Authors: Dante
E io: “Per mezza Toscana si spazia
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un fiumicel che nasce in Falterona,
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e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr’ esso rech’ io questa persona:
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dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno,
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ché ’l nome mio ancor molto non suona.”
“Se ben lo ’ntendimento tuo accarno
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con lo ’ntelletto,” allora mi rispuose
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quei che diceva pria, “tu parli d’Arno.”
E l’altro disse lui: “Perché nascose
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questi il vocabol di quella riviera,
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pur com’ om fa de l’orribili cose?”
E l’ombra che di ciò domandata era,
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si sdebitò così: “Non so; ma degno
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ben è che ’l nome di tal valle pèra;
ché dal principio suo, ov’ è sì pregno
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l’alpestro monte ond’ è tronco Peloro,
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che ’n pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin là ’ve si rende per ristoro
di quel che ’l ciel de la marina asciuga,
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ond’ hanno i fiumi ciò che va con loro,
vertù così per nimica si fuga
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da tutti come biscia, o per sventura
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del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond’ hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
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che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, più degni di galle
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che d’altro cibo fatto in uman uso,
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dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
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ringhiosi più che non chiede lor possa,
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e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quant ella più ’ngrossa,
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tanto più trova di can farsi lupi
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la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per più pelaghi cupi,
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trova le volpi sì piene di froda,
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che non temono ingegno che le occùpi.
Né lascerò di dir perch’ altri m’oda;
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e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta
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di ciò che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo nepote che diventa
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cacciator di quei lupi in su la riva
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del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
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molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
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ne lo stato primaio non si rinselva.”
Com’ a l’annunzio di dogliosi danni
si turba il viso di colui ch’ascolta,
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da qual che parte il periglio l’assanni,
così vid’ io l’altr’ anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
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poi ch’ebbe la parola a sé raccolta.
Lo dir de l’una e de l’altra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
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e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo spirto che di pria parlòmi
ricominciò: “Tu vuo’ ch’io mi deduca
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nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi.
Ma da che Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso,
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che se veduto avesse uom farsi lieto,
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visto m’avresti di livore sparso.
Di mia semente cotal paglia mieto;
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o gente umana, perché poni ’l core
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là ’v’ è mestier di consorte divieto?
Questi è Rinier; questi è ’l pregio e l’onore
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de la casa da Calboli, ove nullo
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fatto s’è reda poi del suo valore.
E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
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tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno,
ché dentro a questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
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per coltivare omai verrebber meno.
Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
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quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
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verga gentil di picciola gramigna?
Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
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Federigo Tignoso e sua brigata,
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la casa Traversara e li Anastagi
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(e l’una gente e l’altra è diretata),
le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi
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che ne ’nvogliava amore e cortesia
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là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Bretinoro, ché non fuggi via,
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poi che gita se n’è la tua famiglia
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e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
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e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
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che di figliar tai conti più s’impiglia.
Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio
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lor sen girà; ma non però che puro
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già mai rimagna d’essi testimonio.
O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
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è ’l nome tuo, da che più non s’aspetta
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chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
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sì m’ha nostra ragion la mente stretta.”
Noi sapavam che quell’ anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
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facëan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando l’aere fende,
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voce che giunse di contra dicendo:
“Anciderammi qualunque m’apprende”;
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e fuggì come tuon che si dilegua,
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se sùbito la nuvola scoscende.
Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
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che somigliò tonar che tosto segua:
“Io sono Aglauro che divenni sasso”;
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e allor, per ristrignermi al poeta,
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in destro feci, e non innanzi, il passo.
Già era l’aura d’ogne parte queta;
ed el mi disse: “Quel fu ’l duro camo
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che dovria l’uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;
Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l’occhio vostro pur a terra mira;
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onde vi batte chi tutto discerne.”
Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
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e ’l principio del dì par de la spera
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che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
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vespero là, e qui mezza notte era.