Authors: Dante
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
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tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
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per cupidigia di costà distretti,
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che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
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Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
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color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
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d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
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e vedrai Santafior com’ è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
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vedova e sola, e dì e notte chiama:
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“Cesare mio, perché non m’accompagne?”
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
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e se nulla di noi pietà ti move,
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a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
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che fosti in terra per noi crucifisso,
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son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
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in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
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son di tiranni, e un Marcel diventa
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ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
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di questa digression che non ti tocca,
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mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
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ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
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S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
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l’antiche leggi e furon sì civili,
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fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
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non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
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hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
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vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
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ma con dar volta suo dolore scherma.
Poscia che l’accoglienze oneste e liete
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furo iterate tre e quattro volte,
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Sordel si trasse, e disse: “Voi, chi siete?”
“Anzi che a questo monte fosser volte
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l’anime degne di salire a Dio,
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fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.
Qual è colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond’ e’ si maraviglia,
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che crede e non, dicendo “Ella è…non è…,”
tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver’ lui,
“O gloria di Latin,” disse, “per cui
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mostrò ciò che potea la lingua nostra,
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o pregio etterno del loco ond’ io fui,
qual merito o qual grazia mi ti mostra?
S’io son d’udir le tue parole degno,
“Per tutt’ i cerchi del dolente regno,”
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rispuose lui, “son io di qua venuto;
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virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto
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a veder l’alto Sol che tu disiri
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e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è là giù non tristo di martìri,
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ma di tenebre solo, ove i lamenti
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non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
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che fosser da l’umana colpa essenti;
quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
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conobber l’altre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
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là dove purgatorio ha dritto inizio.”
Rispuose: “Loco certo non c’è posto;
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licito m’è andar suso e intorno;
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per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.
Ma vedi già come dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
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però è buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a destra qua remote;
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se mi consenti, io ti merrò ad esse,
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e non sanza diletto ti fier note.”
“Com’è ciò?” fu risposto. “Che volesse
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salir di notte, fora elli impedito
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d’altrui, o non sarria ché non potesse?”
E ’l buon Sordello in terra fregò ’l dito,
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dicendo: “Vedi? sola questa riga
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non varcheresti dopo ’l sol partito:
non però ch’altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
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quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
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mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso.”
Allora il mio segnor, quasi ammirando,
“Menane,” disse, “dunque là ’ve dici
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ch’aver si può diletto dimorando.”
Poco allungati c’eravam di lici,
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quand’ io m’accorsi che ’l monte era scemo,
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a guisa che i vallon li sceman quici.
“Colà,” disse quell’ ombra, “n’anderemo
dove la costa face di sé grembo;
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e là il novo giorno attenderemo.”
Tra erto e piano era un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
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là dove più ch’a mezzo muore il lembo.
Oro e argento fine, cocco e biacca,
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indaco, legno lucido e sereno,
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fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,
da l’erba e da li fior, dentr’ a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
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come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
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ma di soavità di mille odori
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vi facea uno incognito e indistinto.
“Salve, Regina”
in sul verde e ’n su’ fiori
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quindi seder cantando anime vidi,
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che per la valle non parean di fuori.
“Prima che ’l poco sole omai s’annidi,”
cominciò ’l Mantoan che ci avea vòlti,
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Di questo balzo meglio li atti e ’ volti
conoscerete voi di tutti quanti,
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che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che più siede alto e fa sembianti
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d’aver negletto ciò che far dovea,
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e che non move bocca a li altrui canti,