Ritual (20 page)

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Authors: William Heffernan

Tags: #Fiction, #Thrillers, #Suspense

BOOK: Ritual
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«Be', perlomeno il nostro problema non è quello di avere pochi pezzi buoni,» replicò lui. «Questo dovrebbe avere un notevole effetto sulla comunità accademica.» S'interruppe, mordicchiandosi le labbra. «E il fatto che siamo in qualche modo collegati a un'indagine per omicidio non ci danneggerà. L'attrazione morbosa che molta gente prova per il macabro è cosa nota.»

Sul viso di Grace Mallory si dipinse un'espressione di disappunto. «Non è esattamente quello il pubblico che m'interessa attirare,» obiettò. «Quelle povere donne! Stamattina a colazione ho quasi rischiato di soffocare quando la radio ha fatto il nome di Alexandra.»

Sousi annuì. «Sì, è stato così anche per me.» Si volse e si allontanò di qualche passo dalla scrivania; il suo corpo snello, atletico, pareva quasi scivolare sul tappeto. «Sebbene debba confessare che non credo che sentirò terribilmente la mancanza di Alexandra. Era una insopportabile tiranna.»

«Questa è una cosa terribile da dire, Malcolm.» Ma sulle labbra di Grace aleggiava un sorriso. «Devo ammettere però che la tua descrizione è accurata. Quella donna mi ricordava una...»

Un colpo alla porta li fece voltare entrambi: sulla soglia c'era Stanislaus Rolk.

«Spero di non avere interrotto qualcosa d'importante,» li salutò.

«Niente affatto, tenente.» Grace gli fece cenno di venire avanti. «Stavo solo discutendo il programma della mattinata con Malcolm.»

«Ah, tenente,» interloquì Sousi. «In realtà siamo felicissimi di vederla. Lei è una boccata d'aria in una giornata di lavoro che altrimenti sarebbe rimasta disperatamente tetra.»

Rolk lo guardò per qualche istante, notando le spalle ampie, le mani grandi e forti. «Pensavo di trovarvi tutti un po' sottotono, in realtà,» disse poi. «A meno, naturalmente, che non siate ancora stati informati delle ultime novità.»

«Si riferisce alla povera Alexandra?» chiese Malcolm. «Oh, sì, abbiamo saputo. Sospetto che l'accaduto abbia gettato nel terrore quasi tutte le donne che lavorano qui.» Con un cenno della testa indicò Grace. «Esclusa la presente, naturalmente.»

«Oh, sta' zitto, Malcolm,» saltò su Grace. «Sono mortificata, tenente. Sousi tende a far correre liberamente la lingua e a volte esagera. Che cosa possiamo fare per lei?»

Rolk fece lentamente il giro della stanza, studiandone la pianta. «A dire il vero, sono qui per chiedere la sua autorizzazione a un mio progetto e per farle qualche domanda.»

«La mia autorizzazione?»

«Sì, ha a che fare con Miss Silverman.»

«La
dottoressa
Silverman,» lo corresse Grace.

Rolk annuì con aria distratta, come se la distinzione non avesse alcun significato per lui. «Mi risulta che la dottoressa Silverman sia in partenza per Città del Messico, dove deve occuparsi di una spedizione.»

«Infatti. Ma non vedo come questo possa interessare la polizia, a meno che lei non sia dell'opinione che non debba andare.»

«Niente affatto,» si affrettò a rassicurarla Rolk. «Anzi, vorrei che facesse una piccola deviazione durante il viaggio. Per essere più precisi, vorrei che s'incontrasse con me a Chichén Itzá per aiutarmi ad approfondire una certa questione.»

«Chichén Itzá?» L'espressione di Grace era apertamente confusa. «Non capisco.»

«Pare che ci siano stati degli omicidi laggiù. Omicidi rituali. Non diversi da quelli che si sono verificati qui. Credo che all'epoca lei e il dottor Sousi foste là. Forse ricorderete.»

«Chichén Itzá...» cominciò Malcolm, subito zittito da un'occhiataccia di Grace.

«Sì, ricordo,» disse poi la donna. «Ovviamente, noi eravamo molto lontani, all'interno della foresta equatoriale, e sappiamo solo quello che ci raccontavano gli indigeni che lavoravano per noi.» Si strinse appena nelle spalle. «Francamente, la cosa non ci interessò molto. Da quelle parti la gente tende a essere molto superstiziosa e ci capitava spesso di ascoltare fantastiche storie su misteriosi episodi riguardanti gli dei. Nella maggior parte dei casi le ignoravamo.»

«Le ignoravate anche quando parlavano dell'uccisione di giovani donne?»

Grace sorrise. «Nello Yucatán capita spesso che le giovani donne scompaiano, tenente. Quasi sempre hanno semplicemente messo i loro averi in un fagotto e sono partite alla volta di una città più grande. Ma gli indigeni, ovviamente, attribuiscono quelle sparizioni agli dei.»

Rolk si accarezzava il mento. «Sì, ogni giorno ci sono ragazze che spuntano in città così, come dal niente.» Il suo sguardo s'indurì. «Ma in questo caso abbiamo un certo numero di omicidi confermati dalla polizia locale. Pare che siano realmente avvenuti, e più o meno all'epoca in cui lei, il dottor Sousi e padre Lopato vi trovavate laggiù.»

Dopo un istante di silenzio si rivolse a Sousi. «Mi è sembrato che volesse dire qualcosa, poco fa. Forse ricorda qualche episodio in particolare?»

L'altro esitò, poi serrò le labbra. «No, nessuno. È proprio come ha detto Grace. Non attribuivamo molto valore alle dicerie degli indigeni. A essere onesto, ci occupavano molto di più gli eventi di centinaia di anni prima che le superstizioni dei nostri giorni. O, almeno, quelle che ritenevamo superstizioni.»

Rolk annuì. «Comprensibile.» Tornò a rivolgersi a Grace. «È là che ha conosciuto padre Lopato, vero?»

«Sì, all'epoca era ammalato. Malaria, credo. C'erano giorni, temo, in cui non riusciva a ricordare neppure le conversazioni del giorno prima.»

«È uno dei sintomi della malaria?»

«A volte. La febbre può essere molto alta e provocare quindi allucinazioni. Ne ho sofferto anch'io. Le zanzare la diffondono in tutta quella maledetta giungla.»

«E le è capitato di avere vuoti di memoria?»

«Non che ricordi.» Poi Grace rise, colpita dall'assurdità della risposta. «Ma questo non significa molto, giusto?»

Rolk serrò le labbra, come sempre faceva quando voleva sorridere. «Quindi in realtà non avete nulla da raccontarmi su quello che avvenne laggiù.»

«Ho paura di no.» Poi Grace rivolse uno sguardo diretto a Malcolm, che si limitò a scuotere la testa.

«Be',» sospirò Rolk, «forse scoprirò io qualcosa.»

«Quando ha intenzione di partire?» gli domandò la dottoressa.

«Non lo so con certezza,» mentì lui. «Ci sono parecchie cose da organizzare. Posso presumere che non ha nulla in contrario a che la dottoressa Silverman collabori con noi?»

Grace Mallory sembrò riflettere attentamente sulla domanda.

«A dire la verità, credo che sarebbe un'ottima idea tenerla lontana da New York il più possibile... E c'è sempre la possibilità che nel frattempo la polizia risolva il caso.» Sorrise. «Questa è una delle ragioni per cui le ho chiesto di recarsi a Città del Messico.»

 

«In mancanza di un nome migliore, questa la chiamiamo la Stanza degli insetti,» disse Kate, abbassando la maniglia della pesante porta di metallo.

Un orribile tanfo colpì Rolk, che trasalì. Era l'odore nauseante della carne putrefatta, che qualcuno aveva tentato di coprire con un forte deodorante. «Gesù,» ansimò, indietreggiando di un passo. «Conosco questa puzza. È la stessa che aleggia intorno a un cadavere in decomposizione.» Le lanciò un'occhiata in tralice. «Ho quasi paura di chiederle perché la sento.»

Kate gli fece cenno di entrare, poi chiuse la porta e accese la luce. «È molto importante che la stanza rimanga chiusa,» spiegò. «Se gli occupanti fuggissero, si creerebbe un enorme scompiglio nel museo.»

«Gli occupanti?» ripeté Rolk fissandola.

«Sembra la battuta di un film dell'orrore, vero?» sorrise lei. Poi si avvicinò a una lunga cassa di metallo, posandovi sopra la mano. «Il sistema è piuttosto primitivo, ma finora nessuno ne ha escogitato uno più efficace. Quando abbiamo a disposizione la carcassa di un animale, o una parte di essa, e siamo interessati solo alla pelle e allo scheletro, la mettiamo in una di questi contenitori. Ospitano centinaia di migliaia dei cosiddetti coleotteri, in grado di divorare in pochi giorni tutto quanto c'è di commestibile in un animale di grosse dimensioni.»

Gli fece cenno di avvicinarsi e aprì la cassa. All'interno si vedeva una grossa zampa di animale - o meglio quello che ne era rimasto - coperta dai corpi frementi di migliaia di insetti, le cui fauci ticchettavano furiosamente mentre affondavano nella carne.

«Cristo!» proruppe Rolk. «Mi sembra di avere appena guardato dentro una tomba abbandonata.»

A Kate non sfuggì il suo disagio. Strano, pensò, considerato il lavoro che svolgeva. Era ben diverso da quel che si era immaginata. E che uomo triste e solitario era. Approfittando del fatto che Rolk teneva ancora gli occhi fissi sul contenitore, ne esaminò con attenzione i tratti del viso. Era attraente, sì, ma soprattutto trovava piacevole la sua compagnia. Ma erano pensieri oziosi. A lui importava soltanto trovare un'altra donna, una donna
e
una bambina. Pensa al tuo lavoro, si ammonì. È l'unica costante della tua vita.

«Che cosa sono quelle casse più grosse?» domandò Rolk a quel punto.

La domanda strappò Kate alle sue fantasticherie. «Contengono le carcasse che aspettano di essere divorate a loro volta.»

Superando il palese disgusto, Rolk fece un passo avanti e sollevò un coperchio. All'interno, avvolti in teli di stoffa, c'erano cadaveri, e parti di cadaveri, di diversi animali immersi in una soluzione liquida. Su ogni fagotto era segnato un numero. «Che cosa significano?»

«A individuare con facilità il campione che si cerca senza perdere tempo a esaminarli tutti. Un sistema per risparmiare tempo.»

«Così, se avessi un campione in lista d'attesa, non per questo conoscerei necessariamente anche la natura degli altri,» ragionò lui.

«Proprio così.» Kate gli sorrise. «Gran parte delle persone che lavorano qui vive in costante lotta contro il tempo e non bada molto a quello che fanno i colleghi. Dubito che gli entomologi, per esempio, abbiano idea delle attività degli esperti di erpetologia.» Sorrise di nuovo. «Credo che sia una caratteristica della mentalità scientifica. Tendiamo a essere terribilmente miopi riguardo a tutto quello che non concerne direttamente le nostre discipline accademiche.»

Rolk capiva e apprezzava le realistiche spiegazioni della donna. Era molto intelligente, ma questa consapevolezza non sembrava condizionarla più di tanto. Pareva invece accettarla come una parte di sé, come la sua bellezza fisica, qualcosa di cui non poteva assumersi la totale responsabilità e per cui, di conseguenza, aveva poco merito.

Gli balenò alla mente il ricordo di sua moglie. Anche lei era stata molto brillante, ma proprio quell'estrema vivacità mentale l'aveva logorata, così come aveva finito per logorarla la relativa mancanza di istruzione del marito. Rolk era convinto che fosse stato soprattutto quello a spingerla a lasciarlo.

«Ci sono altri contenitori come questi nel museo?» chiese.

«Solo nel locale adibito alle dissezioni.»

Kate lo guidò attraverso un altro dedalo di corridoi e Rolk non poté fare a meno di domandarsi quanto tempo impiegasse un nuovo dipendente per imparare a orientarsi con facilità.

Avevano già visitato ampie zone del museo - dai sottotetti dove venivano conservate le enormi ossa degli elefanti, ai seminterrati, in cui le grandi caldaie che provvedevano al riscaldamento rivaleggiavano per volume con una dozzina di scheletri di balene. Erano entrati in sale in cui erano accatastate enormi quantità di pelli di felini - giaguari, tigri, ghepardi. Kate gli aveva detto che sarebbero state sufficienti a rivestire una parte considerevole della popolazione di New York, e per una buona percentuale si trattava di pelli che avevano più di un secolo di vita.

Una delle aree deposito era chiamata dal personale del museo «Gli alcolizzati». Lì, più di un milione di esemplari animali erano conservati nell'alcool, e il loro studio permetteva agli scienziati di scoprire se tossine o malattie diffuse attualmente tra gli animali erano presenti anche cinquanta o cento anni prima.

Quasi a ogni svolta Rolk si trovava di fronte a teste di animali o ad animali interi e spesso in modo tanto inaspettato che doveva trattenersi per non fare un salto indietro.

Il museo rappresentava un'impresa scientifica di enorme portata, le cui spese annuali superavano i trenta milioni di dollari - spese coperte e sostenute dal denaro concesso in donazione o sotto forma di investimenti. E ora, pensò mentre seguiva Kate lungo un altro corridoio, su quella gigantesca struttura pendeva, simile a un cupo sudario, l'incubo di una lunga serie di omicidi.

Kate si fermò davanti a un'altra grande porta di metallo e la aprì. «Ci siamo,» annunciò guidandolo all'interno.

All'estremità opposta del locale, illuminato da luci fluorescenti, c'era una grossa scimmia parzialmente sezionata, il cui corpo inerte traboccava dallo stretto lettino in acciaio inossidabile.

Rolk guardò la dottoressa con aria apertamente incredula. «Effettuate qui le autopsie?»

«Sì. È l'unico modo per garantire la qualità degli esemplari.» E vedendolo inarcare un sopracciglio con aria interrogativa soggiunse: «Buona parte di essi attualmente provengono dagli zoo. In passato, se qualcuno voleva studiare il cervello di una scimmia, si limitava a chiedere
solo
il cervello quando moriva un soggetto adatto.» Parlando aveva infilato le mani nelle tasche del camice, assumendo una posa che Rolk aveva già notato in Grace Mallory. Sembrava che tutti avessero la tendenza a imitare quella donna, rifletté; e si chiese se anche lui avrebbe fatto lo stesso prima della conclusione delle indagini.

«Ma, sfortunatamente, il sistema non era ottimale,» stava dicendo Kate. «Perché i veterinari dello zoo non facevano altro che fracassare il cranio dell'animale per estrarne il cervello, invece di aprirlo come si deve, e a noi arrivavano organi gravemente danneggiati. Per questo alla fine abbiamo deciso di fare da soli.»

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