Moll Flanders (Collins Classics) (27 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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La prima riflessione sensata che feci fu che mio marito non era accanto a me ad accorgersi del mio turbamento, e di ciò fui molto lieta. Quei signori non restarono nella casa troppo tempo senza venire ad affacciarsi, come si fa di solito, alla finestra: ma la mia finestra, potete giurarci, era chiusa. Non potei comunque fare a meno di spiare attraverso la finestra, e, lo vidi di nuovo, lo sentii chiamare uno dei servi della locanda per chiedere qualcosa di cui aveva bisogno, ebbi ogni più tremenda conferma possibile del fatto che era proprio lui.

Il mio primo pensiero fu cercar di sapere, se possibile, che cosa faceva lì; ma non fu possibile. Ora mi veniva in mente un pensiero spaventevole, ora un altro; più volte pensai che mi avesse scoperta e volesse rinfacciarmi la mia ingratitudine e la mia infedeltà; ad ogni momento mi figuravo che stesse salendo le scale per venirmi ad insultare; e nella mia mente fantasticavo di innumerevoli cose che invece a lui non potevano affatto passare per la mente, a meno che gliele avesse svelate il diavolo.

Restai in quello stato di terrore per quasi due ore, senza riuscire a staccare gli occhi dalle finestre e dalla porta della locanda in cui stavano quelli. Alla fine, sentendo un forte clamore all’ingresso della loro locanda, corsi alla finestra e, con mia viva soddisfazione, li vidi uscire tutti e tre e rimettersi in viaggio verso ovest. Si fossero diretti verso Londra, io sarei rimasta nel terrore d’incontrarlo ancora lungo la strada e d’essere riconosciuta da lui; ma lui se ne andò dall’altra parte, e così il turbamento mi passò.

Decidemmo di partire il giorno dopo, ma alle sei di sera fummo messi in allarme da un grande chiasso nella strada, e da gente che correva come impazzita; davano la caccia, gridando il bando di cattura, a tre banditi che avevano rapinato due diligenze e un certo numero d’altri viaggiatori presso Dunstable Hill, e a quanto pare s’era saputo che li avevano visti a Brickhill in una certa locanda, e cioè nella locanda dov’erano scesi quei tre.

La casa fu immediatamente occupata e perquisita, ma c’erano molti in grado di testimoniare che quei signori se ne erano andati da più di tre ore. Come si fu raccolta una folla, sapemmo subito tutto; e io fui presa allora da un’altra preoccupazione.

Dissi subito a quelli che erano in casa che mi arrischiavo a dire che le persone ricercate non potevano essere quelle tre, perché uno di quei signori io lo conoscevo per una persona onestissima, detentore di un grosso patrimonio nel Lancashire.

Il gendarme che era giunto col bando di cattura ne fu immediatamente informato, e venne subito da me per sentirlo dalla viva voce, e io gli garantii che stando alla mia finestra avevo visto quei tre signori, li avevo poi rivisti alla finestra della camera dove avevano pranzato, e li avevo infine visti rimontare a cavallo; e potevo assicurargli che sapevo che uno era il tale, e cioè un ricco gentiluomo, persona al di sopra di ogni sospetto, nel Lancashire, donde appunto io venivo.

Il tono di sicurezza col quale lo dissi colpì quella masnada e convinse il gendarme al punto che costui subito suonò la ritirata, dicendo che aveva saputo che quelle erano persone per bene, non erano i tre che cercavano; e se ne andarono via tutti. Quale fosse la verità io non lo sapevo, ma di sicuro c’era solo che le diligenze presso Dunstable Hill erano state rapinate, e cinquecentosessanta sterline in contanti rubate; per di più, anche alcuni dei mercanti di merletti che viaggiano sempre da quelle parti erano stati assaliti. Quanto ai tre gentiluomini, la spiegazione verrà in seguito.

Quell’allarme ci fece fermare un altro giorno, benché il mio sposo fosse dell’idea di rimetterci in viaggio subito, e mi disse che era sempre la cosa più prudente viaggiare dopo che era stata compiuta una rapina, perché si poteva star certi che dopo aver gettato l’allarme nella zona i ladri se n’erano andati lontano; ma io avevo paura e non me la sentivo, perché soprattutto temevo in realtà che la mia vecchia conoscenza si trovasse ancora per via e avesse l’occasione di vedermi.

Non trascorsi mai quattro giorni più belli in vita mia. In quei giorni non ero altro che una sposa, e il mio novello sposo faceva ogni sforzo per farmi sentire in tutto a mio perfetto agio. Oh, fosse potuto continuare quel genere di vita, quanto facilmente avrei scordato i guai passati e scongiurato le tribolazioni avvenire! Ma avevo tutta una esistenza infame della quale pagare il fio, parte in questo mondo e parte in un altro.

Partimmo il quinto giorno; il padrone della locanda, siccome non mi vide tranquilla, salì a cavallo anche lui, col figlio e tre onesti campagnoli, tutti muniti di buone armi da fuoco; e senza dircelo, seguirono la carrozza finché ci videro arrivare sani e salvi a Dunstable. Noi, a Dunstable, non potemmo fare a meno di ringraziarli moltissimo, il che costò al mio sposo dieci o dodici scellini, più qualcos’altro che dette agli uomini per il loro tempo, ma il padrone della locanda non volle nulla per sé.

Fu quella la combinazione migliore che potesse capitarmi; infatti, se fossi arrivata a Londra senza essermi prima sposata, o avrei dovuto stare a casa sua la prima notte, oppure avrei dovuto rivelargli che non conoscevo in tutta la città di Londra nessuno in grado di ospitare una povera sposa per la prima notte di nozze con il suo sposo. Ma ora, essendo una donna sposata di una certa età, io non mi feci scrupolo di andare direttamente a casa con lui, e là presi subito possesso di una casa benissimo arredata, nonchè di un marito in floride condizioni, cosicché mi si apriva la prospettiva di una vita felice, se ci sapevo fare; e mi dava soddisfazione poter calcolare il valore della vita che mi accingevo a intraprendere. Com’era diverso questo dall’esistenza sregolata e trista che avevo prima condotto, e quanto è più felice una vita virtuosa e per bene di quella che si chiama vita di piacere.

Oh, fosse durato a lungo quel capitolo della mia esistenza, avessi io almeno appreso da quel momento ad apprezzarla, a gustarne la vera dolcezza, e non fossi ricaduta nella miseria che della virtù è la tomba certa, quanto sarei stata felice, e forse non solo in questo mondo, ma per sempre!, perché in quel periodo ero veramente pentita di tutta la mia vita passata. Mi voltavo a guardare indietro inorridendo, addirittura, direi, provando disprezzo per me stessa. Spesso riflettevo come il mio amante di Bath, colpito dalla mano di Dio, si fosse pentito e mi avesse lasciata, rifiutandosi di vedermi più, benché mi amasse moltissimo; ma io, spinta dal peggiore dei demonii, la miseria, ero tornata all’ignobile mestiere e m’ero servita di quel che si dice un volto grazioso come risorsa per i miei bisogni, e della bellezza come ruffiana per il vizio.

Ora pareva che fossi sbarcata in un porto sicuro, dopo che s’era concluso il tempestoso viaggio della mia vita passata, e incominciavo a esser molto felice della mia liberazione. Passavo molte ore da sola, seduta a piangere sui ricordi delle trascorse follie, sulle spaventose stravaganze di una vita corrotta, e qualche volta mi lusingavo di essere sinceramente pentita.

Ma vi sono tentazioni alle quali non è in facoltà della natura umana resistere, e pochi si rendono conto di quella che sarebbe la loro sorte se si trovassero nelle medesime circostanze. Come la cupidigia è la radice del male, così, secondo me, il peggiore dei trabocchetti è la miseria. Ma prima di fare queste considerazioni, è opportuno che io riferisca le mie esperienze.

Vivevo con questo marito nella più perfetta serenità; era un uomo tranquillo, ragionevole, per bene; era virtuoso, modesto e sincero, e negli affari diligente e corretto. I suoi affari si svolgevano in un giro ristretto, e il suo reddito era sufficiente per vivere con abbondanza una vita di livello medio; non dico al punto da aver la carrozza e fare, come si dice, sfoggio; ma io non m’aspettavo tanto, né ci tenevo. Infatti, poiché mi ripugnavano grandemente la leggerezza e la stravaganza di quella che era stata la mia vita precedente, avevo ora scelto di condurre una vita ritirata, semplice, per nostro conto. Non avevo amicizie, non facevo visite; badavo alla mia famiglia ed ero devota a mio marito; e quel tipo di vita diventò per me un piacere.

Vivemmo così un periodo di agio e contentezza, senza interruzione per cinque anni, quando un colpo improvviso vibrato da una mano quasi invisibile fece crollare tutta la mia felicità e mi ributtò nel mondo in una situazione opposta a quella in cui ero stata fino a quel momento.

Mio marito aveva affidato a uno dei suoi colleghi d’impiego una somma di denaro, più grossa della perdita che le nostre sostanze ci consentivano d’affrontare: quell’impiegato fallì, e la perdita ricadde pesantemente su mio marito, e tuttavia non era nemmeno una perdita così enorme da non poter lui, avendo l’animo e il coraggio di guardare in faccia la propria sventura, rifarsi con facilità, come gli dicevo io, perché godeva di molto credito; piegarsi sotto le calamità è, infatti, il modo migliore di raddoppiarne il peso, si rovina sempre chi vuole rovinarsi.

Fu inutile parlargli in modo ragionevole; il colpo lo aveva ferito troppo profondamente; era stata una pugnalata che l’aveva toccato in un organo vitale; diventò malinconico e disperato, cadde in una specie di letargo, e morì. Io previdi l’uragano, e mi trovai in una tremenda condizione di spirito, perché capivo benissimo che, se moriva lui, ero rovinata.

Avevo avuto da lui altri due figli, e non di più, perché, per dir la verità, cominciava a esser tempo per me di non farne più, avevo ormai quarantotto anni, e credo che anche se lui fosse vissuto non avrei avuto altri figli.

Ero ridotta ora in una condizione brutta e disperata, per molti versi la peggiore che mai. In primo luogo, era passata per me la fiorente età nella quale potevo attendermi che qualcuno mi corteggiasse e mi prendesse per amante; quelle belle cose erano da tempo in declino, di quel che era stato si scorgevano ormai soltanto le rovine; e in tutto ciò la cosa peggiore era che mi capitava d’essere la persona più derelitta e disperata del mondo. Io che avevo fatto coraggio a mio marito, e m’ero adoperata per dargli forza d’animo nel suo guaio, non ero capace adesso di sopportare il mio; mi mancava, nel momento della calamità, proprio quell’animo, che a lui avevo detto quanto fosse necessario per reggere il peso delle difficoltà.

Ma il caso mio era davvero lamentevole, perché ero rimasta completamente senza amici e senza aiuto, e la perdita sofferta da mio marito aveva talmente ridotto le sue sostanze che io, pur non avendo in verità debiti, potevo facilmente capire che quanto era rimasto non sarebbe bastato a mantenermi a lungo; mentre scemava ogni giorno un po’ per le spese del mantenimento, io non ero in grado di farlo crescere di un solo scellino, e così, ben presto, sarebbe stato speso tutto, e io non mi vedevo dinanzi altro che la sventura peggiore; questa mi si presentava alla mente con tale evidenza che era come se fosse già arrivata, addirittura prima che fosse vicina; ed anche quell’angoscia raddoppiava la mia miseria, perché ogni moneta da sei pence che spendevo per una forma di pane mi pareva l’ultima moneta che possedessi al mondo, e mi vedevo per l’indomani già costretta a digiunare e a crepar di fame.

In quell’ambascia non avevo nessuno, non un amico che mi confortasse o mi desse consiglio; me ne stavo in casa a piangere e a tormentarmi notte e giorno, torcendomi le mani, e a volte smaniando come una pazza; e per la verità mi sono spesso chiesta poi se in quei giorni avevo smarrito il senno, perché le mie smanie arrivavano a un tal punto che molte volte il mio intelletto si perdeva completamente in fantasie e incubi.

Vissi due anni in quella condizione infelice, spendendo il poco che avevo, continuando a piangere sulla mia cattiva sorte, e, per così dire, continuando soltanto a perder sangue, mortalmente ferita, senza speranza alcuna né prospettiva di ricevere il minimo aiuto da Dio e dagli uomini; e ormai avevo pianto tanto, e così spesso, che era come se non avessi più lacrime, e caddi nella peggiore disperazione, perché diventavo povera ogni giorno di più.

Per sollevarmi un poco, avevo lasciato la casa ed ero andata a pigione; e, riducendo il tenor di vita, vendetti la gran parte delle mie cose, e ciò mi mise in tasca un po’ di denaro, del quale vissi un altr’anno, spendendo con eccezionale parsimonia e facendo durare tutto al massimo; pure, se mi guardavo avanti, mi sentivo spezzare il cuore per l’approssimarsi implacabile della povertà e del bisogno. Oh, che non si legga questa parte senza riflettere seriamente sulla situazione di chi è derelitto, e attanagliato dal bisogno, senza amici e senza pane; si penserà certamente non soltanto a risparmiare quello che si possiede, ma anche a chiedere l’aiuto del Cielo, facendo propria la preghiera dei saggi: “O Signore, non farmi povero, se non vuoi che rubi.”

Si abbia presente che il momento della sventura è un momento di tentazioni terribili, e che tutta la forza necessaria per resistervi se n’è andata; la povertà incalza, l’animo è reso disperato dalla sventura, e allora che resta da fare? Fu una sera, nella quale ero ridotta, potrei dire, all’ultimo rantolo, veramente sconvolta e fuori di me, fu quella sera che mi sentii spinta da non so che impulso, e fu come se realmente non capissi quel che facevo né perché: mi vestii (infatti avevo ancora dei vestiti molto belli) e uscii. Sono sicurissima che uscendo non avevo in mente nessun progetto; e non pensai dove andavo, né a far che cosa; ma, come fu il diavolo a farmi uscire e a tendermi l’esca, così fu certamente lui anche a condurmi in quel luogo, perché io non sapevo né dove andavo né che cosa facevo.

Vagando in quel modo, non sapevo dove diretta, passai accanto a una bottega di droghiere in Leadenhall Street, dove scorsi su un panchetto, proprio davanti al banco, un fagottino avvolto in una pezza bianca; vicino a quello c’era una cameriera che volgeva le spalle al fagotto e aveva gli occhi rivolti verso l’alto mentre quello che era, penso, l’apprendista del droghiere era in piedi sul banco, con una candela in mano, anche lui volgendo le spalle alla porta, e cercava di prendere dallo scaffale più alto qualcosa che gli serviva, e così erano tutti e due occupatissimi e assorti, e nel negozio non c’era nessun altro.

Fu quella l’esca; e il diavolo, che ho già detto aveva disposto la trappola, fu pronto ad incitarmi come se mi potesse parlare perché io ricordo perfettamente, e non lo dimenticherò mai, che fu come se una voce mi parlasse all’orecchio. “Prendi il fagotto, sbrigati, subito.” Non avevo ancora udito quelle parole che già avevo fatto un passo nel negozio e, voltando le spalle alla fanciulla, come se fossi lì per lasciar passare una carrozza nella via, misi una mano dietro di me, presi il fagotto, e via me ne andai con quello, senza che né la ragazza, né quel tale, né altri, si accorgessero di me.

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