Authors: Dante
Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
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quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
“O ben finiti, o già spiriti eletti,”
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Virgilio incominciò, “per quella pace
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ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,
ditene dove la montagna giace,
sì che possibil sia l’andare in suso;
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ché perder tempo a chi più sa più spiace.”
Come le pecorelle escon del chiuso
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a una, a due, a tre, e l’altre stanno
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timidette atterrando l’occhio e ’l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
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semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;
sì vid’ io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
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pudica in faccia e ne l’andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
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sì che l’ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
“Sanza vostra domanda io vi confesso
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che questo è corpo uman che voi vedete;
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per che ’l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
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cerchi di soverchiar questa parete.”
Così ’l maestro; e quella gente degna
“Tornate,” disse, “intrate innanzi dunque,”
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coi dossi de la man faccendo insegna.
E un di loro incominciò: “Chiunque
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tu se’, così andando, volgi ’l viso:
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pon mente se di là mi vedesti unque.”
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
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ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’ io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: “Or vedi”;
Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
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nepote di Costanza imperadrice;
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ond’ io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genetrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
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piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
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ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
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che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
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di me fu messo per Clemente allora,
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avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
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sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
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di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
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dov’ e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
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mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
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star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
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in sua presunzïon, se tal decreto
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più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
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come m’hai visto, e anco esto divieto;
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ché qui per quei di là molto s’avanza.”
Quando per dilettanze o ver per doglie,
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che alcuna virtù nostra comprenda,
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l’anima bene ad essa si raccoglie,
par ch’a nulla potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
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ch’un’anima sovr’ altra in noi s’accenda.
E però, quando s’ode cosa o vede
che tegna forte a sé l’anima volta,
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vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede;
ch’altra potenza è quella che l’ascolta,
e altra è quella c’ha l’anima intera:
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questa è quasi legata e quella è sciolta.
Di ciò ebb’ io esperïenza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
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ché ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io non m’era accorto, quando
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venimmo ove quell’ anime ad una
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gridaro a noi: “Qui è vostro dimando.”
Maggiore aperta molte volte impruna
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con una forcatella di sue spine
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l’uom de la villa quando l’uva imbruna,
che non era la calla onde salìne
lo duca mio, e io appresso, soli,
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come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e ’n Cacume
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con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
dico con l’ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
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che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro ’l sasso rotto,
e d’ogne lato ne stringea lo stremo,
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e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo
de l’alta ripa, a la scoperta piaggia,
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“Maestro mio,” diss’ io, “che via faremo?”
Ed elli a me: “Nessun tuo passo caggia;
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pur su al monte dietro a me acquista,
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fin che n’appaia alcuna scorta saggia.”
Lo sommo er’ alto che vincea la vista,
e la costa superba più assai
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che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso, quando cominciai:
“O dolce padre, volgiti, e rimira
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com’ io rimango sol, se non restai.”
“Figliuol mio,” disse, “infin quivi ti tira,”
additandomi un balzo poco in sùe
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che da quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi spronaron le parole sue,
ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
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tanto che ’l cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci ponemmo ivi ambedui
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vòlti a levante ond’ eravam saliti,
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che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
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poscia li alzai al sole, e ammirava
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che da sinistra n’eravam feriti.
Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava
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stupido tutto al carro de la luce,
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ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond’ elli a me: “Se Castore e Poluce
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fossero in compagnia di quello specchio
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che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodïaco rubecchio
ancora a l’Orse più stretto rotare,
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se non uscisse fuor del cammin vecchio.