Paradiso (74 page)

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Authors: Dante

BOOK: Paradiso
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a poco a poco al mio veder si stinse:

               
per che tornar con li occhi a Bëatrice

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nulla vedere e amor mi costrinse.

               
Se quanto infino a qui di lei si dice   

               
fosse conchiuso tutto in una loda,   

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poca sarebbe a fornir questa vice.   

               
La bellezza ch’io vidi si trasmoda   

               
non pur di là da noi, ma certo io credo

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che solo il suo fattor tutta la goda.

               
Da questo passo vinto mi concedo   

               
più che già mai da punto di suo tema

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soprato fosse comico o tragedo:

               
ché, come sole in viso che più trema,   

               
così lo rimembrar del dolce riso

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la mente mia da me medesmo scema.   

               
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso   

   

               
in questa vita, infino a questa vista,

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non m’è il seguire al mio cantar preciso;   

               
ma or convien che mio seguir desista   

               
più dietro a sua bellezza, poetando,

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come a l’ultimo suo ciascuno artista.   

               
Cotal qual io la lascio a maggior bando   

               
che quel de la mia tuba, che deduce

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l’ardüa sua matera terminando,

               
con atto e voce di spedito duce

               
ricominciò: “Noi siamo usciti fore   

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del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:   

               
luce intellettüal, piena d’amore;

               
amor di vero ben, pien di letizia;

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letizia che trascende ogne dolzore.

               
Qui vederai l’una e l’altra milizia   

               
di paradiso, e l’una in quelli aspetti   

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che tu vedrai a l’ultima giustizia.”

               
Come sùbito lampo che discetti   

               
li spiriti visivi, sì che priva

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da l’atto l’occhio di più forti obietti,

               
così mi circunfulse luce viva,   

               
e lasciommi fasciato di tal velo

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del suo fulgor, che nulla m’appariva.

               
“Sempre l’amor che queta questo cielo   

               
accoglie in sé con sì fatta salute,   

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per far disposto a sua fiamma il candelo.”

               
Non fur più tosto dentro a me venute   

               
queste parole brievi, ch’io compresi

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me sormontar di sopr’ a mia virtute;

               
e di novella vista mi raccesi

               
tale, che nulla luce è tanto mera,

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che li occhi miei non si fosser difesi;

               
e vidi lume in forma di rivera   

   

               
fulvido di fulgore, intra due rive   

   

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dipinte di mirabil primavera.

               
Di tal fiumana uscian faville vive,   

               
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,

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quasi rubin che oro circunscrive;   

               
poi, come inebrïate da li odori,   

               
riprofondavan sé nel miro gurge,   

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e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

               
“L’alto disio che mo t’infiamma e urge,   

               
d’aver notizia di ciò che tu vei,

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tanto mi piace più quanto più turge;

               
ma di quest’ acqua convien che tu bei

               
prima che tanta sete in te si sazi”:

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così mi disse il sol de li occhi miei.

               
Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi   

               
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe   

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son di lor vero umbriferi prefazi.   

               
Non che da sé sian queste cose acerbe;

               
ma è difetto da la parte tua,

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che non hai viste ancor tanto superbe.”

               
Non è fantin che sì sùbito rua   

               
col volto verso il latte, se si svegli

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molto tardato da l’usanza sua

               
come fec’ io, per far migliori spegli   

               
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda

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che si deriva perché vi s’immegli;

               
e sì come di lei bevve la gronda

               
de le palpebre mie, così mi parve

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di sua lunghezza divenuta tonda.   

               
Poi, come gente stata sotto larve,   

               
che pare altro che prima, se si sveste

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la sembianza non süa in che disparve,

               
così mi si cambiaro in maggior feste

               
li fiori e le faville, sì ch’io vidi   

   

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ambo le corti del ciel manifeste.

               
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi   

               
l’alto trïunfo del regno verace,

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dammi virtù a dir com’ïo il vidi!

               
Lume è là sù che visibile face   

   

               
lo creatore a quella creatura

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che solo in lui vedere ha la sua pace.

               
E’ si distende in circular figura,   

               
in tanto che la sua circunferenza

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sarebbe al sol troppo larga cintura.

               
Fassi di raggio tutta sua parvenza

               
reflesso al sommo del mobile primo,

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che prende quindi vivere e potenza.

               
E come clivo in acqua di suo imo   

               
si specchia, quasi per vedersi addorno,

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quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,

               
sì, soprastando al lume intorno intorno,

               
vidi specchiarsi in più di mille soglie

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quanto di noi là sù fatto ha ritorno.

               
E se l’infimo grado in sé raccoglie   

               
sì grande lume, quanta è la larghezza

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di questa rosa ne l’estreme foglie!   

               
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza   

               
non si smarriva, ma tutto prendeva

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il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

               
Presso e lontano, lì, né pon né leva:

               
ché dove Dio sanza mezzo governa,

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la legge natural nulla rileva.

               
Nel giallo de la rosa sempiterna,   

   

               
che si digrada e dilata e redole   

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odor di lode al sol che sempre verna,   

               
qual è colui che tace e dicer vole,

               
mi trasse Bëatrice, e disse: “Mira

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quanto è ’l convento de le bianche stole!   

               
Vedi nostra città quant’ ella gira;   

   

               
vedi li nostri scanni sì ripieni,

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che poca gente più ci si disira.

               
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni   

               
per la corona che già v’è sù posta,   

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prima che tu a queste nozze ceni,   

               
sederà l’alma, che fia giù agosta,   

               
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia   

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verrà in prima ch’ella sia disposta.   

               
La cieca cupidigia che v’ammalia   

   

               
simili fatti v’ha al fantolino

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che muor per fame e caccia via la balia.

               
E fia prefetto nel foro divino   

   

               
allora tal, che palese e coverto

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non anderà con lui per un cammino.

               
Ma poco poi sarà da Dio sofferto   

               
nel santo officio: ch’el sarà detruso

               
là dove Simon mago è per suo merto,   

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e farà quel d’Alagna intrar più giuso.”   

PARADISO XXXI

               
In forma dunque di candida rosa   

   

               
mi si mostrava la milizia santa   

3
             
che nel suo sangue Cristo fece sposa;

               
ma l’altra, che volando vede e canta   

               
la gloria di colui che la ’nnamora   

6
             
e la bontà che la fece cotanta,

               
sì come schiera d’ape che s’infiora   

   

               
una fïata e una si ritorna

9
             
là dove suo laboro s’insapora,   

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