Io le dissi di sì, e insistetti che era questo far la signora. “Infatti,” dico, “c’è la tale,” e faccio il nome di una donna che rammendava merletti e lavava le cuffie di merletto delle dame; “quella,” dico, “è una signora, e la chiamano madama.”
“Povera bambina,” dice la mia vecchia balia, “potresti far presto a diventare una signora come quella, è una donna di cattiva reputazione, che ha già avuto due o tre bastardi.”
Io non capii niente, ma risposi: “So che la chiamano madama, so che non va a servizio e che non fa i lavori di casa,” e insistetti perciò sul fatto che quella era una signora, e che io sarei stata una signora così.
Anche ciò, beninteso, venne raccontato alle gentildonne, che si divertirono moltissimo, e ogni tanto le due signorine figlie del signor sindaco venivano per vedermi, e chiedevano dov’era la piccola signora, il che mi rendeva non poco fiera di me.
Questo durò parecchio, le due signorine venivano a trovarmi spesso, e a volte ne conducevano altre con loro; cosicché, per quella storia, ero ormai conosciuta in quasi tutta la città.
Avevo ormai sui dieci anni, e cominciavo ad avere già un’aria da donna. Ero infatti molto seria, di garbo, educata, e poiché avevo sentito spesso quelle dame dire che ero bellina e che sarei divenuta una donna molto bella, figuratevi se sentirle parlare così di me non mi faceva inorgoglire un po’. L’orgoglio, però, non mi faceva allora nessun cattivo effetto; solo, poiché spesso mi davano del denaro e io lo davo alla mia vecchia balia, lei, brava donna, era così scrupolosa da spenderlo tutto per me, e mi comprava cuffie, biancheria, guanti e nastri, e io andavo in giro molto in ordine, sempre pulita. Avessi avuto anche soltanto stracci da portare, sarei andata in giro egualmente pulita, piuttosto mi sarei lavata da me i miei stracci; ma, come ho detto, la mia brava balia il denaro che io le davo lo spendeva tutto per me, e diceva alle dame che questa o quella cosa erano state acquistate con i loro soldi; e quelle allora, il più delle volte, mi davano altri soldi, finché un giorno, alla fine, io fui chiamata, come m’aspettavo, dai magistrati, i quali ordinarono che io andassi a servizio; ma intanto io ero diventata una operaia così brava, e le dame erano così gentili con me, che era facile per me mantenermi, ovvero far guadagnare alla mia balia quanto le bastava per mantenermi, e così lei disse ai magistrati che, se le davano il permesso, lei si teneva con sé la piccola signora, così mi chiamavano ormai, come assistente e come maestra dei bambini, cosa che io già ero capace di fare, perché sul lavoro ero svelta, e avevo la mano facile con l’ago, anche se ero ancora tanto piccola.
Ma la gentilezza delle dame della città non si fermò lì, perché quando vennero a sapere che io non ero più, come prima, mantenuta a spese pubbliche, mi dettero del denaro più spesso di prima; e di mano in mano che io crescevo mi portavano sempre più lavoro da fare per loro, biancheria da cucire, merletti da rammendare, cuffie da metter su, e non soltanto mi pagavano ma addirittura mi insegnavano a farle; cosicché ormai ero davvero una signora, come io intendevo quella parola e come io volevo essere. Infatti, a dodici anni, io non solo mi compravo i miei vestiti e davo il denaro alla balia per il mio mantenimento, ma avevo persino del denaro in più da spendere.
Le dame mi davano anche, spesso, indumenti loro e dei loro figli, calze, sottane, abiti, chi questo e chi quello, e di tutte quelle cose la mia vecchia si occupava per me proprio come una mamma, me le teneva da parte, mi obbligava a rammendarle, a rivoltarle, a riporle per l’uso migliore perché era una donna di casa di rara bravura.
Una di quelle dame, infine, mi prese tanto in simpatia da volermi tenere a casa sua un mese, così disse, con le sue figlie.
Ora la cosa, benché tanto gentile da parte sua, poteva tuttavia fare alla piccola signora più danno che bene, disse la mia vecchia balia, a meno che lei decidesse di tenermi con sé per sempre e tanti saluti.
“È vero,” dice allora la dama, “vuol dire che la terrò in casa mia una settimana soltanto, per vedere se lei e le mie figliole vanno d’accordo, e se mi piace il suo carattere, e poi vi saprò dire; e intanto, se qualcuno viene a cercar di lei, basterà dire che l’avete mandata a casa mia.”
La cosa fu così combinata con sufficiente prudenza, e io andai a casa della dama; ma mi trovai così bene con le signorine, e loro con me, che dovetti fare uno sforzo per venir via, e nemmeno loro volevano separarsi da me.
Tuttavia me ne tornai via, e vissi quasi un altro anno con la mia brava vecchia, e cominciavo ora ad essere un buon aiuto per lei; ero sui quattordici anni, dimostravo più della mia età, e avevo già un’aria abbastanza da donna; ma in casa di quella dama avevo avuto un’idea della vita signorile, e ormai non mi era più facile come una volta abitare nel luogo di prima, e pensavo che davvero era una gran bella cosa essere una signora, perché adesso sul fatto di essere una signora avevo idee più chiare di una volta; e così come ero sicura che era bello far la signora, sapevo ormai che mi piaceva anche vivere in mezzo alle altre signore, e avevo un gran desiderio di ritornarci.
Quand’ebbi quattordici anni e tre mesi la mia brava vecchia balia, o madre dovrei piuttosto dire, si ammalò e morì. Mi trovai allora in una situazione ben triste, perché c’è poco da commuoversi quando son da sistemare le cose di famiglia lasciate da un defunto povero, una volta che sia andato sottoterra, e così appena la povera donna fu sepolta i bambini della parrocchia a cui lei badava furono subito presi in consegna dalle autorità ecclesiastiche; la scuola finiva, i bambini dovevano solo restare in quella casa finché non li avrebbero mandati altrove; e per quel che la donna lasciava, arrivò una sua figlia, donna sposata con sei o sette figli, e si spazzò via tutto, e, mentre portavano via la roba, nessuno trovò da dire a me altro che parole di scherno, e dicevano che la piccola signora poteva cominciare una bella vita per suo conto, ormai.
Io, quasi impazzita, ero fuori di me e non sapevo che fare, perché era come se mi avessero cacciata di casa e gettata in mezzo al mondo e, cosa ancora peggiore, l’onesta donna aveva in mano sua ventidue scellini miei, i quali erano l’intero patrimonio che la piccola signora possedeva al mondo; e quando ne chiesi alla figlia, lei mi trattò male, rise di me, disse che lei non c’entrava.
La verità era che la povera brava donna ne aveva parlato alla figlia, e aveva detto che erano nel tal posto, e che erano soldi della bambina, e due o tre volte mi aveva fatto chiamare per consegnarmeli, ma io sfortunatamente ero in giro di qua o di là e, quando arrivai, lei era già al punto di non poterne parlare più. Tuttavia la figlia, in seguito, fu abbastanza onesta da consegnarmi il denaro, anche se prima era stata cattiva con me.
Adesso ero una signora povera, e quella sera stessa dovevo incominciare ad andarmene per il mondo quant’è grande; la figlia, infatti, portò via tutta la roba, e io non avevo né casa dove stare né un pezzo di pane da mangiare. Sembra, però, che certi vicini i quali conoscevano i casi miei abbiano provato compassione per me e abbiano avvertito la dama a casa della quale io ero stata, come ho già raccontato, per una settimana; e quella subito mandò la cameriera a prelevarmi, e insieme con la cameriera vennero anche due delle signorine, benché nessuno le avesse mandate. Così io presi fagotto e sporta e andai con loro, contentissima come potete immaginare. Lo spavento per la mia nuova condizione mi aveva così turbata che ora non ci tenevo più a far la signora, avevo invece tutta la buona volontà di far la serva, qualunque tipo di serva mi volessero far fare.
Ma la mia nuova padrona era così generosa da essere persino, per ogni verso, superiore alla buona donna con la quale ero stata fino a quel giorno, non era soltanto più ricca; per ogni verso, s’intende, eccetto che per onestà; da questo punto di vista, benché quella dama fosse assolutamente perfetta, io però non posso fare a meno di ripetere sempre che la prima, benché povera, era di una onestà così assoluta che di più non è possibile al mondo.
Mi aveva appena portato via, come ho detto, quella buona signora, che la prima dama, vale a dire la sindachessa, mandò le due figlie a interessarsi di me; e dopo di lei anche un’altra famiglia, che mi aveva già conosciuta quando io ero la piccola signora, e mi aveva dato dei lavori da fare, mandò a cercarmi, sicché figuratevi come diventavo importante; e si arrabbiarono anche parecchio, specialmente madama la sindachessa, per il fatto che la sua amica mi avesse, diceva così, rubato a lei, perché io spettavo a lei di diritto, diceva, era stata lei a scoprirmi per prima. Ma quelli che mi tenevano con loro non vollero separarsi da me; e, per parte mia, per quanto sarei stata certo trattata bene anche da quegli altri, non potevo tuttavia sperare di stare meglio che dove stavo.
Vi rimasi finché fui tra i diciassette e i diciotto anni, e ne ebbi per la mia educazione ogni vantaggio immaginabile; la dama faceva venire a casa dei maestri per insegnare alle figlie a ballare, a parlar francese, a scrivere, e altri per insegnar loro la musica; e siccome io ero sempre con loro, imparavo svelta come loro; e sebbene i maestri non avessero il compito di insegnare anche a me, tuttavia io, per mimetismo e per curiosità, apprendevo tutto quello che dall’insegnamento e dalla precettistica apprendevano le signorine; sicché, ben presto, io imparai a ballare e a parlar francese bene come loro, e a cantare anche meglio, perché avevo la voce migliore di tutte. Non potei con uguale facilità arrivare a suonare il clavicembalo o la spinetta perché non avevo uno strumento mio per esercitarmi, e potevo soltanto mettermi ai loro quando, in qualche intervallo, loro non li usavano, ma non sempre capitava; eppure imparai passabilmente, e con l’andar del tempo le signorine ebbero due strumenti, vale a dire un clavicembalo e una spinetta, e allora furono loro a insegnarmi. Ma per il ballo non potevano rinunziare al fatto che io sapessi i diversi balli, perché avevano sempre bisogno di me per fare i numeri; e, del resto, avevano anche loro altrettanta voglia di insegnare a me tutte le cose che erano state insegnate a loro, quanta ne avevo io di impararle.
In tal modo io avevo, come ho già detto, tutti i vantaggi dell’educazione che avrei avuto se fossi stata una signora uguale a quelle fra le quali vivevo; e in alcune cose ero anche favorita rispetto alle mie signore, benché loro fossero superiori a me; ma erano quelli doni di natura, che tutte le loro ricchezze non potevano bastare a procurare. Primo, io ero, d’aspetto, più bella di tutte loro; secondo, ero più formosa; e, terzo, cantavo meglio, perché avevo voce migliore; e consentitemi di dire che a questo riguardo esprimo non già una mia presunzione, bensì l’opinione di quanti frequentavano quella famiglia.
Avevo inoltre la vanità che è comune al mio sesso; considerata molto bella, o, se così preferite, una vera bellezza, io lo sapevo benissimo e mi stimavo da me più di quanto potesse stimarmi chiunque altro; e specialmente mi piaceva sentir qualcuno parlarne, il che accadeva tutt’altro che di rado e mi dava una gran soddisfazione.
La storia che di me fino a questo punto ho narrato è una storia limpida e pulita; per tutto quel periodo della mia vita io non solo godetti della reputazione di chi vive presso un’ottima famiglia, una famiglia conosciuta e rispettata da tutti per le sue virtù, la sua serietà e tante altre belle cose; ma avevo anche l’animo della giovane seria, modesta, virtuosa, quale sempre ero stata; né avevo ancora avuto l’occasione di pensare ad altro, né di sapere che cosa vuol dire essere tentati al male.
Ma la cosa per la quale ero così vanitosa fu la mia rovina; o meglio, causa della mia rovina fu la mia vanità. La dama in casa della quale stavo aveva due figli, due giovani gentiluomini di promettenti qualità e di bel portamento, e fu mia disavventura andare perfettamente d’accordo con ognuno dei due, mentre loro si comportarono nei miei riguardi in due modi completamente diversi.
Il maggiore, gentiluomo gaio che era pratico di città come di campagna, sebbene fosse superficiale abbastanza da fare una cosa non per bene, aveva tuttavia il buon senso necessario per non pagar troppo cari i suoi divertimenti. Sfoderò il solito tristo trucco che è buono per ogni donna, e cioè ad ogni pie’ sospinto notava che io ero carina, diceva, simpatica, piena di buone maniere, e cose simili. Si comportava con abilità sottile, quasi si fosse trattato per lui di prendere nella rete una donna come le pernici che prendeva a caccia. Faceva, infatti, in modo da parlarne con le sorelle quando sapeva che io, benché non fossi presente, non ero però tanto lontana da non poterlo udire. Le sorelle gli rispondevano a bassa voce: “Zitto, fratello, ti sentirà, è proprio nella stanza accanto.” Allora lui si fermava, e a voce più bassa, come se non l’avesse saputo, cominciava a riconoscere di aver commesso un errore; ma poi, come se ne dimenticasse, si rimetteva a parlar forte, e io, che a sentirlo provavo un gran piacere, ero immancabilmente in ascolto in ognuna di quelle occasioni.
Quando ebbe così posto l’esca all’amo, e trovato il modo più facile per gettarmelo, passò a fare un gioco più scoperto. Un giorno, entrato in camera della sorella mentre c’ero io, che stavo facendo qualcosa come aiutarla a vestirsi, si fa avanti con un’aria allegra: “Oh, signorina Betty,” mi dice, “come va, signorina Betty? Non ti fischiano le orecchie, signorina Betty?” Io feci una riverenza arrossendo, ma non dissi nulla.
“Ma che dici fratello?” dice la sorella.
“Sapete,” dice lui, “è mezz’ora che parliamo di lei al pianterreno.”
“Ma sono sicura,” dice la sorella, “che non potete averne parlato male, e per questo non ci interessa sapere che cosa avete detto.”
“Anzi,” dice lui, “si era ben lungi dal dirne male, tanto che ne abbiam parlato benissimo, e della signorina Betty sono state dette cose bellissime, ve lo assicuro; per esempio, che è la più bella ragazza di Colchester; e che in città c’è già chi si prepara a farle gli auguri per le nozze.”
“Mi meraviglio di te, fratello,” dice la sorella. “È una sola la cosa che manca alla Betty, ma è come se le mancasse tutto, perché di questi tempi il nostro sesso non ha un gran mercato; se una giovane possiede bellezza, nascita, educazione, intelligenza, gusto, garbo, modestia, sia pure nella massima misura, ma non ha denaro, allora non è nessuno, è come se le mancasse tutto, perché soltanto il denaro è una buona raccomandazione per le donne; il gioco degli uomini è il pigliatutto.”