Authors: Dante
Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
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barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto che stretto a consiglio
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par con colui c’ha sì benigno aspetto,
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morì fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate là come si batte il petto!
L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
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de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
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e quindi viene il duol che sì li lancia.
Quel che par sì membruto e che s’accorda,
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cantando, con colui dal maschio naso,
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d’ogne valor portò cinta la corda;
e se re dopo lui fosse rimaso
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lo giovanetto che retro a lui siede,
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ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote dir de l’altre rede;
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Iacomo e Federigo hanno i reami;
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del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte risurge per li rami
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l’umana probitate; e questo vole
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quei che la dà, perché da lui si chiami.
Anche al nasuto vanno mie parole
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non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,
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onde Puglia e Proenza già si dole.
Tant’ è del seme suo minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
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Costanza di marito ancor si vanta.
Vedete il re de la semplice vita
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seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:
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questi ha ne’ rami suoi migliore uscita.
Quel che più basso tra costor s’atterra,
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guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra
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fa pianger Monferrato e Canavese.”
Era già l’ora che volge il disio
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ai navicanti e ’ntenerisce il core
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lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
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che paia il giorno pianger che si more;
quand’ io incominciai a render vano
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l’udire e a mirare una de l’alme
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surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
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ficcando li occhi verso l’orïente,
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come dicesse a Dio: “D’altro non calme.”
“Te lucis ante”
sì devotamente
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le uscìo di bocca e con sì dolci note,
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che fece me a me uscir di mente;
e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
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avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
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ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
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certo che ’l trapassar dentro è leggero.
Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia reguardare in sùe,
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quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de l’alto e scender giùe
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due angeli con due spade affocate,
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tronche e private de le punte sue.
Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
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percosse traean dietro e ventilate.
L’un poco sovra noi a star si venne,
e l’altro scese in l’opposita sponda,
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sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernëa in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l’occhio si smarria,
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come virtù ch’a troppo si confonda.
“Ambo vegnon del grembo di Maria,”
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disse Sordello, “a guardia de la valle,
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per lo serpente che verrà vie via.”
Ond’ io, che non sapeva per qual calle,
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mi volsi intorno, e stretto m’accostai,
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tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello anco: “Or avvalliamo omai
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tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
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grazïoso fia lor vedervi assai.”
Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
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e fui di sotto, e vidi un che mirava
Temp’ era già che l’aere s’annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ’ miei
Nullo bel salutar tra noi si tacque;
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poi dimandò: “Quant’ è che tu venisti
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a piè del monte per le lontane acque?”
“Oh!” diss’ io lui, “per entro i luoghi tristi
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venni stamane, e sono in prima vita,
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ancor che l’altra, sì andando, acquisti.”
E come fu la mia risposta udita,
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Sordello ed elli in dietro si raccolse
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come gente di sùbito smarrita.
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
che sedea lì, gridando: “Sù, Currado!
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vieni a veder che Dio per grazia volse.”
Poi, vòlto a me: “Per quel singular grado
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che tu dei a colui che sì nasconde
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lo suo primo perché, che non lì è guado,
quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
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là dove a li ’nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre più m’ami,
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poscia che trasmutò le bianche bende,
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le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
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se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.
Non le farà sì bella sepultura
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la vipera che Melanesi accampa,
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com’ avria fatto il gallo di Gallura.”
Così dicea, segnato de la stampa,
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nel suo aspetto, di quel dritto zelo
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che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
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pur là dove le stelle son più tarde,
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sì come rota più presso a lo stelo.
E ’l duca mio: “Figliuol, che là sù guarde?”
E io a lui: “A quelle tre facelle
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di che ’l polo di qua tutto quanto arde.”
Ond’ elli a me: “Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
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e queste son salite ov’ eran quelle.”
Com’ ei parlava, e Sordello a sé il trasse
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dicendo: “Vedi là ’l nostro avversaro”;
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e drizzò il dito perché ’n là guardasse.
Da quella parte onde non ha riparo
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la picciola vallea, era una biscia,
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forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra l’erba e ’ fior venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e ’l dosso
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leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e però dicer non posso,
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come mosser li astor celestïali;
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ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.
Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
fuggì ’l serpente, e li angeli dier volta,
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suso a le poste rivolando iguali.