Sousi guardò l'orologio, poi la strada trafficata. «Ho fretta,» disse all'autista. «Non c'è un percorso alternativo?»
Il conducente si strinse nelle spalle. «Potrei tagliare per Central Park West, ma non posso garantirle nulla.»
«Tentiamo,» disse Sousi. «Ho una signora calda che mi aspetta, e la serata è fredda.»
«Fortunato lei,» sospirò l'altro. «Tutto quello che aspetta me sono altre sei fottutissime ore su questo taxi.»
Seduto sul bordo del letto nella camera di sua figlia, Rolk guardava fissamente i piccoli fiori della carta da parati. Sulle ginocchia aveva un libro aperto su una pagina che mostrava delle fotografie raffiguranti alcune rovine maya. Il libro era appartenuto a sua moglie, uno dei testi su cui aveva studiato per la specializzazione in storia dell'arte.
Proprio a quel libro aveva pensato quando padre Lopato gli aveva raccontato la leggenda di Quetzalcoatl. Il serpente piumato. Ne aveva già sentito parlare, si era detto, e improvvisamente aveva ricordato sua moglie, Kathy, e come lei gli avesse parlato della divinità azteca. Ricordi rimasti sopiti nella sua mente per molti anni e che le parole del sacerdote avevano fatto riaffiorare.
Kathy. Da anni non pronunciava più neppure il suo nome, ma ora il passato sembrava tornare a galla per assalirlo. Era come se, in un certo senso, avesse sempre saputo quello che il sacerdote gli aveva detto, come se addirittura conoscesse cose che Lopato non aveva neppure menzionato. Ma quali?
Si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. È l'età, si disse. Ti arriva alle spalle e ti afferra alla gola e impedisce all'ossigeno di affluire al cervello. E tu neppure te ne accorgi.
Si portò una mano agli occhi; il dolore alla testa era lancinante e a volte si faceva così intenso da indurlo a credere che prima o poi l'avrebbe ucciso.
Con il pollice e l'indice si massaggiò le palpebre nel tentativo di alleviare la sofferenza. Dormi, si disse. Dormi e dimentica il dolore. Lottò per allontanarlo, si concentrò e gradualmente il suo respiro si fece lento e regolare, il libro scivolò a terra e cadde senza rumore sul tappeto.
14
Paul Devlin attraversò il praticello e andò alla porta d'ingresso pensando, come faceva almeno una volta al mese, che la settimana successiva scadeva la rata dell'ipoteca e che sarebbe stata un'impresa riuscire a pagarla in tempo. Per qualche istante indugiò a guardare la casa. Lui e sua moglie Mary l'avevano acquistata sei anni prima, quasi in rovina, e avevano sognato di trasformarla nella più bella del quartiere. Poi, un anno dopo, a solo un mese di distanza dalla nascita della figlia, Mary era rimasta uccisa in un incidente automobilistico e Devlin aveva dimenticato i piani per la casa, così come molte altre cose.
Era stato allora che sua sorella Beth si era trasferita da lui... Beth, la sorella maggiore che lo aveva tormentato negli anni dell'infanzia, che in seguito lo aveva accusato di aver deluso le sue aspettative, ma che ora si prendeva cura di lui e di sua figlia con la maggiore naturalezza del mondo.
Devlin chiuse la porta, si sfilò la fondina e la posò su uno scaffale dell'armadio dell'ingresso, poi andò in cucina, da dove giungeva il chiacchiericcio di sua sorella e della piccola.
La nascita della bambina e la morte della moglie di Devlin avevano prodotto in Beth un cambiamento inaspettato. L'ambiziosa donna in carriera aveva improvvisamente rivelato un istinto materno che l'aveva lasciato esterrefatto. E, cosa ancor più sorprendente, si era accorto che quel mutamento l'aveva spinto ad amarla come mai prima.
Beth aveva lasciato il suo lavoro di responsabile della ricerca presso una ditta farmaceutica, decisa a dedicare tutte le attenzioni alla bambina finché non avesse raggiunto l'età scolare. E aveva funzionato. La figlia di Devlin, Philippa, chiamata così in ricordo di suo padre, era vivace e soddisfatta come qualunque ragazzina della sua età.
Vedendolo entrare, Philippa lanciò un grido di piacere e saltata giù dalla sedia corse a gettarsi tra le sue braccia, per poi buttarsi a capofitto in un eccitato resoconto della sua giornata. Devlin l'ascoltò con attenzione, esprimendo nei momenti opportuni approvazione o stupore e lanciando di tanto in tanto un'occhiata divertita alla sorella, che sembrava illuminarsi a ogni frase pronunciata dalla piccola.
Beth indossava un paio di jeans e un maglione largo e si era raccolta i capelli in una coda di cavallo da cui era sfuggita qualche ciocca. Non era truccata e, a dispetto del sorriso, sembrava stanca e vagamente preoccupata. Mentre la guardava, Devlin cercò di ignorare il paragone con Kate Silverman che subito gli era venuto in mente. Era un atteggiamento ingiusto e sciocco, ma gli era impossibile evitarlo, pur sapendo che solo cinque anni prima a uscire vittoriosa da quel confronto sarebbe stata certamente Beth.
«Hai visto?» disse la sorella, avvicinandoglisi per baciarlo sulla guancia, ma parlando alla bambina. «Ti avevo detto che papà sarebbe tornato a casa per cena, stasera.» Guardò Paul. «E temeva che tu non venissi.»
«Anch'io avevo paura di non farcela,» confessò Devlin. «Poi ho scoperto che il prete che sto pedinando sarebbe stato occupato con le confessioni per tutto il pomeriggio e ho pensato di fare un salto a casa, almeno per un'oretta.»
«Un prete!» Beth fece una smorfia.
«I
notiziari parlano parecchio di questo caso, sembra alquanto macabro. Immagino che, nelle prossime settimane, non avremo occasione di vederti molto.»
«Temo proprio di sì. Sono tutti agitatissimi e abbiamo già per le mani più indiziati di quanti non possiamo gestirne.»
«Qualcuno di promettente?» Nei dolci occhi castani di Beth c'era un bagliore speranzoso.
«Il miglior candidato è il sacerdote, se riesci a crederci. Poi un paio di messicani. Tutti gli altri sono collaboratori del museo, sospetti soprattutto perché hanno libero accesso alle armi simili a quelle usate per il delitto.»
«E che cosa mi dici dei normali delinquenti? Gli stupratori del parco, i teppisti? O magari il marito della donna?»
«Passi troppo tempo a guardare le telenovele,» la stuzzicò lui, ben sapendo che in realtà Beth preferiva di gran lunga dedicarsi alla lettura di riviste scientifiche. «Stai cominciando a credere che tutti i mariti siano malvagi libertini che passano il tempo a complottare con biechi sicari per far fuori le mogli.»
«Che cosa significa sicario?» saltò su Philippa.
Devlin le scoccò un sorriso. «È un giocatore di baseball,» spiegò. «Quello che colpisce la palla.» Il suo sorriso si accentuò. Nel giro di pochi giorni la bambina avrebbe ripetuto la frase, come faceva sempre, e qualcuno, senza dubbio la nonna, si sarebbe chiesto dove diavolo andava a pescare espressioni simili.
«Che cosa c'è per cena?»
«Brasato.» Beth posò sul tavolo una zuppiera piena. «Ho pensato che tanto valeva cominciare a preparare piatti che potrai scaldarti da solo quando comincerai a tornare a casa tardi.
Se
tornerai a casa.»
«Non essere così pessimista.»
«Difficile non esserlo.»
«Lo so.» Mentre si serviva del brasato, Devlin si riscoprì a pensare di nuovo all'omicidio che aveva tra le mani, a padre Lopato e a come gli riusciva difficile vederlo nei panni di un assassino. Ma Rolk sembrava convinto di essere sulla pista buona e in queste cose aveva un fiuto che non era mai prudente ignorare. Eppure... Scacciò con impazienza il pensiero. Aveva altri quarantacinque minuti prima di tornare al lavoro e, al diavolo, non li avrebbe sprecati a tormentarsi sul caso. Non quando aveva la possibilità di dedicarli a sua figlia, che forse nei giorni successivi avrebbe visto ben poco.
Immobile, la figura stava in attesa, ignorando il traffico ancora intenso sulla Quinta Avenue.
Arriverà presto. Lo sai. Era ancora in ufficio quando hai telefonato. Che ore sono? Controlla il tuo orologio. Le otto. Lavora fino a tardi, stasera. Aveva un tono così irritato quando ha risposto al telefono che hai preferito non dire niente. Una persona così autoritaria, dominante. Un membro dell'élite. Ideale per il sacrificio. La valigetta. Assicurati che tutto sia pronto. Oh, sì. C'è tutto. Tutto quello di cui hai bisogno.
Adesso dai un'occhiata al di là della siepe e guarda se sta arrivando. Non ancora. Se la prende comoda, stasera. Non sa nulla dell'onore che l'aspetta. Un posto molto migliore del primo. Molto più simile al luogo che deve rappresentare. E questo è importante, se si vuole agire in conformità con il rituale.
Guarda di nuovo. Oh, eccola, sta attraversando proprio adesso la Settantanovesima. Ora devi farti avanti e andarle incontro.
La donna si fermò di colpo quando la figura vestita di nero le apparve improvvisamente di fronte.
«Santo cielo, mi ha spaventata a morte.» Alexandra Ross serrò istintivamente le braccia al petto, tenendo ben stretta la sottile valigetta di pelle.
«Mi dispiace. L'aspettavo per scambiare due parole. È una questione importante, altrimenti non l'avrei disturbata.»
Sul viso di lei si dipinse un'espressione incredula. «Che cosa? E aspettava qui? Sulla Quinta Avenue?»
«So che non le piace essere disturbata quando lavora, così ho pensato che tanto valeva attenderla all'uscita.»
«Ma come faceva a sapere che stavo ancora lavorando?» Alexandra tirò su la manica del soprabito per scoprire l'orologio da polso. «Sono le otto. Come...?» Il suo viso s'indurì. «La telefonata,» mormorò. «Ma perché, in nome del cielo, non ha detto che era lei?»
«Mi è sembrata infastidita dall'interruzione.»
«Oh,
sul serio
.» La donna si lasciò sfuggire un sospiro irritato.
«È come le ho detto, è una questione importante. La prego. Potremmo sederci su una panchina di quel piccolo terreno da gioco. Solo per qualche minuto.»
Un altro sospiro pieno d'esasperazione. «D'accordo, ma vediamo di sbrigarci in fretta,
per favore.
»
Alexandra si voltò e si avviò lungo il sentiero che si inoltrava nel parco e conduceva a sud della Settantanovesima.
Cammina veloce, quasi a passo di marcia. Presto, presto. Apri la valigetta e prendi l'ascia. In fretta, ma non troppo. Precisione, soprattutto. Devi colpire la spina dorsale nel punto esatto.
«Alexandra?» chiamò piano la voce.
Ha rallentato; sta per voltarsi. Ora. Ora.
15
Devlin era già sul luogo del delitto quando Rolk arrivò. La mezzanotte era passata da pochi minuti e lungo la Quinta Avenue il traffico era ancora abbastanza pesante da causare piccoli ingorghi quando gli automobilisti rallentavano per guardare le luci ad arco che ora illuminavano la zona.
Rolk si fece largo tra i fotografi che si ammassavano all'esterno dell'alta recinzione di ferro, scuotendo la testa senza rispondere al loro fuoco di fila di domande. Si fermò a fianco di Devlin, con gli occhi fissi sul cadavere coperto da un telo che giaceva in cima al grosso masso usato dai ragazzini come palestra di roccia.
«E lì che è stata trovata?» Guardò incredulo il collega. «Proprio lì?»
Devlin annuì. «Ne sono rimasto colpito anch'io. Quel maledetto affare è una vera e propria piramide in miniatura.»
«Ed è stata decapitata?»
«Proprio come la prima,» confermò Devlin. «Un taglio netto effettuato con uno strumento molto affilato. E anche questa volta è stata asportata la pelle della schiena.»
«Gesù,» borbottò Rolk, guardandosi le scarpe. Con la testa indicò i giornalisti in attesa. «Ci faranno a pezzi.»
«Peggio,» fu la tetra risposta dell'altro. «La donna, almeno stando ai documenti trovati nella borsa, era Alexandre Ross, l'addetta alle PR del Metropolitan.»
Rolk chiuse gli occhi e respirò profondamente parecchie volte. Quando li riaprì, accanto a loro c'era Jerry Feldman, con addosso il solito camice bianco e la borsa che gli penzolava da una mano.
«Come l'altra volta?» domandò.
«Paul dice di sì.»
«È quello che pensavano anche i ragazzi dell'obitorio, per questo mi hanno telefonato a casa.» Nella voce del medico legale non c'era traccia dell'asprezza abituale. «Cristo. Due in due giorni. Ero convinto che sarebbe intercorso un arco di tempo ragionevole tra il primo e il secondo. Di solito è così.»
«Forse l'abbiamo irritato tallonandolo troppo da vicino,» interloquì Devlin.
Rolk lo guardò. Questa storia comincia a spaventarlo, pensò. Cristo, è normale. Ha spaventato anche me, fin dall'inizio.
«Avete chiamato Greenspan?»
«Circa un'ora fa,» assicurò Devlin.
«Bene. Lo aspetterò. Voglio che tu trovi qualcuno al Metropolitan che ci autorizzi a dare un'occhiata alle schede del personale questa sera stessa. Voglio sapere tutto su questa donna e il più rapidamente possibile.» Quando Devlin fece per allontanarsi, Rolk lo fermò afferrandolo per il braccio. «Manda Peters nel suo appartamento... l'indirizzo deve essere sulla carta d'identità. Abbiamo bisogno di qualcuno che la identifichi in fretta.»
«A meno che non avesse un marito o un ragazzo fisso, potrebbe essere difficile. Soprattutto perché...»
«Lo so,» lo interruppe Rolk. «È probabile che dovremo accontentarci di qualcuno tra quelli che hanno lavorato con lei. Qualcuno in grado di ricordare gli abiti e i gioielli che portava. Io non ci ho fatto caso, e tu?»
Devlin scosse la testa; lui aveva prestato molta più attenzione a Kate Silverman.