per la verità mi sono spesso chiesta poi se in quei giorni avevo smarrito il senno, perché le mie smanie arrivavano a un tal punto che molte volte il mio intelletto si perdeva completamente in fantasie e incubi.

Vissi due anni in quella condizione infelice, spendendo il poco che avevo, continuando a piangere sulla mia cattiva sorte, e, per così dire, continuando soltanto a perder sangue, mortalmente ferita, senza speranza alcuna né prospettiva di ricevere il minimo aiuto da Dio e dagli uomini; e ormai avevo pianto tanto, e così spesso, che era come se non avessi più lacrime, e caddi nella peggiore disperazione, perché diventavo povera ogni giorno di più.

Per sollevarmi un poco, avevo lasciato la casa ed ero andata a pigione; e, riducendo il tenor di vita, vendetti la gran parte delle mie cose, e ciò mi mise in tasca un po’ di denaro, del quale vissi un altr’anno, spendendo con eccezionale parsimonia e facendo durare tutto al massimo; pure, se mi guardavo avanti, mi sentivo spezzare il cuore per l’approssimarsi implacabile della povertà e del bisogno. Oh, che non si legga questa parte senza riflettere seriamente sulla situazione di chi è derelitto, e attanagliato dal bisogno, senza amici e senza pane; si penserà certamente non soltanto a risparmiare quello che si possiede, ma anche a chiedere l’aiuto del Cielo, facendo propria la preghiera dei saggi: “O Signore, non farmi povero, se non vuoi che rubi.”

Si abbia presente che il momento della sventura è un momento di tentazioni terribili, e che tutta la forza necessaria per resistervi se n’è andata; la povertà incalza, l’animo è reso disperato dalla sventura, e allora che resta da fare? Fu una sera, nella quale ero ridotta, potrei dire, all’ultimo rantolo, veramente sconvolta e fuori di me, fu quella sera che mi sentii spinta da non so che impulso, e fu come se realmente non capissi quel che facevo né perché: mi vestii (infatti avevo ancora dei vestiti molto belli) e uscii. Sono sicurissima che uscendo non avevo in mente nessun progetto; e non pensai dove andavo, né a far che cosa; ma, come fu il diavolo a farmi uscire e a tendermi l’esca, così fu certamente lui anche a condurmi in quel luogo, perché io non sapevo né dove andavo né che cosa facevo.

Vagando in quel modo, non sapevo dove diretta, passai accanto a una bottega di droghiere in Leadenhall Street, dove scorsi su un panchetto, proprio davanti al banco, un fagottino avvolto in una pezza bianca; vicino a quello c’era una cameriera che volgeva le spalle al fagotto e aveva gli occhi rivolti verso l’alto mentre quello che era, penso, l’apprendista del droghiere era in piedi sul banco, con una candela in mano, anche lui volgendo le spalle alla porta, e cercava di prendere dallo scaffale più alto qualcosa che gli serviva, e così erano tutti e due occupatissimi e assorti, e nel negozio non c’era nessun altro.

Fu quella l’esca; e il diavolo, che ho già detto aveva disposto la trappola, fu pronto ad incitarmi come se mi potesse parlare perché io ricordo perfettamente, e non lo dimenticherò mai, che fu come se una voce mi parlasse all’orecchio. “Prendi il fagotto, sbrigati, subito.” Non avevo ancora udito quelle parole che già avevo fatto un passo nel negozio e, voltando le spalle alla fanciulla, come se fossi lì per lasciar passare una carrozza nella via, misi una mano dietro di me, presi il fagotto, e via me ne andai con quello, senza che né la ragazza, né quel tale, né altri, si accorgessero di me.

È impossibile esprimere l’orrore dell’animo mio mentre lo facevo. Uscita, non ebbi il coraggio di correre, appena quello di affrettare il passo. Attraversai la strada, camminai fino al primo incrocio che trovai, mi pare che fosse una strada che scendeva a Fenchurch Street. Di là attraversai di nuovo, e feci tante vie e tante svolte, da non saper dire che vie erano né dove andavo; non sentivo il terreno sotto i piedi, infatti, e più ero lontana dal pericolo, più svelta andavo, finché, stanca e senza fiato, fui costretta a sedermi su una panchina davanti a un portone, e allora incominciai a riprendermi e mi resi conto d’essere arrivata nella Thames Street, vicino a Billingsgate. Mi riposai un po’, e proseguii; avevo il sangue in fiamme, e il cuore che mi batteva come per uno spavento improvviso. Insomma, ero in un tale stato di sorpresa che ancora non riuscivo a capire dove andavo né che cosa dovevo fare.

Dopo essermi a quel modo stancata a camminare per un tragitto lunghissimo, e così in fretta, incominciai a pensare di tornare al mio alloggio, dove arrivai verso le nove di sera.

A che fosse destinato quel fagotto, e per quale motivo fosse lì dove io l’avevo trovato, non lo sapevo; ma, quando potei aprirlo, vi trovai dentro un corredo di biancheria da parto, molto buona e quasi nuova, con merletti molto belli; c’erano anche una scodella d’argento da una pinta, un piccolo calice d’argento e sei cucchiai, con altra biancheria, una bella camicia, tre fazzoletti di seta, e nel calice, avvolti in un pezzo di carta, diciotto scellini e sei pence in moneta.

Per tutto il tempo che impiegai a svolgere quelle cose fui in preda ad una orribile sensazione di paura, la mente oppressa da un terrore tale, benché fossi assolutamente al sicuro, da non potersi dire. Mi sedetti, e scoppiai in un pianto dirotto.

“Dio,” dissi, “e che cosa sono diventata adesso? Ladra! Ecco, la prossima volta mi prenderanno, mi porteranno a Newgate, e sarò a posto per tutta la vita!”

E così dicendo continuai a piangere a lungo, e son certa che, povera com’ero, se non fosse stato per la paura, sarei andata a restituire quella roba; ma dopo un po’ mi passò. Così quella notte mi misi a letto, ma dormii poco; avevo in mente l’orrore di quel fatto, e per tutta la notte, e il giorno seguente, non capivo che dicevo e che facevo. Poi fui curiosa di sapere qualcosa del derubato, mi venne voglia di sapere se quella roba apparteneva a un poveretto oppure a una persona ricca. “Magari,” dissi, “può trattarsi di una povera vedova come me, che aveva impacchettato la sua roba per andarla a vendere e procurarsi un pezzo di pane per sé e la sua povera creatura, e adesso tutte e due stanno crepando di fame, col cuore spezzato, perché non hanno nemmeno quel poco che speravano di ricavarne.” E quel pensiero mi tormentò più di tutti gli altri, per tre o quattro giorni.

Ma i miei guai fecero tacere ogni altra considerazione, e la prospettiva di essere io a crepar di fame, prospettiva che si faceva ogni giorno più spaventosa per me, m’indurì a poco a poco il cuore. Mi pesava in modo particolare il pensiero d’essermi emendata, e di essermi, o così avevo sperato, pentita di tutte le mie cattive azioni del passato; avevo condotto una vita per bene, seria, ritirata, per diversi anni, ma adesso ero spinta dalla tremenda necessità del mio stato fin sulla soglia della perdizione, della rovina dell’anima e del corpo; e un paio di volte caddi in ginocchio pregando, come sapevo, Dio, che mi salvasse; ma non posso fare a meno di dirlo, le mie erano preghiere senza speranza. Non sapevo che fare; avevo soltanto paura, ero nel buio assoluto; e risolsi che della mia vita passata non m’ero pentita con sincerità, e che il Cielo aveva ora incominciato a punirmi in questa vita, prima di farmi giungere alla tomba, e stava per farmi diventare tanto sciagurata quanto ero stata cattiva.

Fossi andata avanti così, sarei magari divenuta un autentica penitente; ma avevo dentro di me, un diabolico consigliere che mi spingeva sempre a cercare di aiutarmi con i mezzi peggiori; così una sera mi tentò di nuovo, con lo stesso impulso cattivo che m’aveva detto “Prendi quel fagotto”, a uscire in cerca di quel che poteva capitare.

Uscii che era ancora giorno, e girovagai non sapevo dove, in cerca di non sapevo che, finché il diavolo mise sui miei passi un trabocchetto di tipo tremendo, quale non avevo mai incontrato prima. Camminando in Aldersgate Street, ecco una bella bambina che era andata alla scuola di ballo e stava tornando a casa, tutta sola; e il mio consigliere, da vero diavolo, mi spinse verso quella creatura innocente. Io rivolsi la parola alla bambina, che chiacchierò con me, e io la presi per mano e la condussi fino a un vicolo lastricato che portava alla Bartholomew Close, e la guidai in quella direzione. La bambina disse che quella non era la strada di casa sua. Io dissi: “Ma sì, cara, è questa, ti mostrerò la via di casa.” La bambina portava una collanina di ciondoli d’oro, e io ci avevo messo l’occhio sopra, e nel buio del vicolo mi fermai, fingendo di accomodare la mantellina della bambina che era slacciata, e le presi la collana, e la bambina non se ne accorse, e io la ripresi per mano. Lì, confesso, il diavolo mi suggerì di uccidere la bambina in quel vicolo scuro, perché non potesse gridare, ma il solo pensiero bastò a spaventarmi tanto che fui sul punto di cadere svenuta; feci voltare la bambina e le dissi di tornare indietro, perché non era quella la strada di casa sua.

La bambina disse che andava bene, e io entrai nella Bartholomew Close, poi svoltai per un altro passaggio che porta in Long Lane, e poi in Charterhouse Yard e in St. John Street; poi, traversato lo Smithfield, feci Chick Lane e Field Lane fino allo Holborn Bridge, dove, mescolandosi alla folla che passeggia sempre lì, era impossibile esser pescati; e feci così il secondo colpo della mia vita.

Il pensiero della seconda refurtiva scacciò ogni pensiero della prima, e tutte le riflessioni che avevo fatto si dissolsero in fretta; la miseria, come ho detto, mi aveva indurito il cuore, e il mio bisogno non mi faceva aver riguardo per nulla. L’ultima avventura non mi procurò troppo pensiero perché, siccome alla bambina non avevo fatto del male, mi dissi che avevo dato ai genitori una buona lezione per la negligenza da loro dimostrata nel far tornare a casa tutto solo quel povero agnellino, avrebbero imparato a preoccuparsi di più la prossima volta.

La collanina di ciondoli valeva fra le dodici e le quattordici sterline. Penso che prima fosse stata della madre, perché era troppo larga per la bambina, ma evidentemente la vanità della madre, che voleva far fare bella figura alla figlia alla scuola di ballo, l’aveva indotta a mettergliela; e senza dubbio la bambina aveva qualche cameriera che era stata mandata a prenderla, ma costei, giovane incosciente, poteva essersi messa con qualche giovanotto trovato per via, e così la povera piccola aveva vagabondato finché era caduta nelle mie mani.

Comunque, io alla bambina non feci alcun male; non le feci nemmeno paura, perché ero ancora d’animo gentile e non facevo nulla più di quanto, vorrei dire, la necessità mi costringeva a fare.

Ebbi molte avventure dopo quella, ma ero giovane del mestiere, e non sapevo come regolarmi, se non quando il diavolo mi faceva venire in mente qualche idea; e per la verità non era affatto avaro di idee, con me. Un’avventura ebbi che fu per me un vero colpo di fortuna. Passeggiavo per la Lombard Street, nella mezza luce della sera, verso la fine della Three King Court, quando all’improvviso mi viene incontro uno che correva come il lampo e getta dietro di me un fagotto che teneva in mano, mentre io ero in piedi sull’angolo della casa, alla svolta col vicolo. Gettandolo dice: “Signora, che Dio ti benedica, lascialo lì un momento,” e via scappa veloce come il vento. Dietro lui arrivano altri due, e subito dopo un giovanotto senza cappello, che gridava “Al ladro!”, e, dietro, altri due o tre ancora. Inseguivano così da presso quei due, che questi dovettero lasciar cadere quel che avevano, e uno nella confusione fu preso, l’altro riuscì a scappare.

Per tutto quel tempo io rimasi immobile, finché quelli tornarono indietro, trascinando il poveretto che avevano preso, e raccogliendo le cose che avevano trovato, molto soddisfatti d’aver recuperato il bottino e preso il ladro; e così mi passarono davanti, perché io, finché la folla non se ne fu andata, ebbi l’aria di una che stava solo lì a guardare.

Un paio di volte domandai che cosa succedeva, ma nessuno si dette la pena di rispondermi, nessuno si occupò di me; ma, quando la folla si fu tutta dispersa, io colsi il momento adatto per voltarmi, prendere quel che c’era dietro di me e avviarmi. Questo lo feci, per la verità, con fastidio minore di quanto m’era accaduto le altre volte di provare, perché stavolta non ero io che rubavo, era soltanto roba che mi capitava in mano. Rientrai sana e salva al mio alloggio con quel carico, che era composto da una pezza di seta nera con lustrini e da una pezza di velluto; questa era solo una parte di una pezza, misurava undici iarde; l’altra era una intera pezza da cinquanta iarde. Pare che avessero svaligiato la bottega di un merciaio. Dico svaligiato, perché la roba era tanta che la persero per via; la roba che fu recuperata era moltissima, credo che ci fossero almeno sei o sette pezze di seta. Come fossero riusciti a prender tanta roba io non saprei dire; ma, siccome, in fondo, io avevo solo derubato il ladro, non mi feci nessuno scrupolo di tenermi quella roba, e ne fui contentissima.

Per parecchio tempo la fortuna mi assistette, ed ebbi alcune altre avventure, con buon successo anche se con scarso utile, ma vivevo quotidianamente nel terrore che mi capitasse una disgrazia, e che certamente sarei finita impiccata. L’impressione che questo pensiero mi faceva era troppo forte per prenderlo alla leggera, e mi trattenne dal tentare alcune imprese che, per quel che ne sapevo, si potevano compiere con tutta tranquillità; una cosa però non posso omettere, che un giorno fu una grossa esca per me. Mi recavo spesso a passeggiare per i villaggi intorno alla città, per vedere se mi capitava qualcosa a portata di mano; e passando davanti a una casa vicino a Stepney vidi sul davanzale di una finestra due anelli, uno con un piccolo brillante, e l’altro un semplice anello d’oro, certo lasciati lì da una signora distratta, più danarosa che previdente, magari mentre si lavava le mani.

Passai diverse volte davanti alla finestra per cercar di capire se nella stanza c’era qualcuno o no, e non vidi nessuno, ma non ne ero ancora sicura. Mi venne in mente all’improvviso di bussare al vetro, come se volessi parlare con qualcuno dentro, e se qualcuno c’era si sarebbe di certo affacciato, e allora io gli avrei detto di toglier di lì quegli anelli, perché avevo visto che due tipi sospetti li avevano notati. Era un’ottima idea. Bussai un paio di volte e non venne nessuno, finché, visto l’orizzonte sgombro da ogni nube, io picchiai forte contro il pannello di vetro, lo ruppi facendo pochissimo rumore, presi i due anelli e me ne andai sana e salva portandomeli via. L’anello col brillante valeva tre sterline, l’altro nove scellini.

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