Gai-Jin (14 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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Più o meno quattro ore. Indicò il cancello.

“E comunque lei avrebbe dato l'allarme.”

Shorin trattenne il respiro maledicendosi.

“Che stupido! Che stupido sono... un'altra volta. Mi dispiace molto.”

Ori guardò Angélique con attenzione: Che cosa c'è in quella donna che mi rende tanto nervoso, che mi affascina? si chiese.

Poi videro comparire il gigante.

Dalle informazioni raccolte alla locanda capirono che si trattava del famoso medico inglese capace di compiere miracoli per chiunque glielo chiedesse, indipendentemente dalla razza.

Ori avrebbe pagato parecchio per sapere cosa stesse dicendo alla ragazza. La vide asciugarsi le lacrime, bere obbediente ciò che lui le porgeva e lasciarsi poi condurre all'interno.

Ori mormorò: “E strano, il gigante e la donna”.

Shorin gli lanciò un'occhiata perplessa.

Quello che avvertiva lo rendeva nervoso, inoltre era ancora furente con se stesso per aver dimenticato l'esistenza della ragazza quando la pattuglia gli era passata accanto.

Di Ori vedeva soltanto gli occhi che brillavano nell'oscurità e non riusciva a decifrarne lo sguardo.

“Andiamo all'armeria” sussurrò con impazienza “oppure attacchiamo la prossima pattuglia, Ori.”

“Aspetta!”

Facendo molta attenzione a non compiere un movimento brusco che l'altro potesse notare Ori sollevò una mano guantata di nero più per alleviare il dolore nel braccio che per asciugarsi il sudore come cercava di far credere.

“Katsumata ci ha raccomandato di avere pazienza e questa sera Hiraga ha consigliato la stessa cosa.”

Qualche ora prima, quand'erano arrivati alla Locanda dei Fiori di Mezzanotte vi avevano trovato Hiraga.

Erano stati molto felici di vederlo perchè oltre a essere un amico, Hiraga era anche un rispettato capo degli shishi di Choshu.

Le notizie del loro attacco ai quattro stranieri erano già arrivate anche alla locanda.

“Siete stati di un tempismo perfetto, anche se non lo potevate sapere” disse Hiraga.

Era un bel giovane di ventidue anni, straordinariamente alto per un giapponese.

“Sarà come punzecchiare con un bastone il nido del calabrone di Yokohama. Adesso i gai-jin reagiranno e dovranno andare contro la Bakufu che non può e non vuole fare niente per assecondare le loro richieste. Se soltanto lanciassero una rappresaglia contro Edo! Se lo facessero e la distruggessero, quello sarebbe per noi il segnale della conquista delle Porte del palazzo! Con l'imperatore libero tutti i daimyo si ribellerebbero contro lo shògunato distruggendolo insieme a tutti i Toranaga. Sonno-joi!”

Brindarono a sonno-joi e a Katsumata che aveva salvato loro la vita e insegnato quasi tutto quello che sapevano e aveva servito sonno-joi in segreto e con saggezza.

Ori confidò a Hiraga il piano per rubare le armi.

“E' una buona idea, Ori, e realizzabile” disse Hiraga pensieroso, “se sarete pazienti e aspetterete il momento giusto. Quelle armi potrebbero essere di grande utilità in alcune operazioni. Personalmente i fucili mi disgustano, preferisco garrotta, spada o pugnale perchè sono più sicuri, più silenziosi e molto più efficaci, chiunque sia la vittima, daimyo o barbaro. Posso aiutarvi. Posso disegnarvi una piantina e procurarvi dei vestiti da ninja.”

Ori e Shorin si entusiasmarono. “Puoi procurarceli davvero?”

“Certamente.”

I ninja erano degli esperti assassini di una tong segretissima che agivano quasi esclusivamente di notte indossando speciali indumenti, neri che avevano contribuito ad alimentare la leggenda della loro invisibilità.

“Una volta siamo stati sul punto di appiccare il fuoco all'edificio della Legazione.”

Hiraga rise e vuotò un'altra bottiglietta di sakè, il liquore caldo che gli rendeva la lingua più sciolta del normale.

“Poi abbiamo deciso di non farlo, che sarebbe stato molto più utile tenerlo sotto osservazione. Ci siamo andati spesso vestiti da giardinieri o di notte come ninja, è sorprendente quello che si può imparare anche con poco inglese.”

“Hiraga-san, non sapevamo che parlassi inglese” disse Ori sbalordito dalla scoperta.

“Dove l'hai imparato?”

“Da chi altri puoi imparare le cose dei gai-jin se non dai gai-jin stessi?

Era un olandese di Deshima, un linguista che parlava giapponese, olandese e inglese.

Mio nonno chiese al nostro daimyo l'autorizzazione per far venire quell'uomo da noi a Shimonoseki, a nostre spese, a insegnare l'olandese e l'inglese per un anno in via sperimentale.

In cambio gli permisero di commerciare. Grazie” disse Hiraga quando Ori gli riempi la tazza. I gai-jin sono tutti così ingenui, e venerano il denaro in modo straordinario. Siamo arrivati al sesto anno dell'esperimento, e l'olandese commercia ancora soltanto nei prodotti che fanno comodo a noi, e quando vogliamo noi: fucili, cannoni, munizioni, proiettili e alcuni libri. “

“Come sta il tuo onorabile nonno?”

“In ottima salute. Grazie dell'interessamento.”

Hiraga s'inchinò e i due gli risposero con un inchino ancora più profondo.

Che cosa meravigliosa avere un nonno simile, pensava Ori, una vera protezione per tutta la stirpe, non come noi che dobbiamo lottare per la sopravvivenza quotidiana, e abbiamo sempre fame e facciamo una disperata fatica a pagare le tasse.

Cosa penseranno di me mio padre e mio nonno adesso che sono diventato un ronin, e la mia paga di un koku, così necessaria alla famiglia, è stata sospesa? “Sarei onorato d'incontrarlo” disse.

“Il nostro shoya non è come lui.”

Il nonno di Hiraga, un importante agricoltore con molti contadini al suo servizio che abitava nei pressi di Shimonoseki, era stato per molti anni un segreto sostenitore del sonno-joi ed era uno shoya.

Lo shoya, capo di un villaggio o di un gruppo di villaggi per nomina o diritto ereditario, era un uomo dotato di grande influenza e poteri legali nonché l'unico autorizzato a stabilire l'ammontare delle tasse e a riscuoterle, ed era al tempo stesso anche l'unico intermediario e garante dei contadini e degli agricoltori contro le iniquità dei samurai feudatario al cui feudo appartenevano i villaggi.

Per legge tutti gli agricoltori e in alcuni casi anche i contadini possedevano e lavoravano la terra ma non la potevano abbandonare.

I samurai possedevano tutti i prodotti che dalla terra venivano ricavati ma la legge proibiva loro di possederla, e inoltre avevano il diritto di portare armi.

Perciò gli uni dipendevano dagli altri, e la spirale di sospetto e sfiducia non aveva mai fine; l'equilibrio tra quanto riso o altri prodotti della terra dovessero essere restituiti annualmente per le tasse e quanto invece potesse essere trattenuto era sempre frutto di un delicato compromesso.

Lo shoya doveva mantenere quest'equilibrio.

L'opinione degli shoya più autorevoli a volte veniva richiesta anche dal feudatario o persino dallo stesso daimyo.

Il nonno di Hiraga era uno di questi shoya.

Alcuni anni prima aveva acquisito lo status di samurai goshi per se stesso e per i suoi discendenti approfittando di una delle periodiche offerte del daimyo.

Tutti i daimyo, quando si trovavano troppo oberati dai debiti, ricorrevano alla vendita del titolo di samurai a qualche degno supplicante.

Hiraga rise, il liquore gli aveva dato alla testa.

“Dopo essere stato scelto per questa scuola dell'olandese ho rimpianto molte volte l'onore perchè l'inglese è una lingua stupida e difficile.”

“In quanti frequentavate la scuola?” chiese Ori.

Nonostante i fumi del sakè scattò il campanello d'allarme, e Hiraga si rese conto che stava fornendo troppe informazioni riservate.

Quanti studenti frequentassero la scuola di Choshu era affare segreto di Choshu, e benché apprezzasse e ammirasse Shorin e Ori, non poteva dimenticare che essi erano satsuma, dunque stranieri, non sempre alleati e spesso nemici, e comunque sempre nemici potenziali.

“Solo in tre per imparare l'inglese” rispose a bassa voce come se confidasse un importante segreto.

Il numero esatto era trenta. Sempre all'erta aggiunse: “Ascoltate, adesso che siete ronin come me e quasi tutti i miei compagni, dobbiamo lavorare insieme.

Sto preparando un piano per un'azione che avrà luogo tra tre giorni e alla quale potreste prendere parte.”

“Ti ringraziamo, ma dobbiamo aspettare gli ordini di Katsumata.

“Ma certo, è il vostro capo.”

Hiraga aggiunse pensieroso: “Tuttavia, Ori, non dimenticare che sei un ronin, e che sarai un ronin fino alla vittoria, non dimenticare che noi siamo l'avanguardia di sonno-joi, siamo coloro che agiscono, mentre Katsumata non rischia niente.

Noi dobbiamo, dobbiamo assolutamente dimenticare che io sono choshu e voi due satsuma. Dobbiamo aiutarci l'un l'altro.

Far seguire all'attacco sulla Tokaidò il furto di fucili è un'ottima idea. Uccidete un paio di guardie dentro la Legazione se vi riesce, sarà una bella provocazione! Se vi riuscisse di farlo in silenzio senza lasciare tracce sarebbe meglio.

Qualsiasi cosa per provocarli”.

 

Grazie alle informazioni ottenute da Hiraga, infiltrarsi nel tempio, contare i dragoni e trovare un nascondiglio adatto non era stato difficile.

Poi erano inaspettatamente comparsi la ragazza e il gigante che si erano ritirati dopo poco lasciandoli a fissare ipnotizzati il cancello del giardino.

“Ori che cosa facciamo adesso?” chiese teso Shorin.

“Ci atteniamo al piano.” I minuti trascorsero nell'ansia.

Quando le imposte del primo piano si aprirono e videro Angélique alla finestra entrambi capirono che nel loro futuro era entrato un nuovo elemento.

Si stava ravviando distrattamente i capelli con una spazzola dal manico d'argento.

Le parole di Shorin suonarono gutturali: “Non sembra così brutto alla luce della luna, ma con quel seno mi stupisco che riesca a stare in equilibrio!”.

Ori non rispose ma continuò a tenere gli occhi fissi su Angélique.

All'improvviso lei esitò e guardò verso il basso, proprio nella loro direzione.

Benché non vi fosse alcuna possibilità che li avesse visti o sentiti, entrambi ebbero l'impressione che il loro cuore si fermasse.

Aspettarono con il respiro affannoso.

Un altro sbadiglio.

Riprese i spazzolare i capelli, poi appoggiò la spazzola sul davanzale e sembrò così vicina che Ori credette di poter allungare una mano e toccarla.

La luce nella stanza gli permetteva di vedere i delicati ricami sulla camicia da notte, i capezzoli sotto la stoffa, e l'espressione inquieta che aveva già avuto occasione di osservare il giorno prima.

Era passato soltanto un giorno? Era stata proprio quell'espressione a fermare il colpo di spada fatale.

Un'ultima strana occhiata alla luna, un altro sbadiglio e poi Angélique chiuse le imposte.

Ma non le sbarrò.

Shorin ruppe il silenzio dando voce ai pensieri di entrambi. “Arrampicarsi non sarebbe difficile.”

“Si, ma siamo venuti qui per i fucili e per creare scompiglio.

Noi...” Ori s'interruppe mentre la sua mente scivolava nell'attrazione improvvisa di un nuovo e magnifico diversivo, un'altra possibilità persino più grandiosa della prima.

“Shorin” sussurrò, “se tu le impedissi di gridare, se tu la violentassi senza ucciderla, lasciandola svenuta ma in grado di raccontare l'accaduto dopo qualche ora, lasciandole un segno che ci colleghi alla Tokaidò, poi potremmo uccidere insieme uno o due soldati e sparire, con o senza i fucili... non sarebbe sufficiente aver fatto tutto ciò dentro la loro Legazione per farli impazzire di rabbia?”

Shorin si lasciò sfuggire un fischio di ammirazione soffocato.

“Sì, sì, basterebbe, ma sarebbe meglio tagliarle la gola e scrivere Tokaidò con il suo sangue. Va' tu, io sto a guardarti le spalle.”

E quando Ori lo guardò con incertezza aggiunse: “Katsumata ha detto che abbiamo fatto male a esitare. L'ultima volta hai esitato. Perché ripetere l'errore?”.

Decisero in una frazione di secondo; Ori stava già correndo verso l'edificio, un'ombra tra le tante.

Cominciò ad arrampicarsi.

 

Fuori dal capanno delle guardie uno dei soldati disse a bassa voce: “Non girarti Charlie, ma penso di aver visto qualcuno correre verso la casa”.

“Cristo, cerchiamo il sergente, attento.”

Il soldato finse di stiracchiarsi ed entrò silenzioso nel capanno.

Senza perdere tempo svegliò il sergente Towery e gli raccontò quello che aveva visto o meglio, che pensava di aver visto.

“Che aspetto aveva quel delinquente?”

“Ho soltanto notato un movimento, sergente, o almeno mi sembra, non ne sono sicuro, poteva trattarsi di un'ombra.”

“D'accordo, andiamo a dare un'occhiata.”

Il sergente Towery svegliò il caporale e un altro soldato e li mandò a sostituire le sentinelle, che l'avrebbero accompagnato in giardino.

“Era più o meno là, sergente.”

Shorin li vide arrivare. Non poteva fare più niente per mettere in guardia Ori ormai sotto la finestra, ma abbastanza ben mimetizzato dagli indumenti e dalle ombre.

Lo osservò raggiungere il davanzale, aprire uno dei due battenti delle imposte e svanire all'interno.

Vide che la finestra veniva lentamente richiusa.

Calma, pensò, e tornò a occuparsi dell'immediato.

Fermo in mezzo al sentiero il sergente Towery stava illuminando i cespugli e la facciata del palazzo.

Molte delle imposte erano aperte e sentirne una scricchiolare al vento non lo preoccupò.

Il cancello del giardino era chiuso.

Infine disse: “Charlie, tu vai da quella parte”.

Indicò un punto a pochi passi dal nascondiglio di Shorin.

“Nogger, tu vai dall'altra parte.

Scovateli se sono nascosti qui! Tenete gli occhi aperti. Baionette pronte!” I soldati obbedirono.

Shorin sguainò la spada annerita per l'incursione notturna e si preparò in posizione d'attacco, la gola stretta.

Scivolato nella stanza Ori controllò l'unica porta esistente e vide che era sbarrata.

La ragazza dormiva profondamente.

Sguainò il tanto, un'arma corta quanto un pugnale, e si diresse verso il letto.

Vedeva per la prima volta un letto a quattro colonne e gli sembrò un oggetto molto strano, alto e pesante, con colonne, tende, lenzuola.

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