“Ma, signore,” dico io, “è facile dar consigli nel caso vostro, molto più che nel caso mio.”
“Parlate dunque,” dice lui, “ve ne prego, così mi date coraggio.”
“Ma,” dico io, “se il vostro caso è semplice come voi dite, potete divorziare legalmente e potete trovare quante donne volete che accettino tranquillamente la vostra proposta; ci sono abbastanza donne al mondo perché non dobbiate correre il rischio di restar senza moglie.”
“Bene, dunque,” dice lui, “parlo sul serio. Accetto il vostro consiglio. Ma posso, prima di tutto, rivolgervi con assoluta serietà una domanda?”
“Qualsiasi domanda,” dico io, “purché non si tratti di quella che m’avete già rivolta.”
“No, questa risposta non va bene,” dice lui, “perché, insomma, è proprio quella la domanda che vi voglio fare.”
“Potete chiedermi tutto quel che volete, ma per quella domanda la mia risposta l’avete già avuta,” dico io. “Inoltre, signore, potete giudicarmi così male da credere che io possa rispondere d’acchito a una simile domanda? Che cosa secondo voi dovrebbe pensare una donna, che fate sul serio o che volete prendervi gioco di lei?”
“Bene, bene,” lui dice, “io di voi non mi prendo affatto gioco, io parlo sul serio. Rifletteteci.”
“Ma, signore,” dico io con una certa solennità, “io sono venuta a trovarvi per gli affari miei. Vi prego dunque di dirmelo: che consiglio mi date?”
“Ve lo saprò dire,” lui dice, “a patto che voi ritorniate a trovarmi.”
“Già,” io dico, “ma voi mi avete ormai proibito di ritornare.”
“E perché?” dice lui, con un’aria stupita.
“Perché,” dico io, “non potete aspettarvi che io ritorni a farvi visita, dopo il genere di discorsi che m’avete fatto.”
“Bene,” dice lui, “promettetemi di ritornare da me, comunque, e io non vi parlerò più di questo finché non avrò ottenuto il divorzio, ma vorrei che voi vi preparaste ad essere meglio disposta, quando ciò avverrà, perché o sarete voi la donna, oppure io non divorzierò affatto; ve lo devo, non foss’altro, per la vostra gentilezza che non ha l’uguale; ma ho anche altri buoni motivi.”
Niente al mondo avrebbe potuto dire che mi facesse più piacere; tuttavia capivo che il modo migliore d’assicurarmi lui era quello di puntare i piedi finché la cosa era tanto lontana come appariva, e che c’era invece tutto il tempo per accettare quando lui sarebbe stato in grado di compiere effettivamente quel passo; gli dissi perciò, con molta deferenza, che c’era tempo per pensare a quelle cose quando lui si sarebbe trovato nella condizione adatta per poterne parlare; nel frattempo, gli dissi, io mi facevo da parte e mi toglievo dalla sua strada, e lui poteva trovarne quante voleva che gli piacessero. Ci salutammo per quella volta, e lui mi fece promettere di ritornare il giorno dopo, per sentire le sue decisioni al riguardo dei miei affari, e io dopo essermi fatta pregare un po’ promisi; ma fosse stato lui capace di leggermi dentro un po’ meglio, io da quel punto di vista non avevo troppo bisogno di farmi pregare.
Andai la sera dopo, come d’accordo, e condussi con me la mia cameriera, per far sapere a lui che avevo una cameriera, ma la mandai via subito, appena fui entrata in casa. Lui voleva che facessi restare la cameriera, ma io non volli, le detti ad alta voce l’ordine di tornare a prendermi alle nove. A questo lui però si oppose, e disse che m’avrebbe riaccompagnata lui a casa sana e salva, cosa che a me non faceva però troppo piacere perché mi figuravo volesse farlo per sapere dove abitavo e prendere informazioni sulla mia condizione sociale e sui fatti miei. Scelsi tuttavia di correre il rischio, perché tutto quel che la gente del vicinato sapeva di me era di mia convenienza. Il ritratto che lui ebbe di me, dopo aver preso informazioni, fu che ero una donna ricca e una persona virtuosa; fosse ciò vero o no in sostanza, potete tuttavia così comprendere quanto è necessario per una donna che voglia ottenere qualcosa dal mondo salvare della propria virtù la fama, anche quando non è rimasto altro da salvare, cioè tutto il resto l’ha già sacrificato.
Trovai, e la cosa mi fece non poco piacere, che lui aveva preparato la cena per me. Trovai anche che viveva molto bene, aveva una casa con mobili molto belli: di tutto ciò mi rallegravo davvero, perché mi pareva di poterla considerare roba mia.
Avemmo allora un secondo colloquio sulla falsariga del primo. Lui lasciò molto in disparte l’argomento affari; dichiarò il suo affetto per me, e io non avevo per la verità motivo di dubitarne; dichiarò che esso era nato fin dal primo momento in cui io gli avevo rivolto la parola, prima ancora che io dicessi di volergli affidare i miei affari.
“Non importa com’è incominciata;” io pensai, “basta che duri.”
Lui mi raccontò allora quanto la proposta che io gli avevo fatto di consegnargli i miei averi e lasciarli in mano sua, l’avesse conquistato.
“Questo è quel che avevo in mente,” io pensai, “ma allora credevo anche che tu non fossi ammogliato.”
Dopo che avemmo cenato, io mi accorsi che lui insisteva molto per farmi bere due o tre bicchieri di vino, cosa che io rifiutai, ma un bicchiere o due li bevvi. Lui disse allora che aveva da farmi una proposta e io dovevo promettergli di non avermela a male se non intendevo accettarla. Io dissi che speravo non volesse farmi nessuna proposta sconveniente, specialmente in casa sua, perché in tal caso preferivo non me la facesse addirittura, onde evitare a me di reagire in modo non appropriato alla considerazione che nutrivo per lui e alla fiducia che gli avevo dimostrato venendo in casa sua; lo pregai anche di darmi licenza d’andarmene, e così dicendo presi a infilarmi i guanti e a far le viste d’andare, anche se in verità non avevo più intenzione d’andarmene di quanta ne avesse lui di lasciarmi andar via.
Bene, lui insistette perché non parlassi nemmeno d’andarmene; mi assicurò che non c’era nulla di sconveniente nei suoi pensieri a mio riguardo, lontanissimo era dall’idea di farmi brutte proposte, e se io la pensavo così preferiva non parlarne più.
L’ultima cosa non fu di mio gusto. Gli dissi che ero pronta a sentire tutto quel che lui aveva da dire, a patto che non dicesse cose indegne di lui o inadatte alle mie orecchie. Al che lui mi disse che questa era la sua proposta: che io lo sposassi, anche se lui non aveva ancora ottenuto il divorzio da quella puttana di sua moglie; e per convincermi della onorabilità delle sue intenzioni, prometteva di non chiedermi di vivere con lui né di andare a letto con lui finché non sarebbe stato ottenuto il divorzio. In cuor mio io dissi subito di sì, fin dalle prime parole di quella proposta, ma bisognava giocare d’ipocrisia ancora un po’ con lui; feci perciò mostra di rifiutare l’offerta con un certo calore, e dopo aver condannato la cosa come poco bella gli dissi che quella proposta era priva di significato, serviva solo a cacciarci tutti e due in mezzo a grandissime difficoltà; infatti, se lui alla fine non riusciva a ottenere il divorzio, noi però non avremmo potuto né sciogliere il nostro matrimonio né andare tranquillamente avanti; sicché, se col divorzio gli andava male, lasciavo pensare a lui in che condizione ci saremmo venuti a trovare tutti e due.
In breve, continuai portando tanti argomenti contrari da convincere lui che quella proposta non aveva senso. Lui, allora, saltò da una cosa ad un’altra, e questa fu che firmassi con lui un contratto, che, non appena si sarebbe ottenuto il divorzio, mi impegnava a sposarlo e, se il divorzio non si otteneva, sarebbe stato nullo.
Io gli dissi che questa era una cosa più ragionevole dell’altra; ma siccome era la prima volta che lo vedevo intenerirsi con l’aria di parlar sul serio di quella storia, non mi parve il caso di risponder subito sì a quella prima richiesta; ci avrei pensato su.
Giocai con quell’innamorato come fa il pescatore di lenza con la trota, mi accorsi che aveva abboccato all’amo e perciò gettai in burla la sua nuova proposta, gli detti filo. Gli dissi che lui sapeva troppo poco di me, doveva prendere informazioni. Gli permisi anche di riaccompagnarmi fino a casa mia, però non lo invitai ad entrare, perché, gli dissi, non sarebbe stato corretto.
In breve, riuscii ad evitare di firmare un contratto di nozze, e il motivo per cui mi comportai così fu che la signora che m’aveva calorosamente invitato a partire con lei per il Lancashire insisteva con quell’idea, e mi prometteva laggiù tali fortune e tante belle cose che io ero tentata di andare a provare. “Magari,” mi dicevo, “mi metterò completamente a posto.” E non mi facevo perciò scrupolo alcuno in cuor mio di abbandonare il mio onesto cittadino, che non amavo al punto da non poterlo lasciare per uno più ricco.
Evitai, in poche parole, il contratto; ma a lui dissi che partivo per il nord e che gli avrei fatto sapere dove scrivermi in relazione agli affari dei quali l’avevo incaricato; gli davo una prova sufficiente della considerazione in cui lo tenevo, perché lasciavo in mano sua quasi tutto quello che possedevo al mondo; e allo stesso modo gli davo la mia parola che, appena sarebbe riuscito ad ottenere il divorzio dalla prima moglie, se me l’avesse fatto sapere, io sarei venuta a Londra, e allora ne avremmo riparlato seriamente.
Era per un basso disegno che io partivo, lo confesso, benché fossi stata invitata colà per disegni ancora più bassi dei miei, come il seguito del racconto mostrerà. Partii dunque con la mia amica, così la chiamavo, per il Lancashire. Per tutto il viaggio lei mi vezzeggiò con la dimostrazione di un affetto sincero, totale per me; si occupò di tutto lei, meno il noleggio della carrozza; e il fratello venne a prenderci a Warrington con una carrozza signorile, e di lì fummo condotte a Liverpool con ogni cerimonia, che di più non potevo desiderare. Fummo anche ospitate molto bene per due o tre giorni in casa di un mercante di Liverpool; evito di fare il suo nome, a motivo di quel che avvenne poi. La mia amica infine mi disse che mi conduceva a casa di un suo zio, dove saremmo state trattate con ogni riguardo. Così fece; lo zio, così lei lo chiamava, ci mandò una carrozza a quattro cavalli, e fummo portate a una quarantina di miglia di distanza non so dove.
Giungemmo, comunque, alla residenza di un gentiluomo, dove trovammo una famiglia numerosa, un grande parco, una compagnia davvero eccezionale, e la mia amica veniva chiamata cugina. Io le dissi che se aveva pensato di condurmi in mezzo a una tal compagnia avrebbe dovuto darmi il modo di prepararmi e di rifornirmi di vestiti migliori. Le signore lo seppero e con grande delicatezza mi dissero che da loro in provincia non si valutava la gente per il vestito come a Londra; la loro cugina le aveva informate dei miei meriti e io non avevo bisogno di vestiti per presentarmi; in breve, mi trattavano non per quel che ero, ma per quel che credevano che io fossi, vale a dire una vedova molto ricca.
La prima cosa che scoprii lì fu che tutti in famiglia erano cattolici romani, anche il cugino che io trattavo come amico mio; devo comunque dire che nessuno al mondo avrebbe potuto comportarsi meglio con me, e io mi vedevo dimostrare le stesse civili attenzioni che se fossi stata della stessa credenza loro. La verità è che io non avevo principi di nessun genere che mi conducessero ad avere un’idea speciale in fatto di religione, e subito presi a parlare con simpatia della Chiesa Romèa; in particolare, dissi loro che vedevo solo un danno per l’educazione in tutte le diversità che esistono fra cristiani in fatto di religione, e se fosse capitato che mio padre fosse stato cattolico romano, io non avevo dubbi che mi sarei trovata bene con la loro religione come con la mia.
Ciò me li conquistò in sommo, grado, e io mi trovai giorno e notte assediata dalla bella compagnia e occupata in piacevoli conversazioni, al punto che due o tre signore mi stavano sempre addosso per la storia della religione. Io ero così compiacente che, pur senza impegnarmi del tutto, non mi facevo scrupolo di assistere alla loro messa e di uniformarmi a tutti i gesti di cui loro mi davano l’esempio; ma non ero disposta a cedere completamente per tanto poco, e perciò mi limitai a far loro sperare che mi sarei convertita al cattolicesimo romano se avessi ricevuto un’istruzione in quella che loro chiamano dottrina cattolica, e la cosa restò lì.
Rimasi colà circa sei settimane; poi la mia guida mi condusse in un villaggio di campagna, a circa sei miglia da Liverpool, dove suo fratello (così lei lo chiamava) venne con la sua carrozza a farmi visita, in gran pompa per la verità, e con due paggi in livrea; e subito si mise a farmi la corte. Per quel che avevo già passato, uno penserebbe che non ero il tipo da farmi imbrogliare, e anch’io lo pensavo, visto che avevo da parte una buona carta della quale avevo deciso di non privarmi prima d’esser riuscita a mettermi davvero a posto. All’apparenza, però, quel fratello era un partito che valeva la pena di prendere in considerazione, al minimo le sue rendite si valutavano sulle mille sterline l’anno, ma la sorella diceva che ne valevano millecinquecento e che la gran parte venivano dall’Irlanda.
A me che ero tanto ricca, o almeno per tale passavo, non ci si poteva azzardare a chieder conto della consistenza delle mie ricchezze; e la mia falsa amica, muovendo da una voce infondata, aveva già fatto salire la mia rendita da cinquecento sterline a cinquemila, e quando arrivammo in quel paese diceva che erano quindicimila. L’irlandese, come presto m’accorsi che quel tale era, abboccò ciecamente a quell’esca; a farla breve, mi corteggiò, mi fece regali, s’indebitò come un pazzo per le spese dell’equipaggio e del corteggiamento. A onor suo va detto che aveva l’apparenza di un signore eccezionalmente per bene; era alto, ben fatto, e aveva una parlantina straordinaria; parlava con tutta naturalezza del suo parco, delle sue stalle, dei cavalli, del guardacaccia, dei boschi, dei suoi fattori e dei suoi servi, come se ci fossimo trovati nel suo palazzo, e a me sembrava di aver tutto davanti agli occhi.
Non si sognò mai di pormi domande sul mio patrimonio né sulle mie rendite, ma mi assicurò che, quando saremmo andati a Dublino, mi avrebbe procurato un buon terreno da seicento sterline di rendita l’anno; potevamo fin d’ora fare un accordo o un contratto per concludere l’affare.
Era quello, per la verità, un modo di parlare al quale non ero avvezza, e con tutte le mie risorse ero già sconfitta. Avevo accolto nel mio cuore un demonio femmina, che ad ogni istante mi ripeteva che gran bella vita faceva suo fratello. Una volta veniva a domandarmi di che colore volevo dipinte le mie carrozze, come le volevo decorate; un’altra volta, che abito doveva portare il mio paggio; a farla breve, a me girava la testa. Avevo perduto ormai ogni possibilità di dir di no, e, per far breve la storia, accettai di sposarmi; ma, per maggiore riserbo, fummo condotti più verso l’interno della provincia e sposati da un prete cattolico romano, che mi si assicurò era in grado di sposarci validamente quanto un prete della Chiesa d’Inghilterra.