Virus (7 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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La guardò strisciare fuori dal portico. Lo fece con un unico movimento fluido. Allungò le gambe facendole sgusciare fuori, e il suo corpo le seguì. Poi sbatté il giornale fradicio contro i gradini di legno. Tre colpi rapidi, secchi, dai quali sprizzarono gocce di rugiada in piccoli archi. Si sentì un uomo più piccolo mentre osservava lei, sua moglie.

Fenstad aveva un fisico asciutto, nervoso, e una statura media. Con l'eccezione dei profondi occhi verdi, era un uomo dall'aspetto perfettamente ordinario. Ma era un ascoltatore attento, e non distoglieva mai lo sguardo. Per questo motivo il ricordo del suo volto restava impresso alle persone, anche se lo avevano incontrato una sola volta. Ricordavano, per esempio, le rughe del sorriso che gli solcavano i lati delle guance e le mani grandi che lo facevano apparire più forte di quanto la sua statura lasciasse presagire.

Era un uomo tranquillo. Meg, al contrario, era irrequieta. Anche quand'era felice, tamburellava le dita sulle superfici di legno, sul volante dell'auto, sulle cosce. La calmavano le cose più impreviste. Le barrette di Snicker gelato, per esempio, o le giornate di pioggia, perché non si sentiva tanto in colpa per non essere uscita. In questo momento, però, sembrava rilassata. Aveva i capelli spettinati e increspati sulle spalle, come piacevano a lui. Guardava verso la strada, sognando a occhi aperti. Era molto sciolta, come se la rugiada del mattino fosse stata un solvente per la colla che ultimamente le aveva bloccato tutte le giunture. Sembrava accessibile. Persino sexy.

Lo fece trasalire il suono forte e improvviso di una sveglia, seguito in rapida successione da un lamento, dallo sbattere di una mano, dal silenzio. La sveglia di Maddie. Quand'era piccola era sempre lui a svegliarla. «Il mattino ha l'oro in bocca» le diceva, e poi spalancava le persiane finché il sole non le inondava il letto. Adesso in camera sua entrava solo Meg perché Maddie dormiva nuda. Ogni mattina passava almeno mezz'ora chiusa in bagno, a spruzzarsi profumi e truccarsi gli occhi di ombretto azzurro. Aveva anche il ragazzo. Enrique Vargas veniva a cena da loro una volta la settimana, e Fenstad doveva sorridere e fare conversazione con il ragazzino che con ogni probabilità si portava a letto sua figlia.

Fenstad scosse la testa. E poi c'era David. Com'era riuscito a tirare su due figli che si tingevano i capelli come pagliacci da circo?

Giù in giardino, Meg lanciò qualcosa per terra che rotolò lungo il sentiero simile a una manciata di biglie. Lui pensò di raggiungerla sui gradini. Poteva sorprenderla con un bacio sulla nuca. Ma no, Meg era sempre irascibile la mattina. Meglio tenere le distanze.

Ricordò in quel momento di avere avuto un incubo. Nel sogno la casa era enorme e cavernosa. Dozzine di stanze che conducevano ad altre stanze, e convergevano tutte, come un labirinto, sull'anticamera. Nessuna regola della geometria euclidea era stata rispettata: i pavimenti erano inclinati, gli angoli superavano i novanta gradi, e i soffitti erano alti e talvolta curvi. Alla porta d'ingresso stava di guardia un grosso cane ringhioso. Somigliava al pastore tedesco del vicino, ma aveva gli occhi di una bestia selvatica. Li aveva visti chiaramente: iridi verdi che si dilatavano a ondate indipendentemente dalla luce. Aveva capito subito che la povera bestia era rabbiosa o impazzita. Un cartello sulla porta diceva SCORIE PERICOLOSE, e sulla strada uomini in tuta bianca caricavano i suoi vicini su berline nere. Il pericolo era fuori, ma anche dentro. Era stato a quel punto che Meg e sua figlia erano entrate parlando nella stanza. Fenstad aveva urlato loro di fermarsi, ma era un fantasma nella sua stessa casa, e le donne non potevano sentirlo.

Il cane si era scagliato prima contro Meg. Doveva pesare più di ottanta chili, e le sue fauci spalancate ricordavano una tagliola dai denti d'acciaio. Prima che lei riuscisse a scappare, le aveva affondato le zanne nel polpaccio. Era caduta, e il sangue si era allargato in una pozza sul tappeto persiano. Al ricordo Fenstad rabbrividì di nuovo. Rabbrividì all'idea che la sua mente avesse potuto partorire una cosa del genere. Maddie si era messa a tirare, e il cane faceva resistenza dalla parte opposta, come due bestie che si contendono un osso.

Del seguito non ricordava niente. Ma adesso non era più sorpreso di essersi sentito tanto male al risveglio. Il sogno gli era rimasto come sospeso nella mente. Si sentiva in colpa per averlo sognato, e provava ancora paura per lei.

In quel momento si spalancò la porta, e Meg si precipitò in camera come se avesse qualcuno alle calcagna. Gli venne subito in mente il cane. Aveva gli occhi arrossati come se avesse pianto, e i piedi nudi.

Lui aggrottò la fronte. «Che succede?»

Lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Fenstad la condusse verso il letto, dove si misero a sedere.

«Cosa c'è?»

Lei si strinse nelle spalle. Aveva gli occhi cerchiati di scuro. La cintura della vestaglia si era slacciata, e lui le intravedeva i seni piccoli e dritti. Era uscita di casa senza mutande né pigiama, e lui si domandò in un guizzo di rabbia se i vicini le avessero spiato il pube rasato.

«Graham Nero? Ti ha infastidita di nuovo?» domandò Fenstad.

Lei tirò su col naso e scosse la testa. «Un uccello» disse.

Voleva un uccello? Un uccello l'aveva aggredita in giardino? Forse i primi sintomi di un tumore cerebrale? Attese che aggiungesse qualcosa, ma lei non disse altro. Invece gli si chinò sui fianchi e sollevò l'asciugamano umido. Avrebbe dovuto intuirlo, ma il gesto fu così imprevisto che anche dopo avere avvertito la sua lingua, le sue labbra, gli ci volle un momento per esserne certo.

Chiuse gli occhi e gemette. Erano anni che non lo faceva. Aveva dimenticato quanto gli piacesse. Decise che se l'avesse guardata o le avesse accarezzato la nuca, avrebbe guastato il momento. L'avrebbe fatta sentire esposta. Così sorrise, e pensò quant'era meraviglioso che dopo tutti questi anni lei fosse ancora capace di sorprenderlo. Una donna che odiava il mattino. In tutta la loro vita coniugale poteva contare sulle dita delle mani quante volte avevano fatto l'amore prima di colazione.

Lei profumava di sudore e sale, essenze che dopo la doccia avrebbe seppellito sotto due spruzzate di White Linen. La vestaglia era aperta. Non gli credeva mai quando le diceva quanto gli piacesse in calzoncini e maglietta. Quante cose non capiva di lui. La amava perché si sentiva a suo agio nella propria pelle, perché gli permetteva di guardare quando si masturbava, cosa che aveva imparato a fare solo dopo la nascita di Maddie. Perché aveva portato i suoi figli nel ventre.

Lei cominciò a muoversi più in fretta, e una bolla di piacere lo strinse alla gola. Avrebbe voluto gridare ma non lo fece. Si sforzò di chiudere le labbra, di restare in silenzio, di guardarla. Lei andava sempre più veloce. Quando lui raggiunse la propria soglia, la spinse supina sul letto. Fecero l'amore. Lui non resistette quanto avrebbe voluto. Era al limite. Ci furono scintille, e poi il sollievo. La stanza di Maddie era dall'altra parte del corridoio, e nessuno dei due emise suono.

Poi, rimasero sdraiati l'uno accanto all'altra.

«Niente male» disse lui, intendendo
fantastico.
Lei aveva il respiro affannoso. Lo sforzo aveva reso visibile la vena verde scuro che le attraversava la fronte. Lui pensò al cane del sogno, e la strinse con un braccio come per proteggerla. Questa sera l'avrebbe invitata fuori a cena.

Lei si asciugò la bocca e gli si appoggiò sul petto. Era una donna minuta, ma le ossa dei suoi gomiti gli pungevano le costole. «Fuori è morto un uccellino. Mi è morto tra le mani.»

Attese che lei proseguisse. Di cosa stava parlando? Lui non aveva visto nessun uccello.

«C'è un cespuglio di belladonna sotto casa. Ho raccolto delle bacche che ho poi gettato sul sentiero. Un uccello le ha mangiate, poi mi è morto tra le mani.»

La sua voce normalmente imperturbabile si incrinò. Pensò stesse cercando di dirgli qualcosa. Forse riguardo Graham Nero? Era un modo elaborato di spiegargli ciò che aveva fatto? Gli uccelli non muoiono per avere mangiato delle bacche.

«Non hai niente da dire?» domandò lei. Il tono secco lo sorprese.

Sbatté le palpebre, e cercò di pensare. «Un uccello piuttosto stupido, si direbbe.»

La rabbia le fece stringere gli occhi in due fessure. Forse avrebbe dovuto dirle «Grazie», o «Magnifico pompino, tesoro! Per me sei la migliore»? Questa faccenda era ridicola. Era sua moglie. Che bisogno c'era di dire la cosa giusta?

«Che freddo, Fenstad» disse lei, e dapprima lui pensò parlasse della temperatura, poi, dall'espressione del suo volto, capì, e si sentì sprofondare. L'aveva delusa. «Avresti dovuto nascere trota» disse lei. Poi si alzò e si diresse in bagno. «Da pesce saresti stato più felice. Lo saremmo stati entrambi.»

Sentì scorrere l'acqua, e per un po' non si alzò. Le lenzuola erano bagnate, e tutto d'un tratto provò vergogna, come un cane che avesse pisciato sul letto. In corridoio, Maddie camminava con passo pesante sul pavimento di legno. Magra come sua madre, ma rumorosa e sgraziata come un bue. «Non mi avete svegliata!» strillò all'aria. «Perché non è venuto nessuno a svegliarmi?» Poi se ne andò, e scese in cucina dove avrebbe aspirato il succo da uno spicchio di pompelmo e buttato via la polpa, dichiarandosi sazia. Poi lei e Meg avrebbero litigato finché lui non fosse andato al lavoro, e nessuna delle due si sarebbe accorta della sua scomparsa.

«Non lo sai che esistono persone là fuori con problemi veri?» avrebbe voluto urlarle. «Non capisci quanto siamo stati fortunati?» Ma la psiche umana è come il sistema immunitario. Quando non ha nemici da combattere, se li inventa.

Fenstad aspettò che Meg uscisse dalla doccia. La porta si aprì lasciando uscire una nube di vapore. Aveva la pelle rosso acceso, come se avesse tentato di bruciarsi via dal corpo il ricordo di lui. Evitò la sua mano passandogli davanti, come se sfiorarlo la disgustasse.

Lui entrò in bagno e chiuse la porta. Una densa cortina del profumo di lei lo fece starnutire. Chiuse gli occhi e ripensò a quando l'aveva vista in giardino. Era così incerta. Sembrava non sapere se sarebbe andata al lavoro quel giorno, o come fosse capitata a Corpus Christi, o se sarebbe mai rientrata in casa. Una pausa, come se la sua persona fosse una maschera che indossava ogni mattina, ma che aveva lasciato in casa e per un istante era stata libera. Pensò a quello, e poi pensò al pastore tedesco nero del suo sogno, e al suono gratificante che avevano prodotto i suoi denti quando le avevano frantumato le ossa.

 

4.

La guerra civile

 

Nello stesso istante in cui Lois Larkin scopriva di avere inavvertitamente abbandonato il suo allievo meno prediletto alla desolazione dei boschi di Bedford, Meg Wintrob sfogliava le pagine del numero doppio di settembre del
Publishers Weekly.
Con il pennarello faceva un cerchio rosso intorno ai libri per ragazzi che aveva intenzione di acquistare. Finora aveva scelto
Scrivener Bees
di J.T. Petty, e
2L84U
di Stefan Petrucha e Thomas Pendleton.

La biblioteca di Corpus Christi era stata costruita negli anni Settanta, quindi non era altro che un'orrenda colata di cemento. Il suo ufficio era un cubo di plexiglass al centro del piano principale. Una porta dava sulla sezione dei libri di consultazione, l'altra sulla biblioteca dei bambini. Godeva della stessa privacy di un pesce rosso.

Il panino al formaggio e pomodoro che si era portata per pranzo attendeva sulla scrivania, ma non aveva alcuna voglia di mangiarlo. Il Grande Fiasco della Cincia le aveva inacidito lo stomaco. Adesso la faccenda riguardava più Fenstad che l'uccello. Ci sono cose che non si possono mettere in discussione, e la prestazione di un uomo a letto è una di queste. Era stata una crudeltà.
Lei
era stata crudele. Era questo il problema: quando si trattava di Fenstad, a volte non riusciva proprio a trattenersi. Era talmente freddo che si era stancata di abbracciarlo e aveva cominciato a dargli pizzicotti, solo per assicurarsi che sentisse ancora qualcosa.

«Aheem. Aheem!» Il tic di Albert Sanguine era un sussurro a volume-biblioteca. Albert sedeva alla postazione internet di fronte alla scrivania di Meg. Lei osservò il tremito della sua testa, che si fece immobile quando si concentrò sullo schermo. Aveva una tenuta bizzarra, persino per Albert. Mocassini stringati, dolcevita nero e pantaloni mimetici con le tasche piene di giornali che avevano tutta l'aria di essere cataloghi d'abbigliamento L.L.Bean scartati da qualcuno.

Meg prese il sandwich. Le era venuta la brillante idea di dare un tocco da chef e ci aveva aggiunto una vinaigrette balsamica, che aveva inzuppato il pane. Con ogni probabilità, in quel preciso momento Fenstad e Maddie stavano imprecando contro di lei.

«Aaaheem! Aaaheem!» Di nuovo il tic di Albert. Non era sicura se si stesse schiarendo la voce o si trattasse di una convulsione, ma il volume si era alzato, così lei batté la penna contro la parete di plexiglass. Lui non alzò lo sguardo. Le rispose con un gesto della mano tremante mentre gli occhi restavano fissi sullo schermo.

Gli anni passati a bere gli avevano fatto marcire il sistema nervoso, e adesso soffriva di una sindrome di Tourette indotta dall'alcol. Dopo i tagli nei finanziamenti statali, la clinica psichiatrica di Bangor aveva buttato fuori tutti i pazienti non violenti, a prescindere dalla gravità del loro stato. Quattro di loro erano originari di Corpus Christi, e quand'erano tornati a casa Fenstad aveva organizzato per loro un ambulatorio psichiatrico all'ospedale. Quando non erano alle sue riunioni di terapia di gruppo, finivano nell'unico altro posto pubblico che li accogliesse: la biblioteca. Qualcuno abitava nel quartiere popolare vicino al Motel 6, l'unica parte di Corpus Christi che non fosse integralmente altoborghese. Campavano grazie ai sussidi di invalidità e all'elemosina. In biblioteca passavano il tempo a leggere, a navigare su internet, e a dormire sulle poltrone da lettura in pelle donate dalla famiglia Walker. La gente se ne lamentava, ma secondo Meg la biblioteca era un bene pubblico. Fintanto che non infastidivano nessuno, anche loro avevano diritto di starci.

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