Prese la maschera di Ek Chuah e se la piazzò di fronte.
«Mi chiedo se approveresti, ragazzo mio,» disse ad alta voce. «No, tu eri il dio dei mercanti. Il nostro amico è piuttosto un alleato di Quetzalcoatl, non è così? Il grande serpente piumato. La stella del mattino e della sera. Il grande scopritore del mais. Il dio per cui il sangue deve scorrere a fiotti, così che l'universo possa essere risparmiato.»
Posò la maschera e si appoggiò allo schienale della sedia mentre il suo viso s'induriva di nuovo. Kate non dovrebbe aiutare la polizia, pensò. Questa faccenda non la riguarda affatto.
Seduta alla sua scrivania, Kate cominciò a compilare una lista delle cose da sbrigare prima della partenza per il Messico. Avrebbe voluto poter rimandare tutto all'indomani mattina. In fondo il volo partiva soltanto nel primo pomeriggio e lei stava cercando di convincersi che quelle poche ore le sarebbero state sufficienti per organizzarsi. Ma naturalmente non era così. La mattina sarebbe stata interamente occupata dalle mille istruzioni dell'ultimo momento di Grace, per esempio su come impacchettare certi oggetti, sui documenti di provenienza che dovevano accompagnarne altri, perfino suggerimenti su come trattare con i collaboratori del museo di Città del Messico e a quali tra loro avrebbe dovuto riservare una particolare deferenza. Il pensiero di come la politica intemazionale dei musei fosse parte importante anche nel lavoro più banale le strappò un debole sorriso.
No, non poteva rimandare nulla al mattino dopo, e abbassata la testa sul taccuino cominciò a ricontrollare la lista degli abiti che avrebbe portato con sé.
Sebbene non fosse stata completamente onesta nel dire a Grace che avrebbe preferito rifiutare la proposta di Rolk, doveva ammettere che la prospettiva del viaggio le causava sentimenti contrastanti. L'idea di immergersi ancora più a fondo nell'orrore che li circondava la inquietava, la spaventava perfino. D'altro canto, quel viaggio rappresentava in un certo senso un'avventura e sarebbe stato eccitante trovarsi di fronte a una realtà tanto lontana dalla sua esperienza, ma che lei aveva una necessità quasi intellettuale di comprendere. E poi c'era Rolk, anche se questo era un aspetto della faccenda a cui
non
voleva pensare.
Terminato che ebbe di controllare l'elenco, aprì la ventiquattrore e si accertò di avervi già infilato i biglietti aerei e gli appunti sulla documentazione che doveva portarsi dietro. Documentazione, rifletté, che l'avrebbe tenuta occupata la sera, ossia, in altre parole, che l'avrebbe aiutata a tenersi lontana da un poliziotto che cominciava a trovare un po' troppo interessante.
Sorridendo delle proprie inquietudini, Kate si alzò e presa la cartella di appunti lasciò l'ufficio con un passo brioso, che tuttavia non rispecchiava pienamente il suo stato d'animo.
Usando la sua chiave, aprì la porta del laboratorio precolombiano. Quando pigiò l'interruttore la stanza fu inondata da una luce cruda, fluorescente, che rendeva nettissimi i contorni degli oggetti sparpagliati sui tavoli da lavoro. Le lunghe file di scaffali traboccavano di studi su reperti dell'epoca precolombiana, non solo quelli ospitati nel museo, ma anche pezzi di grande importanza disseminati in numerose nazioni.
Kate andò direttamente al catalogo delle schede e cominciò a esaminare quelle che le interessavano, soffermandosi sui dati che le avrebbero permesso di lavorare bene e in fretta, una volta in Messico.
Lavorò per più di un'ora, così totalmente concentrata da non accorgersi neppure dei saluti e dei commenti dei colleghi che continuavano a entrare e uscire. Chiusa l'ultima cartella, Kate esitò qualche istante, riesaminando mentalmente quanto aveva letto, poi la rimise al suo posto. Quando controllò l'ora, la sorprese constatare come fosse passato in fretta il tempo, ma era soddisfatta del lavoro sbrigato, sapendo che ora la giornata seguente sarebbe stata molto meno frenetica.
Un fruscio all'altra estremità della stanza la fece trasalire; possibile che si fosse estraniata al punto da non accorgersi che non era sola? Rimase immobile ad ascoltare, ma non udì più nulla. Colpa della tua immaginazione sovreccitata, si disse allora, imboccando lo stretto passaggio fra due scaffalature. Poi lo sentì di nuovo, questa volta più debole, simile a un fruscio di stoffa o al suono di una lampadina sul punto di spegnersi, un sibilo quasi impercettibile. Si fermò e ancora una volta controllò l'ora. Doveva trattarsi di qualcuno fermatosi a lavorare fino a tardi, o magari di uno degli addetti alla manutenzione. Si accorse che respirava più in fretta e si diede mentalmente della sciocca.
«Grace, sei tu?» chiamò ad alta voce. «Malcolm?»
Non ebbe risposta e scuotendo la testa mosse ancora qualche passo lungo il passaggio. Fu allora che lo sentì per la terza volta, e comprese con certezza che proveniva dal passaggio adiacente. Si fermò di nuovo e cercò di sbirciare tra i grossi fascicoli. Niente. Solo il rumore.
Un brivido la attraversò e per la prima volta avvertì una fitta di paura. Quando si guardò le mani, vide che tremavano e che i palmi erano madidi di sudore. Sbirciò furtivamente la porta in fondo al corridoio. Ma no, non quella. Ce n'era un'altra sul retro del laboratorio, una che conduceva a un ufficetto inutilizzato, dal quale si entrava in un atrio di servizio.
Lentamente, attenta a fare meno rumore possibile, Kate si tolse le scarpe e cominciò a muoversi in quella direzione. Le pareva che il suono si facesse più debole a mano a mano che si allontanava, scivolando silenziosa sul lucido pavimento di piastrelle. Ma quando volle guardarsi alle spalle, andò a urtare con il braccio contro lo scaffale alla sua destra e parecchi plichi caddero a terra con un tonfo sonoro.
Improvvisamente terrorizzata, cominciò a correre, precipitandosi verso la porta sul retro. La spalancò con tanta forza da mandarla a sbattere contro il muro e incespicando alla cieca entrò nel piccolo ufficio scuro, colpendo con il fianco lo spigolo di una scrivania mentre si affrettava verso la porta a vetri che dava nell'atrio. Il dolore le si propagò per tutto il bacino, intorpidendole la gamba, ma lei lo ignorò, costringendosi ad andare avanti, girando freneticamente il pomolo della seconda porta finché non riuscì ad aprire.
Fuori, la luce improvvisa la abbagliò e dovette fermarsi, respirando affannosamente. Il dolore al fianco si era fatto più intenso; si appoggiò alla parete, ma un suono proveniente dall'ufficio alle sue spalle la galvanizzò, precipitandola nel panico.
Alla sua destra si apriva il corridoio centrale che l'avrebbe riportata alla sicurezza del suo ufficio e di quello dei suoi colleghi. Ma per arrivarci sarebbe stata di nuovo costretta a passare davanti all'ingresso principale del laboratorio da cui era appena fuggita. Esitò solo un secondo, poi girò a sinistra e imboccò un secondo corridoio, più stretto, diretta al magazzino dov'era stata con Rolk quello stesso pomeriggio.
Aprì con la mano che le tremava ed entrò. Immediatamente la assalì l'odore intenso e caratteristico dei prodotti chimici usati per proteggere le pelli che pendevano dagli stand. Decisa a non accendere la luce, Kate si fece strada da uno stand all'altro finché non arrivò al centro della stanza. Lì imboccò uno stretto passaggio che si apriva tra le file di pelli, trattenendo il fiato, lo stomaco contratto dalla paura, l'orecchio teso a cogliere il minimo rumore. Ora si domandava perché avesse scelto di rifugiarsi proprio lì, dove non c'erano altre uscite, né vie di fuga.
Il rumore di una porta che si apriva la raggelò. Il più cautamente possibile scivolò tra le pelli che pendevano dietro di lei, sforzandosi di ignorare l'odore acuto che le aggredì le narici. Sapeva che restare troppo a lungo a contatto di quei conservanti chimici poteva provocare seri danni. Ma se non so neppure se vivrò abbastanza a lungo per rendermene conto, si disse, ormai sull'orlo dell'isterismo.
La luce inondò improvvisamente la stanza, conferendole un aspetto quasi irreale. Kate trasalì e involontariamente fece un balzo indietro.
«Dottoressa Silverman?» La voce era debole, resa rauca dall'età. «Dottoressa?»
Kate la riconobbe subito: apparteneva all'anziana guardia del museo di cui lei conosceva solo il nome, Melvin.
Allora emerse dall'ammasso di pelli che la nascondevano e la voce le si ruppe mentre mormorava un semplice: «Sì.»
Melvin l'aspettava sulla soglia, la mano ancora sull'interruttore della luce e un'espressione incredula. «Va tutto bene?» le chiese.
Ancora tremando, Kate gli raccontò che cos'era accaduto, e guardando i suoi occhi socchiudersi e poi spalancarsi stupiti, si sentì ancora più sciocca.
«Ho sentito qualcuno correre lungo l'atrio,» spiegò alla fine Melvin. «E quando ho girato l'angolo l'ho vista entrare qui.»
«Vuol dire che era nel laboratorio, nel laboratorio di antropologia?»
Melvin scosse la testa. «No, signora.» Poi i suoi occhi si indurirono. «Ma vado subito a controllare. Non abbia timore.»
D'impulso Kate gli posò una mano sul braccio. «Se non dovesse trovare nessuno... la prego, non parli in giro di questa faccenda.» Tirò un profondo sospiro. «Mi sento così maledettamente idiota. Colpa di questi omicidi, della polizia che piomba qui in qualsiasi momento. Credo che sia tutto questo a innervosirmi.»
Melvin posò una mano sulla sua. «Non ha fatto nulla di idiota. Ha tutti i motivi per stare attenta...» E dopo un'esitazione soggiunse: «E per avere paura.» Le sorrise. Aveva i denti gialli. «Ma non si preoccupi. A meno che non trovi qualcuno, terrò la bocca chiusa.»
Ringraziandolo, Kate lo seguì fino all'ufficetto alle spalle del laboratorio ma non entrò con lui e continuò invece lungo il corridoio principale, con le gambe che le tremavano a dispetto della crescente convinzione di essersi comportata come una scolaretta. Quando girò l'angolo, andò quasi a sbattere contro Grace Mallory.
La vide sussultare, sorpresa. «Come mai sei ancora qui?» le chiese. «Pensavo fossi andata a casa a riposarti.»
Kate si sforzò di controllare la voce; non voleva rivelare la paura che solo ora cominciava ad abbandonarla. «Sono andata a esaminare del materiale che mi servirà in Messico. Ma non preoccuparti, Grace, sto bene.»
L'altra non sembrava convinta. «Prima o poi dovrai imparare che a volte è necessario saper rimandare al giorno dopo.» Ma addolcì quelle parole con un sorriso che Kate si affrettò a ricambiare.
«Il fatto è che non ho mai visto il mio mentore fare altrettanto.»
Grace sbuffò, scherzosamente irritata. «È venuto padre Lopato,» la informò poi. «Voleva sapere se puoi scattare qualche foto per lui al museo di Città del Messico. L'ho mandato nel tuo ufficio. Come vedi, sapevo che non mi avresti ascoltata quando ti ho sollecitata ad andare a casa. L'hai visto?»
«No,» mormorò Kate, e sentì che le gambe le cedevano di nuovo. «Ero nel laboratorio. Credi che sia venuto là?»
«Perché avrebbe dovuto? Gli avevo detto che ti avrebbe trovata in ufficio.»
Un movimento alle spalle di Grace attirò l'attenzione di Kate, che vide la figura alta, sparuta del sacerdote andare loro incontro.
«Eccolo che arriva,» disse allora.
Proprio in quel momento la porta del laboratorio di antropologia si aprì e ne uscì Melvin. L'ometto fissò Kate e scosse la testa con un gesto impercettibile. Non c'era nessuno là dentro.
Con un profondo sospiro di sollievo, Kate seguì Grace che aveva già raggiunto padre Lopato. Era stata una sciocca, si disse, giurando a se stessa di non parlarne mai con nessuno.
19
Il bar si trovava all'angolo tra Columbus Avenue e la Ottantacinquesima Ovest, a due isolati dall'abitazione di Rolk. Era quasi un'istituzione del quartiere, uno dei pochi, tra i vecchi locali, che fosse sopravvissuto alla rivalutazione del West Side di Manhattan, e rifuggiva dalla nuova moda dei patios a vetrate e delle felci sospese al soffitto, per restare fedele ai muri scuri, tetri, ricoperti dalle foto autografate di pugili e giocatori di baseball dimenticati da tempo.
Erano solo le undici quando Rolk si arrampicò su uno sgabello vicino alla porta d'ingresso e il bar era ancora affollato di clienti, uomini e donne non più giovanissimi che abitavano negli appartamenti in affitto non ancora travolti dall'incessante ascesa sociale del quartiere.
Una giovane donna, grassa e bruttina, lo salutò da dietro il banco con un pesante accento irlandese a cui si mescolava la tipica parlata del Bronx. «Ehi, tenente. È un po' che non la si vede. Che cosa beve?»
«Jack Daniel's, Patty. Liscio.»
Restò a guardarla versare una dose più che generosa di whisky e far scivolare il bicchiere verso di lui mentre contemporaneamente s'impadroniva della banconota da cinque dollari. Era quella la consuetudine del locale, denaro sul banco prima che il drink fosse versato, e Rolk sospettava che il motivo stesse nelle scarse nozioni di aritmetica dei baristi... tutti parenti del proprietario.
Patty si protese verso di lui, appoggiando sul banco le braccia carnose. «Allora, a che cosa sta lavorando, tenente? Non starà per caso dietro a quella faccenda della donna senza testa?»
«Temo proprio di sì, Patty.»
«Cristo, quello lì è un pazzo bastardo, chiunque sia. Tagliar via la testa a quel modo! Dovreste beccare quel maniaco e appenderlo per lei-sa-che-cosa.» Sollevò gli occhi sulla grossa borsa che Rolk aveva posato sullo sgabello accanto a sé. «Che cos'ha lì dentro? Prove del delitto?»
«Solo roba da leggere, Patty.»
«Dio buono, lei legge parecchio, eh? Ci potrebbe ficcare mezzo Bronx in quell'affare.»
Rolk posò una mano protettrice sulla borsa, mentre con l'altra cominciava a massaggiarsi la fronte.