Lui fu colpito dal mio discorso; ne facemmo infatti argomento unico della nostra conversazione per quasi una settimana, durante il quale tempo io gli dimostrai come un libro stampato, come si dice, che era matematicamente impossibile, supponendo di comportarci ragionevolmente bene, non riuscire ad avere successo laggiù, in modo ottimo.
Poi gli dissi che cosa avrei fatto per raccogliere quella somma di trecento sterline o pressappoco; e discussi con lui che bella cosa sarebbe stata por fine alle nostre sventure e raggiungere finalmente nel mondo la posizione cui avevamo sempre aspirato; e aggiunsi che, dopo sette anni, se campavamo, potevamo affidare le nostre piantagioni in buone mani e ritornarcene qui a incassar le rendite, abitar qui e divertirci; gli feci l’esempio di molti che l’avevano già fatto, e ora vivevano a Londra in ottima situazione.
Insistetti insomma tanto, che quasi lo convinsi, ma alla fine saltò fuori un’altra storia: lui cambiò le carte in tavola e incominciò a parlare, suppergiù nello stesso senso, dell’Irlanda.
Mi disse che se un uomo voleva ridursi a vivere in campagna e non aveva il denaro necessario per acquistare il terreno, poteva trovare là per cinquanta sterline l’anno delle fattorie buone quanto quelle che qui si danno per duecento; tanto era il prodotto, e così ricca la terra, che non restava molto da fare, e potevamo essere sicuri di far la bella vita laggiù come chi in Inghilterra ha tremila sterline l’anno; lui aveva pensato di lasciar me a Londra e di andar lui a tentare in Irlanda; e, se riusciva a gettar le basi di una esistenza adeguata al rispetto che aveva per me, e non dubitava di riuscirci, ritornare a prendere me.
A quella proposta io ebbi una paura terribile che lui mi prendesse in parola, vale a dire mi facesse vendere la mia piccola rendita, come la chiamavo, e prendere i contanti e darli a lui perché andasse in Irlanda a fare il suo esperimento; ma lui era troppo bravo per chiedermeli, o per accettarli se glieli offrivo io; prevenne anzi la mia mossa, aggiungendo che intendeva andar lui a cercar fortuna in quel modo, e se s’accorgeva di riuscire a farcela, allora, unendo il mio al suo quando lo raggiungevo là, potevamo metterci insieme; ma non intendeva rischiare un solo scellino dei miei prima d’aver fatto la prova con poco, e mi assicurò che, se avesse visto che in Irlanda non c’era niente da fare, allora sarebbe tornato da me e avrebbe accettato il mio progetto per la Virginia.
Era così ostinato sul fatto che prima si doveva tentare il progetto suo, che io non potei contraddirlo; mi promise comunque di farmi aver sue notizie nel minor tempo possibile dal suo arrivo, di farmi sapere se le prospettive corrispondevano ai suoi progetti; e, se invece non v’erano probabilità di riuscita, io potevo allora darmi da fare per organizzare l’altro viaggio, e lui mi assicurava che in quel caso sarebbe ben volentieri venuto in America con me.
Non riuscii a ottenere da lui più di questo. Quelle discussioni, comunque, ci tennero occupati per quasi un mese, durante il quale io mi godetti la sua compagnia, che era per la verità la più divertente che io avessi conosciuto fino a quel momento della mia vita. In quel periodo lui mi narrò tutta la storia della sua vita, davvero stupefacente, tanto ricca di fatti diversi da poter essere argomento di un racconto molto più brillante, con tutte le sue avventure e le sue peripezie, di quanti ne ho visti stampati finora; ma avrò occasione di raccontare ancora di lui in seguito.
Ci separammo, infine, col massimo rammarico da parte mia; anche lui, per la verità, mi lasciò malvolentieri, ma doveva farlo per forza, aveva delle ottime ragioni per non venire a Londra, come compresi fin troppo bene qualche tempo dopo.
Gli detti un indirizzo al quale poteva scrivermi, anche se conservai il segreto maggiore e non mutai mai la mia decisione di non fargli sapere come mi chiamavo, chi ero, dove poteva trovarmi; lui, del pari, mi disse dove potevo scrivergli una lettera con la sicurezza che lui l’avrebbe ricevuta.
Venni a Londra il giorno dopo la nostra separazione, ma non mi recai direttamente al mio vecchio alloggio; per un’altra ragione che non dirò presi alloggio privatamente nella St. John’s Street, ovvero, come si dice comunemente, a St. Jones, vicino a Clerkenwell; lì, completamente sola, ebbi tutto l’agio di starmene a fare qualche seria riflessione sugli ultimi sette mesi del mio vagabondaggio, perché non meno di tanto ero stata lontana da Londra. Ai bei momenti che avevo passato col mio ultimo marito ripensavo con grande piacere; ma il piacere diventò molto minore quando poco tempo dopo mi accorsi che in realtà aspettavo un figlio.
Era quella una cosa preoccupante, per le difficoltà che mi vedevo dinanzi circa il luogo dove farmi accogliere per partorire; infatti a quei tempi una delle situazioni più difficili in cui potesse venirsi a trovare una donna priva d’amici in mezzo ad estranei era di non godere in quella circostanza di nessuna protezione, e io d’altronde protezione non ne avevo né potevo cercarne.
Mi ero durante tutto quel tempo preoccupata di mantenermi in corrispondenza con il mio onesto amico della banca, o meglio era stato lui a preoccuparsi di mantenersi in corrispondenza con me, mi aveva infatti scritto ogni settimana; e anche se non avevo speso il mio denaro tanto in fretta da aver bisogno di qualcosa da lui, tuttavia spesso gli avevo scritto per fargli sapere che ero viva. Avevo lasciato il mio indirizzo del Lancashire, cosicché le lettere che lui mi mandava mi venivano rispedite; e durante il mio ritiro a St. Jones ricevetti da lui una lettera molto devota nella quale mi informava che l’azione di divorzio contro sua moglie procedeva felicemente, anche se si era imbattuto in qualche difficoltà imprevista.
A me non dispiacque la notizia che quell’azione andava per le lunghe più del previsto; infatti io non ero ancora in grado di sposarlo, né ero così sciocca da sposarlo, come qualche altra si sarebbe arrischiata a fare, quando sapevo di aspettare un figlio da un altro uomo; tuttavia non volevo perderlo, e, in poche parole, decisi che l’avrei sposato, se lui restava della stessa idea, non appena mi sarei rimessa di nuovo in piedi. Mi appariva infatti probabile non aver più notizie dell’altro mio marito; e poiché questi aveva sempre insistito perché io mi rimaritassi, dichiarando che non se ne sarebbe tenuto offeso né mi avrebbe più reclamata, io non mi feci perciò scrupolo alcuno di decidere che l’avrei fatto se ci riuscivo, e se l’altro amico mio ci stava a concluder l’affare; e avevo buoni motivi per esser certa che ci stava, a giudicare delle lettere che mi scriveva, affettuose e devote oltre ogni dire.
Cominciavo ora a diventar grossa, le persone presso le quali ero a pigione se ne accorsero e, spingendosi fin dove i limiti della buona creanza lo consentivano, mi fecero sapere che pensassi a cambiar casa. Ciò mi mise in grande imbarazzo, e diventai molto triste perché non sapevo davvero che strada scegliere. Avevo del denaro, ma non avevo amici, e stavo per trovarmi con un bambino da mantenere sulle braccia, una contrarietà che fino a quel momento non mi era mai capitata, come appare dai fatti che della mia storia ho narrato finora.
Mentre così stavano le cose io caddi gravemente ammalata, e la mia malinconia rese la malattia più grave; si vide infine che era solo una febbre, ma la mia gran paura era di abortire. Non dovrei dir paura, perché in realtà di abortire sarei stata contenta, ma non riuscii mai ad accettare l’idea di far qualcosa per abortire, né di prender qualcosa che mi procurasse l’aborto; non potevo soffrire, ripeto, nemmeno l’idea.
Comunque, parlandone in casa, mi sentii fare dalla padrona di casa la proposta di mandare a chiamare una levatrice. Io sulle prime feci la ritrosa, poi acconsentii, ma le dissi che non avevo fra le mie conoscenze nessuna levatrice, perciò lasciai fare a lei.
A quanto pare la padrona di casa non era inesperta di casi simili quanto io in un primo momento avevo creduto, come ben presto si vedrà; mandò a chiamare una levatrice del tipo giusto, vale a dire il tipo giusto per me.
La donna si rivelò molto esperta del suo mestiere, voglio dire quello di levatrice; ma aveva anche un’altra specialità, nella quale era esperta come la maggior parte delle donne, se non di più. La mia padrona le aveva detto che io ero molto triste e che secondo lei era stata quella mia tristezza a farmi ammalare; e una volta, in mia presenza, le disse: “Signora B…” (rivolgendosi così alla levatrice), “io penso che i guai di questa signora siano piuttosto alla vostra portata, e di conseguenza se vi è possibile far qualcosa per lei, ve ne prego, fatelo, perché è una signora veramente per bene.” E detto ciò uscì dalla stanza.
Io non la capii bene, ma la levatrice si mise a spiegarmi per benino la faccenda, appena quella fu uscita. “Signora,” dice, “mi sembra che non abbiate capito quel che la padrona di casa voleva dire; quando l’avrete capito, però, non vi sarà per nulla bisogno che glielo diciate.
“Lei vuol dire che vi trovate in una situazione per cui vi imbarazza dover partorire e non avete piacere di esporvi, non occorre che io dica di più; ma posso dirvi che, se voi volete mettermi a parte di quel tanto che è opportuno del caso vostro, purché siate voi a farlo, visto che non voglio esser io a immischiarmi di tali cose, forse io sarò in grado di assistervi e di facilitarvi tutto; al punto da farvi passare ogni malinconica idea al riguardo.”
Tutto quel che diceva quella donna mi faceva bene, mi faceva rivivere, mi metteva il cuore in allegria; il sangue mi riprese a circolare, mi sentii diventata un’altra persona; ricominciai a mangiare, e subito stetti molto meglio. Quella disse ancora molte altre cose di quel medesimo genere, finché, dopo aver insistito perché io mi confidassi con lei e avermi promesso nel modo più solenne di mantenere il segreto, fece una pausa, come per vedere che impressione mi aveva fatto, e che cosa avevo io da dire.
Io mi rendevo conto anche troppo bene del bisogno che avevo di quella donna, per non accettare la sua offerta; le dissi che il caso mio stava in parte come pensava lei e in parte no, perché in realtà io ero sposata e un marito l’avevo, benché in quel momento lui si trovasse in una condizione così particolare, e così diversa, da non poter comparire.
Lei tagliò corto, disse che quello non era affar suo; per lei tutte le donne che capitavano sotto le sue cure erano donne sposate. “Se una donna ha un figlio,” dice, “significa che un padre c’è,” e che poi quel padre fosse il marito o non lo fosse non era affar suo; era invece affar suo assistere me in quella situazione, avessi marito o no. “Infatti, signora mia,” dice, “avere un marito che non può comparire è lo stesso che non averlo agli effetti pratici; e di conseguenza che voi siate una moglie o un’amica, per me è lo stesso.”
Capii subito che, sia che fossi una puttana sia che fossi una moglie, con lei dovevo passar da puttana, e perciò lasciai perdere. Le dissi che era vero quel che lei diceva, però, se dovevo dirle i casi miei, dovevo raccontarglieli com’erano; glielo riferii perciò nel modo più spiccio che potei, e conclusi a questo modo.
“V’infastidisco con tutto ciò, signora,” dissi, “non perché, come avete detto, abbia a che fare con ciò che vi riguarda, ma il mio scopo è di dirvi precisamente che a me non importa nulla farmi vedere, sia in pubblico che in privato, mi è del tutto indifferente; il mio problema è che non possiedo conoscenze in questa parte del paese.”
“Vi capisco, signora,” dice lei, “non potete valervi di nessuna protezione per evitare le intromissioni della parrocchia come avviene in tali casi, e forse,” dice, “non sapete bene che fare del bambino quando sarà nato.”
“Di questa seconda cosa,” dico io, “mi preoccupo meno che della prima.”
“Bene, signora,” dice la levatrice, “vi fidate di mettervi nelle mie mani? Io abito nel tal posto, e anche se io non prenderò informazioni su di voi, voi potete prenderle su di me. Mi chiamo B…, abito nella tal strada — e nominò una strada — dove c’è un’insegna con una culla. Faccio la levatrice di mestiere e ho molte signore che vengono a casa mia per partorire. Ho dato a quelli della parrocchia la mia garanzia in termini generici liberandoli da qualsiasi impegno nei confronti di tutto quel che viene al mondo sotto il mio tetto. Ora non ho da porvi che una domanda sola per tutta la faccenda, signora,” dice, “e se risponderete a questa, per tutto il resto potrete star tranquilla.”
Io capii subito che cosa voleva dire, e dissi: “Signora, credo di capirvi. Grazie a Dio, pur non avendo amici in questa parte del mondo, non mi manca tuttavia il denaro, almeno per le mie necessità, anche se non ne ho in enorme abbondanza,” e questo lo aggiunsi perché non volevo si attendesse grandi cose.
“Bene, signora,” dice lei, “questo è effettivamente il punto, perché senza ciò non c’è nulla da fare in questi casi; tuttavia,” dice, “vedrete che io non approfitterò di voi, né vi chiederò nulla più del giusto; anzi, se vi fa piacere, potrete saper tutto in precedenza, in modo da regolarvi come vi pare meglio, spendendo di più o di meno secondo la vostra opportunità.”
Le dissi che lei si rendeva conto così bene della mia situazione che io mi limitavo a chiederle una sola cosa, e cioè, poiché le avevo già detto d’aver denaro a sufficienza ma non in grande quantità, che lei mi mettesse in grado di evitare il più possibile le spese superflue.
Lei rispose che mi avrebbe portato una nota in due o tre varianti, come un conto spese, e io avrei potuto scegliere come mi pareva; io la pregai di fare appunto così.
Me la portò il giorno dopo, e la copia dei tre fogli era come segue:
St.
sc.
1. Pigione di tre mesi in casa sua, vitto compreso, a dieci scellini la settimana.
—
2. Balia per i trenta giorni, e uso di biancheria per il letto della madre.
3. Prete per il battesimo, padrini e scrivano.
4. Cena di battesimo, con cinque invitati.
—
Suo compenso di levatrice e sistemazione della faccenda con la parrocchia.
Alla sua cameriera per il servizio
—
Quello era il primo conto; il secondo era nei medesimi termini:
St.
sc.
1. Tre mesi di pigione, vitto, ecc., a venti scellini la settimana.