Virus (18 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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La luce nella stanza se n'era quasi andata. Gli occhi di Lois erano due sfere nere e lucide, e anche se lui voleva andarsene quegli occhi lo inchiodavano sul posto. Gli toccavano la pelle fino a farlo rabbrividire. Per un secondo, pensò di sentirla dentro di sé. Era una sensazione orrenda, come trovarsi il nemico nel letto, e gli venne da chiedersi se avesse mai conosciuto la vera Lois. «Valeva la pena, di farmi quello che mi hai fatto?»

«Siamo innamorati» insistette Noreen, solo che sembrò una domanda:
Siamo innamorati?

Lois fece un ghigno. Non assomigliava più alla sua ragazza. Non era buona. Non era dolce. Si era inasprita come sua madre.

«Se ti va puoi partecipare al matrimonio» mormorò Noreen. Era una frase talmente assurda, persino alle orecchie di Noreen, che nella stanza scese il silenzio. Poi Lois rise. Non una risatina, ma un raglio malevolo e monotono.

Gli vennero i brividi.

Noreen cominciò a sussultare, e lui pensò avesse freddo finché non si girò a guardarla. Stava piangendo. Si asciugò il naso con la manica del camice rosa e disse: «Io sono fatta così. È più forte di me, Lois, ma tu eri la mia migliore amica. Dico sul serio. Mi dispiace. Mi dispiace davvero». Il fatto scioccante è che sembrava sincera.

La cosa rattrappita nel letto sogghignava mentre Noreen piangeva, e lui si convinse che non era Lois Larkin. Chiunque avesse un cuore, persino il suo vecchio coinquilino Andrew, si sarebbe impietosito per Noreen in quel momento. Avrebbe capito che faceva del suo meglio e, trattandosi di Noreen, non era cosa da poco.

Il raglio di Lois si fece più alto, e lui si accorse che la fessura tra i suoi denti era quasi sparita. Anzi, quella sera non aveva nemmeno la lisca. Strinse più forte la mano di Noreen. Questa cosa, questa
non
-Lois, era pericolosa.

Insieme, lui e Noreen arretrarono. Noreen tremava, e lui capì che anche lei aveva paura.

Prima di voltarsi verso la porta, notò un bagliore rosso sul vetro della finestra.
Cazzo! Sangue!
pensò dapprima, ma non si trattava di sangue. Era un riflesso. C'era un contenitore di mangime per uccelli sul davanzale, e d'estate a Lois piaceva starli a guardare quando si riunivano a intonare i loro canti. Era come il Pifferaio di Hamlin, gli animali erano sempre stati attratti da Lois. Una volta durante un picnic un intero sciame di coccinelle si era posato sul suo golfino giallo. Le avevano passeggiato addosso e i suoi abiti erano sembrati una cosa viva. Per un secondo lui aveva pensato che Lois Larkin fosse magica.

Sul davanzale c'era un mucchietto di penne rosso cardinale. Lui focalizzò lo sguardo, e vide che c'erano anche le piccole ossa dell'uccello. Il mucchietto era lontano, ma gli parve di intravedere un teschio, e anche, sì, un minuscolo artiglio.

Girò in fretta sui tacchi e si avvicinò alla porta.

«Ronnie!» gridò Lois. Aveva la voce roca e piena di catarro.

Lui continuò a camminare, con tutta la calma che gli riuscì di racimolare.
Ti prego
,
pensava,
non dirlo. Ti imploro, Lois Larkin. Non dirlo.

«Te l'avevo detto che avevo fame» disse.

Lui rinunciò alla finzione di un'uscita dignitosa. Tenendo stretta la mano di Noreen, fuggì a gambe levate.

 

12.

God only knows

 

Fenstad Wintrob
fischiettava.
Le melodia era
God Only Knows
dei Beach Boys, e lui sorrideva mentre percorreva a grandi falcate il corridoio dell'ospedale. Le ultime due notti lui e Meg avevano dormito abbracciati, e per la prima volta dopo molto tempo lui non aveva scalciato per gli incubi.

Mortificata dalla vista della ferita di Meg, e per associazione dalla fragilità della salute dei suoi genitori, Maddie si era comportata in modo davvero affabile a colazione quella mattina. Aveva mangiato un pompelmo intero, arrivando persino a sparecchiare la tavola e riempire la lavastoviglie. Si era agghindata come un giullare di corte (capelli viola e pure calze di pizzo!), ma né lui né Meg avevano sollevato obiezioni. La tenuta aveva un suo fascino particolare, proprio come Maddie.

Prima di andare al lavoro l'aveva baciata sulla guancia. Sua figlia gli aveva fatto un sorriso talmente grande che i suoi occhi verdi avevano brillato, e lui si era reso conto che un giorno qualcun altro oltre a Enrique Vargas avrebbe guardato al di là dei suoi eccentrici vestiti di seconda mano e del suo eyeliner nero. L'avrebbero vista per il cigno che era in realtà, e quel giorno gli avrebbe spezzato il cuore.

Il primo impegno della giornata era la terapia di gruppo con i pazienti ambulatoriali. Sheila, la robusta bag lady con il figlio ricco, fu la prima ad arrivare. Si era avvolta la catena da bicicletta intorno alla vita facendole fare due giri, come fosse una cintura. Quando sedette sul divano, la catena sferragliò.

«Cosa ti sei messa addosso?» domandò Fenstad. Con ogni probabilità era la stessa catena che Meg aveva usato contro Albert.

Lei ne sollevò con delicatezza un anello e poi lo lasciò ricadere tintinnando al suo posto. «Il mio portafortuna!»

Poco dopo arrivarono Bram e Joseph. Senza Albert la seduta fu scialba. Fenstad si sforzava di fare affiorare il loro dolore, ma loro non erano pronti, così in mancanza di meglio si limitava a controllare che prendessero regolarmente i loro farmaci. «Avrei potuto esserci io al suo posto» borbottò Sheila, poi si strinse la catena intorno alla vita come l'abbraccio di un autistico. «Ho visto come mi guardava. Avrebbe picchiato anche me.»

«È molto malato» rispose Fenstad.

Bram li interruppe. Socialmente era il meglio inserito del gruppo, e negli ultimi due anni era riuscito a tenersi il lavoro di correttore di bozze per il
Sentinel.
«Era mio amico.»

«Sentirò la sua mancanza» commentò Fenstad, e non appena l'ebbe detto, capì che era vero. Avrebbe sentito la mancanza di Albert Sanguine, con le sue gengive sdentate e i suoi tic tourettici. C'era qualcosa in lui, malgrado questa brutta faccenda, che gli era sempre parsa genuinamente buona. Addirittura perbene.

Dopo la terapia di gruppo, l'agenda di Fenstad era vuota. Il resto dei suoi appuntamenti, tutti e sei, erano stati annullati a causa della potente influenza che si era abbattuta sulla città. Decise di fare visita ad Albert. Una volta raggiunta la sua stanza, il piede gli sbatté contro la piantana della flebo sul pavimento e la base di metallo girò come una trottola. La canula pendeva lungo l'asta, e l'ago era a terra. Fenstad intravide una goccia di sangue secco sulle lenzuola candide. A parte quello, di Albert non c'era traccia.

Fenstad si affacciò alla finestra aperta. La cartella clinica appesa al letto era stata aggiornata appena un'ora prima. Era impossibile che Sanguine fosse riuscito a compiere quel balzo. Dalla finestra al parcheggio c'era un volo di almeno tre metri. L'ultima volta che l'aveva visto, Albert non aveva la forza di reggersi in piedi.

Fenstad informò il medico di guardia. Un'ora dopo la sicurezza dell'ospedale aveva controllato ogni ripostiglio, ogni stanza vuota, ogni barella nell'edificio, ma di Albert non c'era traccia. Fenstad stava setacciando l'ambulatorio di psichiatria quando gli venne in mente una cosa: Meg. Se contro ogni previsione Albert fosse riuscito a scappare, lei poteva essere in pericolo. Le telefonò immediatamente dalla postazione di Cyril Patrikakos.

«Come stai?» domandò quando lei rispose al ricevitore.

Lei gemette come stesse soffrendo. «Non si è presentato nessuno per la lettura della fiaba. Molly dice che è tutta colpa mia: ho ucciso la biblioteca.» Poi abbassò la voce, e con perfetto buon umore bisbigliò: «Quella vecchia strega rinsecchita!».

«Devo dirti una cosa» riprese lui.

«Oh-oh. Cos'altro è successo?»

«Albert Sanguine è scomparso. L'ultima volta che l'ho visto aveva un piede nella fossa, ma c'è la possibilità che sia scappato. Volevo avvertirti perché potrebbe tornare in biblioteca; lì si è sempre sentito al sicuro.»

Meg non disse nulla, così lui colmò il silenzio. «Martedì sera stava troppo male per sollevare la testa dal cuscino. Il mio parere è che si sia trascinato da qualche parte per cercare da bere, e sia morto là.»

Meg non rispose. Lui si sforzò di trovare qualche altra parola di conforto, ma la mente gli si era svuotata.

«Fenstad?» domandò lei infine.

«Sì?»

«Voglio tornare a casa.» Le si era incrinata voce. Bisbigliava per non farsi sentire da Molly. La sorprese che fosse bastato così poco per farla passare dall'allegria alla disperazione. E poi capì. Era ancora sotto shock. Due giorni prima un amico l'aveva massacrata di botte, e per difendersi lei gli aveva lacerato il fegato. Ci voleva tempo per guarire da un trauma del genere. Non avrebbe mai dovuto andare al lavoro quel giorno.

«Mi sembra una buona idea» le disse.

«Non voglio restare sola.»

Per un brevissimo istante, lui perse la ragione. Non stava parlando di Nero, oppure sì?

«Allora starai con me?» domandò.

Lui chiuse gli occhi e si strinse la base del naso tra l'indice e il pollice. Com'era possibile che continuasse a fraintenderla in quel modo? Che ci fosse davvero qualcosa di storto in lui? «Certo. I miei pazienti hanno annullato tutti gli appuntamenti. Vengo subito.»

 

Trovò Meg accomodata sul divanetto nella stanza del televisore col gambone ingessato sollevato sul bracciolo. Guardava
All My
Children
,
segno che non era in forma. Non la sorprendeva a guardare una soap-opera dai tempi della depressione dopo la nascita di Maddie. Per due mesi si era rifiutata di pettinarsi e aveva minacciato di lasciarlo. E poi, con la stessa rapidità con la quale si era mutata in un'estranea, era tornata in sé e aveva ripreso a occuparsi della casa.

La stanza era buia, e le tende chiuse. Non era da lei prendere le cose tanto male e lui ne fu disorientato. «Non verrà. E se dovesse farlo, ci sono qua io a proteggerti» disse.

Lei rimase a lungo senza rispondere. Sullo schermo, Susan Lucci stava rivelando a suo marito di essere in realtà la sorellastra che credeva morta, e che quindi avrebbero dovuto divorziare ma potevano ancora scambiarsi gli auguri di Natale. «Non è solo quello, Fenstad. È successa una cosa.»

In un lampo gli venne in mente un'immagine della stanza 69 al Motel 6. Era al pianterreno, e le coperte sudate erano marrone e grigio. «Cosa?» domandò.

«Voglio far finta di averlo immaginato» disse lei.

Lui le sollevò le gamba fratturata, e sedendosi se la appoggiò in grembo. Infilò le dita sotto il gesso e diede una grattatina. «Ti ascolto» disse. Era un loro scherzo: lo strizzacervelli di famiglia, sempre pronto a darti retta. Nei primi anni non faceva però tanto ridere, quando lui lavorava troppo e tornava sempre troppo tardi per cenare in casa o per dare una mano, persino per seguire l'educazione dei figli. Ma lei sorrise di nuovo, come se le incomprensioni tra loro fossero state un fiume ormai prosciugato.

«Ti ricordi che mio padre non venne al nostro matrimonio?»

Fenstad annuì. Suo padre era stato il vicepresidente arrogante e panciuto di una fabbrica di calzature da uomo a Filadelfia. Non aveva mai accettato Fenstad, e per questo era morto senza conoscere i propri nipoti. Gli altri suoi figli non erano mai usciti di casa. Campavano con lavori precari, come commesso di drogheria e venditrice Mary Kay a domicilio. Nessuno di loro si era sposato. Frank Bonelli non tollerava rivali, così aveva soffocato nei figli ogni istinto di indipendenza o ambizione. Meg era la maggiore, e la sua prediletta, e questo spiegava perché fosse stata l'unica forte a sufficienza da andarsene.

«Sì, tuo padre me lo ricordo bene» disse Fenstad.

«Nei hai parlato con Albert in terapia di gruppo?»

Lui scosse la testa energicamente. «Niente informazioni personali. Lo sai bene.»

Lei scrollò le spalle come se non gli credesse fino in fondo.

Lui ribadì: «Non ne ho mai fatto parola, Meg».

Lei corrugò la fronte. «Allora devo essere impazzita... Sai cosa mi ha detto? Mi ha costretta a sedergli sulle gambe... Questa parte non te l'ho raccontata, perché sapevo che ti saresti arrabbiato, ma mi ha tenuta lì a forza. Ho temuto che stesse per... Be', non c'è bisogno che te lo dica, lo indovini anche da solo che cosa ho temuto.»

La mano di Fenstad smise di grattare.
Subdolo figlio di puttana.
Mentalmente premeva un cuscino sulla faccia di Albert. «Vai avanti» disse.

Meg proseguì. «Mi teneva stretta. E poi mi ha detto la stessa cosa che mi disse mio padre la mattina del nostro matrimonio: 'Dov'è che ho sbagliato?'. E la cosa peggiore... non ci crederai, Fenstad, ma aveva la
stessa voce
di mio padre. Identica alla sua.»

Si fosse trattato di qualunque altra donna, Fenstad non le avrebbe creduto. Avrebbe pensato che fosse isterica, o fosse ancora sotto shock, o persino preda di un'allucinazione. Ma Meg non era incline a fantasticherie di quel genere. Se non avesse saputo con certezza che una cosa del genere era impossibile, le avrebbe creduto per il semplice fatto che si trattava di Meg. «La stessa voce di tuo padre?»

Lei aveva gli occhi colmi di lacrime, e lui la strinse a sé. Quel meschino di suo padre. Le cose tornarono a fuoco, e lui capì la crisi che lei aveva attraversato negli ultimi tempi. Suo padre era morto da dieci anni, ma per Meg il ricordo era ancora vivo. Frank Bonelli le bisbigliava ancora all'orecchio che niente di quello che faceva e nessuno di quelli che amava erano all'altezza. Questo spiegava la sua rabbia, e il modo in cui di tanto in tanto lei guardava Fenstad e Maddie come fossero due estranei. In un certo senso, spiegava persino Graham Nero.

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