Moll Flanders (Collins Classics) (3 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Era presente il fratello minore, che gridò: “Ferma, sorella, corri troppo. Io sono un’eccezione alla tua regola. Ti assicuro che se io trovassi una donna con tutto quel che tu dici, io ti assicuro, ripeto, che non baderei al denaro.”

“Oh, allora,” dice la sorella, “starai bene attento a non filare nessuna che non abbia soldi.”

“Neanche questo puoi dire,” dice il fratello.

“Ma scusa, sorella,” dice allora il fratello maggiore, “perché te la prendi con gli uomini che hanno di mira la ricchezza? A te, se qualcosa manca, non è certo la ricchezza.”

“Ho capito benissimo, fratello,” dice con molto spirito la sorella, “tu vuoi dire che io ho i soldi ma mi manca la bellezza; però, con i tempi che corrono, basteranno quelli senza questa, sicché io mi posso prendere il meglio del vicinato.”

“Già,” dice il fratello minore, “ma può anche darsi che il tuo vicinato, come lo chiami, faccia a meno di te, perché certe volte la bellezza ruba il marito alla ricchezza, e quando capita che la cameriera sia più bella della padrona, può capitare anche che trovi il suo mercato, e che in carrozza vada la cameriera prima della padrona.”

Pensai che fosse venuto il momento per me di ritirarmi e lasciarli, e così feci, ma non mi allontanai tanto da non poter udire tutti i loro discorsi, nei quali sentii dire sul mio conto una quantità di cose belle, che servirono a lusingare la mia vanità ma al tempo stesso, lo capii ben presto, non furono il mezzo più adatto per far salire le mie quotazioni in quella famiglia, poiché quella discussione tra la sorella e il fratello minore finì in modo penoso; lui, a proposito mio, aveva detto alla sorella cose molto scortesi, e io m’accorsi facilmente, dal modo in cui la sorella si comportò in seguito, che se l’era presa a male, e io lo trovavo ingiusto, perché nemmeno lontanamente avevo pensato a quel che la sorella sospettava da parte del fratello minore; il maggiore, in verità, alla sua maniera, con distacco, aveva detto come per scherzo molte cose che io fui così pazza da prendere sul serio, cullandomi nella speranza di cose che avrei dovuto comprendere quanto fossero lontane, invece, sia dalla sua immaginazione che dalle sue intenzioni.

Accadde un giorno che egli arrivasse di corsa al piano superiore, come tante altre volte, alla stanza dove le sorelle solevano starsene sedute a lavorare; le chiamò prima di entrare, anche questo come al solito, e io, che ero lì da sola, feci un passo verso la porta e dissi: “Signore, le signorine non sono qui, stanno passeggiando in giardino.” Avevo appena fatto il passo avanti per dirlo, che lui aveva già varcato la porta e, come per caso, abbracciandomi, diceva: “Oh, signorina Betty, sei tu? Meglio così; preferisco parlar con te che con loro.” E poi, tenendomi fra le braccia, mi baciò tre o quattro volte.

Io lottai per tirarmi via, ma lo feci però molto debolmente, e lui mi tenne stretta e continuò a baciarmi, finché gli mancò quasi il fiato, e allora si sedette e disse: “Betty cara, sono innamorato di te.”

Le sue parole, lo confesso, mi accesero il sangue; tutti i sentimenti mi volarono al cuore e mi gettarono in un tale turbamento che lui poteva facilmente comprenderlo dall’espressione del mio volto. Lui lo ripetè più volte, che era innamorato di me, e il mio cuore gli rispondeva, come se avesse la voce, che ne era felice; anzi, ogni volta che lui diceva: “Sono innamorato di te,” era come se il rossore delle mie guance gli rispondesse: “Così fosse, signor mio.”

Quella volta, però, non accadde altro; era stata soltanto una sorpresa, e quando lui se ne fu andato io tornai in me stessa. Lui sarebbe rimasto più a lungo con me, ma guardando dalla finestra vide tornare le sorelle dal giardino e perciò si congedò, baciandomi di nuovo, dicendomi che aveva parlato sul serio, e che prestissimo l’avrei rivisto; e se ne andò lasciandomi contentissima, benché meravigliata; e io sarei stata anche nel giusto se non si fosse dato un caso sventurato, nel quale consisteva tutto lo sbaglio, e cioè che la signorina Betty era innamorata e il signorino no.

Da quella volta mi passarono per la testa cose strane, e potrei dire che non ero più io; un signore così, che veniva a dirmi di essere innamorato di me, e che io ero una creatura, diceva, incantevole; erano cose che io non sapevo come reggere, la mia vanità saliva al più alto livello. La verità è che avevo la testa piena soltanto di orgoglio, ma, nulla sapendo della cattiveria dei tempi, non mi davo il minimo pensiero della mia integrità né della mia virtù; e se il mio giovane signore me l’avesse offerto a prima vista, avrebbe potuto prendersi ogni libertà su quel che più gli andava di me; ma lui non vide l’occasione, così per quella volta mi andò bene.

Dopo il primo assalto, non passò gran tempo che lui trovò il modo di saltarmi addosso di nuovo, quasi con gli stessi gesti; c’era, per la verità, tutta l’intenzione da parte sua, mancava da parte mia. Fu così: le signorine erano andate con la mamma a fare una visita, il fratello era fuori città, e il padre era da una settimana a Londra. Lui mi aveva tenuta d’occhio così bene che sapeva dov’ero, mentre io non sapevo nemmeno che lui era in casa; e lui vispo sale di sopra, mi vede che lavoro, entra diretto in camera da me e ricomincia come l’altra volta, a stringermi fra le braccia e a baciarmi incollato a me per almeno un quarto d’ora.

Era nella camera della più giovane delle ragazze che io mi trovavo, e, forse perché in casa non c’era nessuno se non le cameriere al pianterreno, lui fu un po’ violento; incominciava a importargli davvero di me. Forse trovò con me la via un po’ facile, perché sa Dio che io non feci resistenza quando lui mi tenne fra le braccia e mi baciò; la verità è che io ci provavo troppo gusto per resistergli.

Tuttavia, a un certo punto, stanchi di quell’esercizio, ci mettemmo a sedere, e lui mi parlò per un bel po’; disse che io l’avevo affascinato, e che lui non sapeva darsi pace notte e giorno se non poteva dirmi che era innamorato di me, e che, se io ricambiavo il suo amore, se lo facevo felice, gli avrei salvato la vita, e molte altre belle cose. Io a lui dissi molto poco, ma senza difficoltà mi resi conto di essere una sciocca che non riusciva a capir bene che cosa voleva lui.

Allora lui si mise a passeggiare per la stanza, mi prese per mano, e io feci qualche passo con lui; e lì per lì, cogliendo l’occasione, mi gettò sul letto e mi baciò col massimo impeto; ma, per rendergli giustizia, va detto che non usò modi violenti, non fece che baciarmi proprio tanto. Dopo di che, gli sembrò di sentire qualcuno che saliva le scale, si alzò dal letto e mi tirò su, dichiarandomi ancora tanto amore, ma disse che si trattava di affetto più che onesto, che lui non voleva farmi del male; e, con questo, mi ficcò in mano cinque ghinee e scese giù.

Io fui sbalordita per il denaro più di quanto lo ero stata per l’amore, e incominciai a sentirmi tanto per aria che non sentivo più il terreno sotto i piedi. Do tutti i particolari, di questa parte della storia, affinché, se giovani innocenti avessero la ventura di leggerla, possano ricavarne insegnamento e apprendere a guardarsi dai guai che capitano quando si scopre troppo presto la propria bellezza. Una volta che una ragazza pensa di essere bella, non dubita della sincerità dell’uomo che le dice di essere innamorato di lei; infatti, se si considera tanto affascinante da catturare un uomo, è logico che si attenda da lui quella reazione.

Quel signorino aveva dato fuoco alla sua voglia, non meno che alla mia vanità, e, come se avesse scoperto che l’occasione c’era e che era un peccato non approfittarne, una mezz’ora dopo o giù di lì viene di nuovo di sopra e ricasca a portarsi con me come prima, solo con meno preamboli.

Per prima cosa, quando fu entrato nella stanza, si voltò e chiuse la porta. “Betty,” dice, “prima m’era sembrato di sentire qualcuno salire le scale, ma non era vero; comunque,” dice, “se mi trovano in questa stanza con te, non mi sorprenderanno mentre ti sto baciando.”

Io gli dissi che non capivo chi potesse salire le scale, perché ero sicura che in casa non c’era nessuno, se non la cuoca e l’altra cameriera, che al piano superiore non salivano mai.

“Però, mia cara,” lui dice, “è sempre meglio esserne certi,” e così si siede, e ci mettemmo a discorrere. In realtà, siccome io ero ancora tutta accesa d’emozione per la sua visita di prima, e parlavo pochissimo, fu lui quasi a mettermi le parole sulle labbra, raccontandomi con quale passione mi amava e che, sebbene non gli fosse possibile nemmeno parlare di una cosa simile prima d’essere entrato in possesso dei suoi beni, era tuttavia deciso a farmi, allora, felice, e ad esser felice lui con me; come dire sposarmi, e una quantità di altre bellissime cose del genere, che io, povera sciocca, non capivo da che parte tirassero, e stavo al gioco come se nemmeno esistesse un certo tipo d’amore ben diverso da quello che conduce al matrimonio; e se lui avesse parlato di quello, a me sarebbero mancati lo spazio e la forza per potergli dire di no; ma non eravamo ancora andati così lontano.

Non eravamo seduti lì da molto tempo, che lui si alzò e, togliendomi il respiro con i baci, mi gettò di nuovo sul letto; ma poiché tutti e due ci eravamo riscaldati, lui si spinse, con me più in là del punto che la decenza mi consente di nominare; e a quel punto io non avrei più potuto contrastarlo nemmeno se lui avesse voluto darmi più di quel che mi diede.

Tuttavia, anche se lui si prese con me quelle libertà, non si giunse al cosiddetto dono supremo, che, sia detto per rendergli giustizia, lui non pretese; e quella rinunzia spontanea gli servì poi come giustificazione per le libertà che su di me si prese in altre circostanze. A cosa finita, lui si trattenne solo qualche istante, ma mi mise in mano una manciata quasi piena d’oro, e mi lasciò, facendomi mille dichiarazioni della sua passione per me e del fatto che amava me più di ogni altra donna al mondo.

Non meraviglierà che io incominciassi a pensarci su, ma, ahimè, furono, le mie, riflessioni non molto profonde. Possedevo una riserva illimitata di vanità e orgoglio, ma una ben piccola riserva di virtù. Cercai, per la verità, di chiedermi più volte, fra me, a che cosa mirasse il mio padroncino, ma non riuscivo a concentrare il mio pensiero altro che sulle sue belle parole e sull’oro; che lui avesse l’intenzione di sposarmi o avesse quella di non sposarmi, non mi pareva una cosa di enorme importanza; né le mie riflessioni bastarono a suggerirmi la necessità da parte mia, come ora sentirete, di non capitolare fin quando lui non fosse giunto a farmi una domanda in piena regola.

Così, senza minimamente preoccuparmene, io mi resi disponibile per la mia rovina, e sono un bel monito per ogni giovane la cui vanità abbia il sopravvento sulla virtù. Più stupidi tutti e due non potevamo essere. Mi fossi io regolata come si doveva, e avessi resistito come imponevano onore e virtù, il signorino, trovando sbarrata la strada al compimento del suo progetto, o avrebbe desistito dalla sua offensiva, oppure mi avrebbe fatto una bella e onorevole domanda di matrimonio; nel qual caso, fosse pur stato criticato lui, da tutti, nessuno avrebbe potuto criticare me. In breve, se lui, conoscendo me, avesse capito quant’era facile avere la cosina che gli importava, non si sarebbe più lambiccato il cervello, ma mi avrebbe dato quattro o cinque ghinee e gli sarebbe bastato presentarsi per coricarsi con me. E avessi io saputo quel che pensava lui, e quanto difficile credeva che io fossi da conquistare, avrei potuto porre io a lui le mie condizioni; e anche senza capitolare per il matrimonio immediato, mi sarei potuta arrendere per il mantenimento fino al matrimonio, e avrei potuto ottenere tutto quel che volevo.

Lui era infatti già ricco a dismisura, oltre quel che doveva ereditare; ma per me fu come se avessi completamente abbandonato pensieri del genere, ed ero tutta presa solo dall’orgoglio per la mia bellezza e dal fatto di essere amata da un tal signore. Quell’oro passai ore intere a guardarmelo; più di mille volte, in un giorno solo, contai quelle ghinee. Mai una povera e vana creatura si trovò più di me chiusa nei risvolti di una faccenda, senza riflettere su quel che mi attendeva né sul fatto che la rovina batteva già alla mia porta; e credo anzi, quella rovina, d’averla cercata, anziché fare il possibile per scongiurarla.

In quel periodo, tuttavia, fui abbastanza furba da non dar modo a nessuno della famiglia di sospettare di me, né di immaginare che io avessi la minima intesa con quel signorino. In pubblico, quasi mai guardavo dalla sua parte, e, se lui mi parlava quando c’era qualcuno vicino, io non rispondevo; ma, con tutto ciò, di quando in quando avevamo un breve incontro, nel quale trovavamo il modo di scambiarci una parola o due, e talora un bacio; ma non avemmo mai l’occasione buona per fare la cosa cattiva che meditavamo; soprattutto considerando che lui prendeva le cose più alla larga di quanto, se avesse capito il mio punto di vista, avrebbe potuto; e poiché l’impresa in apparenza gli risultava difficile, lui la faceva diventare difficile in realtà.

Ma il diavolo, da tentatore infaticabile qual è, non manca mai di trovare occasioni per il malfare cui ci invita. Fu una sera, che io ero in giardino con il giovane e le sue sorelline, e tutti eravamo di ottimo, innocente umore, che lui trovò modo di infilarmi in mano un biglietto, col quale mi raccomandava di tener presente che l’indomani mi avrebbe chiesto pubblicamente di andare a fare una commissione per conto suo in città, e che in qualche luogo a mezza strada avrei incontrato lui.

Secondo i piani, dopo colazione, presenti tutte le sorelle, lui mi dice con tutta serietà: “Signorina Betty, devo chiederti un piacere.”

“E quale?” dice la seconda sorella.

“Certo, sorella,” dice molto serio lui, “se non puoi privarti oggi della Betty, qualunque altro momento andrà bene.” Sì, dissero loro, potevano benissimo privarsene, e la sorella chiese scusa per la domanda, l’aveva fatta per pura inerzia, senza intenzione.

“Già fratello, però,” dice la maggiore, “alla signorina Betty devi per forza dire che piacere è; se fosse una faccenda privata, che noi non dobbiamo sentire, puoi invitarla fuori di qui. Eccotela.”

“Ma, sorella,” dice sempre tutto serio il signore, “che intendi dire? Io desidero solo che vada in High Street” (e tira fuori un colletto) “ad una certa bottega.” E si mette a raccontare una lunga storiella di due belle cravatte per le quali lui aveva offerto un prezzo, e voleva che io andassi per suo conto a comprare un interno per il colletto che mi dava, e scoprire se accettavano il mio denaro per le due cravatte; offrire uno scellino di più, e contrattare; e mi diede anche altri incarichi, che comportavano una tal quantità di piccole incombenze da svolgere, che sicuramente sarei dovuta star fuori casa per un bel po’ di tempo.

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