Moll Flanders (Collins Classics) (9 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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“Come “andremo”?”, dico io. “Io non so andare a cavallo, e per andarci in carrozza è troppo lontano.”

“Lontano?” dice lui. “Non ci sono posti lontani, per una carrozza a sei cavalli. Se sei con me, devi viaggiare come una duchessa.”

“Mio caro,” dico io, “è una cosa da pazzi, ma se tu ne hai voglia, per me va bene.”

Così, il giorno stabilito, avemmo una ricca carrozza, magnifici cavalli, cocchiere, postiglione, due servitori con belle livree, un valletto a cavallo e, su un altro cavallo, un paggio con la piuma sul cappello. I servitori chiamavano Milord mio marito, e lo stesso facevano, come potete figurarvi, i tavernieri, e io ero Suo Onore la Duchessa, e così andammo fino a Oxford e fu un gran bel viaggio; perché, bisogna dirlo, non c’era pezzente al mondo capace di fare il signore meglio di mio marito. Vedemmo tutte le cose importanti di Oxford, parlammo con due o tre professori dei collegi della possibilità di far entrare all’università un nostro giovane nipote, che era stato affidato alle cure di Sua Signoria, e al quale loro avrebbero potuto far da tutori. Ci divertimmo a prendere in giro molti altri poveri studenti, dando loro la speranza di diventare perlomeno cappellani di Sua Signoria, o di avere un collare; e così, facendo le cose veramente in grande, almeno in fatto di spese, proseguimmo per Northampton e, infine, tornammo a casa dopo una dozzina di giorni di peregrinazioni, al ritmo di novantatré sterline di spesa al giorno.

La vanità per un uomo di mondo è tutto. Mio marito era bravissimo in una cosa, nel non badare a spese. E siccome la sua storia, come potete capire, ha ben poco a che fare con la mia, vi basterà sapere che in poco più di due anni fece fallimento e non riuscì a chiedere asilo alla Zecca, ma fu chiuso nel carcere provvisorio. Era stato arrestato per un affare troppo grosso per lui, tanto che non poté dare la cauzione. Così mi mandò a dire di andarlo a trovare.

Per me non fu affatto una sorpresa, da tempo avevo previsto che sarebbe andato tutto a catafascio e mi ero preoccupata di metter da parte quel che potevo, benché non fosse molto, per me. Ma lui, quando mi mandò a chiamare, si comportò molto meglio di quanto mi sarei aspettata. Mi disse chiaro e tondo che aveva fatto delle pazzie, gli seccava che l’avessero pescato perché poteva pensarci prima. Ora capiva che non poteva farcela più, perciò voleva che io andassi a casa e portassi via di notte e mettessi al sicuro tutto quel che c’era di valore. Mi disse inoltre che, se riuscivo a ricavare fra le cento e le duecento sterline vendendo merci che erano nel negozio, le prendessi pure. “Solo,” dice, “a me non far sapere niente, né che cosa prendi né dove lo porti. Quanto a me,” dice, “sono deciso a uscire di qua e scomparire. Se non saprai più nulla di me, mia cara,” dice, “io ti auguro ogni bene. Mi dispiace solo del male che ti ho fatto.” Mi disse altre cose davvero molto belle salutandomi; era, come vi ho detto, un vero signore, e fu quello tutto il benefizio che io ebbi dal fatto che era un signore; mi trattò stupendamente e con ogni riguardo in ogni momento, fino all’ultimo di quei momenti; ma spese tutto quel che io possedevo e a me, come solo mezzo di sussistenza, lasciò da derubare i creditori.

Io mi regolai tuttavia, siatene pur certi, come lui mi aveva istruito. Dopo essermi così congedata da lui non lo rividi mai più, perché trovò il modo quella notte o la notte dopo di fuggire dal carcere provvisorio e di passare in Francia, e ai creditori non restò che sgambettargli dietro come poterono. Come fece non so, perché tutto quel che mi risulta è che lui arrivò a casa alle tre di notte, fece portare alla Zecca tutte le merci che restavano e chiudere il negozio; racimolato tutto il denaro che poté, fuggì, come ho già detto, in Francia, donde ricevetti un paio di lettere sue, e basta.

Io non lo vidi quando arrivò a casa, perché, siccome lui mi aveva già dato tutte le istruzioni e io non avevo perso tempo, non avevo nessuna ragione di tornare a casa, visto che sapevo che rischiavo solo di essere pescata dai creditori; una denuncia per bancarotta era stata subito inoltrata, infatti, e potevano farmi fermare dagli ufficiali giudiziari. Ma mio marito, dopo essere tanto destramente evaso dal carcere saltando alla disperata da quel tetto sul tetto di una casa vicina, e poi saltando giù da quello, ed erano almeno due piani eppure non servirono a fargli rompere il collo, arrivò a casa e se ne andò con la roba prima che arrivassero i creditori a prenderla; prima, cioè, che riuscissero a ottenere il mandato e a far sequestrare la roba dagli uscieri.

Mio marito fu così civile con me, perché insisto nel dire che era proprio un signore, che nella prima lettera che mi scrisse dalla Francia mi disse dove aveva impegnato per trenta sterline venti pezze di tela d’Olanda fine, che ne potevano valere più di novanta, e accluse la bolletta e un ordine scritto per ritirarle pagando la somma, cosa che io feci, riuscendo a ricavarne più di cento sterline, con l’accortezza di tagliar la tela in pezze e venderla a famiglie private, quando se ne presentò l’occasione.

Con tutto questo, però, e con quel che avevo messo al sicuro prima, io mi resi conto, considerando ogni cosa, che la mia situazione era molto cambiata, e la mia fortuna molto scemata. Infatti, contando la tela d’Olanda, e una partita di mussolina fine che avevo portato via prima, qualche pezzo d’argenteria e poche altre cose, riuscivo a malapena a radunare cinquecento sterline. E la mia condizione era molto bizzarra, perché sebbene non avessi figli (ne avevo avuto uno dal mercante gentiluomo, ma era sottoterra) pure ero una strana vedova; avevo marito e non l’avevo, e non potevo pretendere di maritarmi di nuovo, benché sapessi che mio marito, fosse vissuto ancora cinquant’anni, non sarebbe mai più potuto tornare in Inghilterra. Così mi era precluso il matrimonio, qualunque domanda potessi ricevere, e non avevo nemmeno un amico col quale consigliarmi nella situazione in cui mi trovavo, nessuno al quale osassi confidare il segreto della mia condizione perché, se gli ufficiali giudiziari venivano a sapere dov’ero, mi prendevano, mi interrogavano sotto giuramento e mi portavano via tutto quel che ero riuscita a mettere da parte.

Con tali preoccupazioni, la prima cosa che feci fu di allontanarmi dalle mie conoscenze e prendere un altro nome. Lo feci nel modo migliore, andai anche a registrarmi alla Zecca, presi alloggio in una zona molto appartata, mi vestii da vedova e mi feci chiamare signora Flanders.

Lì mi tenni nascosta, comunque, e sebbene le mie nuove conoscenze non sapessero nulla di me, ben presto mi trovai con un mucchio di gente intorno. O che le donne son rare fra il tipo di gente che frequenta di solito quei luoghi, o che una certa consolazione alle miserie del luogo è più ricercata che in altre occasioni, certo è che io presto scopersi che una donna simpatica è molto apprezzata colà, tra i figli del dolore; e quelli che erano in cerca di soldi per pagare la mezza corona per sterlina ai creditori e facevano debiti per pranzare all’insegna del Toro, tuttavia i soldi per la cena li trovavano, se gli piaceva la donna.

Io mi comportai tuttavia con prudenza, anche se incominciavo, come quell’amica di Lord Rochester che accettava la sua compagnia ma non gli permetteva di andare più in là, ad avere la nomea della puttana, senza averne l’utile; giunta a questo risultato, stanca del luogo e anche della gente che c’era, cominciai a pensare di andarmene.

Fu invero materia di curiosa riflessione per me vedere uomini che, travolti da circostanze intricate, ridotti al più basso livello della rovina, con famiglie che erano oggetto del loro spavento e della carità altrui, pure, finché avevano un soldo, e anche quando non ne avevano più, facevano ogni sforzo per annegare il loro dolore nel vizio; accumulando sul proprio capo altre colpe, tentando di dimenticare le cose di prima, che invece sarebbe stato il momento di ricordare, affaticandosi a trovare nuovi motivi di pentimento e continuando a commettere, come rimedio ai peccati di prima, altri peccati.

Ma io non ho la stoffa per predicare. Quegli uomini erano troppo corrotti, persino per me. C’era nel loro modo di peccare qualcosa di terribile e di assurdo, perché la loro era in sostanza una violenza commessa contro se stessi. Non agivano solo contro coscienza, ma anche contro natura. Violentavano il proprio carattere per seppellire i pensieri cui la loro condizione li conduceva di continuo; e la cosa più facile era accorgersi dei sospiri che interrompevano le loro canzoni, e del pallore e dell’angoscia che gli apparivano in volto, a dispetto del sorriso che si sforzavano di ostentare; a volte, anzi, la verità gli usciva di bocca, quando avevano detto addio ai loro soldi in cambio di un lurido convegno o di un tristo abbraccio. Ne ho sentito più di uno voltarsi da parte, trarre un profondo sospiro, e lamentarsi, “Ma che razza di bestia sono! Bene, Betty mia cara, bevo alla tua salute, comunque,” e pensava alla moglie per bene, che magari non aveva mezza corona per sé e per i tre o quattro figli. La mattina dopo sono di nuovo a far penitenza; e magari la povera moglie in lacrime viene a cercarlo, e gli dà notizia di qualcosa che i creditori stanno per fare, o del fatto che lei e i figli sono sul punto d’essere cacciati di casa, o d’altre cose tremende. Ma quello, quando ci ha pensato e ripensato fino a uscirne matto, siccome non ha principi che lo reggano e non ha nulla né dentro di lui né al di sopra di lui che serva a confortarlo, ma vede solo buio da ogni parte, fugge di nuovo in cerca del medesimo sollievo, cioè bere e abbrutirsi; e ricadendo in compagnia di gente che è in quella stessa condizione commette di nuovo lo stesso misfatto, e così ogni giorno compie un altro passo sulla strada che lo conduce alla sua perdizione.

Io non ero ancora corrotta abbastanza per gente come quella. Al contrario, cominciai allora a riflettere seriamente su quel che dovevo fare, sul modo in cui stavano le cose per me e sulla strada migliore da prendere. Mi rendevo conto che non avevo amici, non un’amicizia né una conoscenza al mondo; quel poco che m’era rimasto si dissipava a vista d’occhio, e, finito quello, non mi vedevo davanti che miseria e fame. Per queste considerazioni, piena di spavento per il luogo dove mi trovavo e per le prospettive terribili che mi vedevo davanti, decisi di andarmene.

Avevo fatto la conoscenza di una brava donna, molto morigerata, che era rimasta vedova come me, ma in circostanze migliori. Il marito era stato capitano di una nave mercantile e, avendo avuto la sfortuna di far naufragio al ritorno da un viaggio alle Indie Occidentali che, se gli fosse riuscito di tornar sano e salvo, sarebbe stato molto redditizio per lui, fu così mal ridotto dal danno subito da averne, pur salvandosi la vita, spezzato il cuore, e poco dopo morì. La vedova, perseguitata dai creditori, fu costretta a rifugiarsi alla Zecca. Riuscì in poco tempo a mettere a posto le cose, con l’aiuto di amici, e tornò in libertà. Quando si rese conto del fatto che io mi trovavo colà perché volevo starmene appartata e non perché fossi ricercata da nessuno, e che io ero del suo parere, o lei del mio, nel provare una giusta avversione per quei luoghi e quelle compagnie, mi invitò ad abitare a casa sua finché non sarei riuscita a trovare il verso di sistemarmi secondo i miei desideri, al contempo dicendomi che in quella parte della città dove abitava lei c’erano dieci probabilità contro una che s’invaghisse di me un bravo capitano di nave e mi facesse la corte.

Io accettai l’offerta, restai con lei la metà di un anno, e vi sarei rimasta anche più a lungo, ma in quel frattempo quello che lei aveva prospettato per me accadde invece a lei, e si sposò con ottima convenienza. Ma, se prosperavano le fortune altrui, le mie erano invece in declino, e io non trovai praticamente nessuno, meno un paio di nostromi e gente simile, ma i capitani, in genere, erano di due tipi. 1° Quelli che, disponendo di un buon lavoro, cioè di una nuova nave, non intendevano sposarsi se non trovavano la convenienza, cioè una bella dote. 2° Quelli che, disoccupati, cercavano una moglie che li aiutasse a farsi la nave. Voglio dire: 1°, una moglie con soldi che li ponesse in grado di prendere, come si dice, una buona quota della nave, in modo da incoraggiare altri proprietari a entrare nell’affare; oppure, 2°, una moglie senza soldi ma con amici che si occupassero di navi, che fosse in grado di piazzare il giovane su una buona nave, il che per loro vale quanto una dote. Ma né l’uno né l’altro era il caso mio, e così io parevo destinata a non trovar nessuno che mi comprasse.

Una cosa imparai presto con l’esperienza, e cioè che riguardo al matrimonio la situazione era mutata, e io non dovevo aspettarmi di avere a Londra quel che avevo avuto in provincia. Qui i matrimoni erano il risultato di un calcolo inteso ad accumulare interessi e a far concludere affari, e l’amore non c’entrava per nulla, o c’entrava assai poco.

Come aveva detto la mia cognata di Colchester, bellezza, intelligenza, maniere, spirito, portamento, educazione, virtù, devozione e ogni altro pregio fisico e morale non erano per nulla una raccomandazione; solo i soldi rendevano desiderabile una donna; gli uomini si sceglievano l’amante a loro gusto e piacimento, e a una puttana si chiedeva d’esser bella, ben fatta, di faccia graziosa e portamento garbato; ma in fatto di moglie non c’era deformità che togliesse la voglia, non c’erano difetti capaci di far mutare scelta. L’unica cosa era il denaro. La dote non era mai né storpia né mostruosa, i soldi eran sempre belli, comunque fosse la moglie.

D’altra parte, siccome il mercato in fatto di uomini offriva poco, io scoprii che le donne avevano perso il privilegio di dire di no. Era ormai una fortuna per una donna sentirsi fare la domanda, e se una giovane aveva tanta superbia da rifiutare, non le capitava mai più l’occasione di dir di no una seconda volta, e tanto meno di riparare a quel passo falso e accettare quel che aveva mostrato di respingere. Gli uomini avevano una tal scelta dovunque, che ben triste era la condizione delle donne. Gli uomini non dovevano far altro che bussare ad ogni porta: se uno si vedeva respinto da una casa era certo di essere accettato nella casa vicina.

Osservai, inoltre, che gli uomini non si facevano scrupolo di gettarsi avanti e andare, come si dice, a caccia di dote, anche quando non possedevano loro nulla per pretenderlo, né qualità per meritarlo. Ne ebbi l’esempio con una giovane che abitava in una casa vicina alla mia, con la quale avevo fatto conoscenza. Costei fu corteggiata da un giovane capitano, e, poiché le sue sostanze ammontavano a quasi duemila sterline, chiese ai vicini qualche informazione sulla situazione di lui, sulla sua moralità e sulle sue finanze. E lui, la prima volta che venne a farle visita, le disse chiaro e tondo che se l’era avuta molto a male e che non le avrebbe più dato il disturbo delle sue visite. Io lo seppi, e, poiché avevo fatto la conoscenza di quella donna, andai a trovarla per sentire. Lei si buttò a parlarne a fondo con me, mettendo a nudo con tutta libertà quel che aveva in petto. Io compresi che, per quanto lei sentisse d’essere stata trattata male, tuttavia non era nemmeno capace di ritenersi offesa, e più di tutto le bruciava di perderlo, e specialmente che se lo pigliasse un’altra meno ricca di lei.

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