Authors: Dante
la qual fa del non ver vera rancura
nascere ’n chi la vede; così fatti
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vid’ io color, quando puosi ben cura.
Vero è che più e meno eran contratti
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secondo ch’avien più e meno a dosso;
e qual più pazïenza avea ne li atti,
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piangendo parea dicer: “Più non posso.”
“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
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non circunscritto, ma per più amore
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ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
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da ogne creatura, com’ è degno
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di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
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s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando
osanna
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così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
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sanza la qual per questo aspro diserto
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a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
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benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
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non spermentar con l’antico avversaro,
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ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
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ma per color che dietro a noi restaro.”
Così a sé e noi buona ramogna
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quell’ ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
disparmente angosciate tutte a tondo
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e lasse su per la prima cornice,
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purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
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di qua che dire e far per lor si puote
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da quei c’hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
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possano uscire a le stellate ruote.
“Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
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tosto, sì che possiate muover l’ala,
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che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
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quel ne ’nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
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al montar sù, contra sua voglia, è parco.”
Le lor parole, che rendero a queste
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che dette avea colui cu’ io seguiva,
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non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: “A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
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possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
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onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
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e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
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Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
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non so se ’l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
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che, non pensando a la comune madre,
ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
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e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
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ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
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per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
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poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra ’ morti.”
Ascoltando chinai in giù la faccia;
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e un di lor, non questi che parlava,
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si torse sotto il peso che li ’mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
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a me che tutto chin con loro andava.
“Oh!” diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,
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l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte
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ch’alluminar chiamata è in Parisi?”
“Frate,” diss’ elli, “più ridon le carte
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che pennelleggia Franco Bolognese;
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l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
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de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
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e ancor non sarei qui, se non fosse
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che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
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com’ poco verde in su la cima dura,
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se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
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tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
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sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
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la gloria de la lingua; e forse è nato
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
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di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
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e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
pria che passin mill’ anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
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al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia
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dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
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e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond’ era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
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fu a quel tempo sì com’ ora è putta.
La vostra nominanza è color d’erba,
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che viene e va, e quei la discolora
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per cui ella esce de la terra acerba.”
E io a lui: “Tuo vero dir m’incora
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bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
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ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”
“Quelli è,” rispuose, “Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
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a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
E io: “Se quello spirito ch’attende,
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pria che si penta, l’orlo de la vita,
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qua giù dimora e qua sù non ascende,
se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
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come fu la venuta lui largita?”
“Quando vivea più glorïoso,” disse,
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“liberamente nel Campo di Siena,
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
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si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
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ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
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Quest’ opera li tolse quei confini.”