Moll Flanders (Collins Classics) (42 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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La mia povera governante era terribilmente disperata, e se, fino a quel momento, m’aveva fatto coraggio, adesso aveva bisogno di chi facesse coraggio a lei; e, ora in lacrime e ora in smanie, era proprio fuori di sé, o almeno pareva, come una pazza del manicomio di Bedlam. E non era soltanto disperata per me, era anche piena di orrore all’idea della sua esistenza corrotta, incominciava a pensare al passato con un atteggiamento completamente diverso dal mio, era diventata penitente al massimo per i peccati suoi, oltre che dolente per la cattiva sorte mia. Chiamò anche un prete, un brav’uomo serio e pio, e col suo aiuto si dedicò con tale zelo all’opera di pentirsi sinceramente, che, secondo me, e anche secondo il prete, davvero si mise in penitenza; e, quel ch’è più, non lo fece soltanto per l’occasione, in quella circostanza, ma tale si conservò, come seppi, fino al giorno in cui morì.

È più facile immaginare che descrivere in quale situazione adesso mi trovavo. Davanti a me non c’era che la morte imminente; e poiché non avevo amici che mi assistessero, né che si dessero da fare per me, non avevo altro da aspettarmi che di trovare il mio nome sull’ordine di morte, che doveva arrivare il venerdì seguente per l’esecuzione mia e di altri cinque.

Nel frattempo, la mia povera e sconvolta governante chiamò per me un prete, il quale, su richiesta prima sua e poi anche mia, venne a visitarmi. Costui mi esortò solennemente a pentirmi di tutti i miei peccati, e a non scherzare più con la mia anima; a non illudermi con la speranza di aver salva la vita, che era una cosa, disse, da non pensarci nemmeno, bensì a rivolgermi senza riserve e con tutta l’anima a Dio e ad impetrare il perdono nel nome di Gesù. Documentò il suo discorso con acconce citazioni della Scrittura, incitando la grande peccatrice a pentirsi e ad abbandonare la strada del male, e poi si inginocchiò a pregare con me.

Fu allora che, per la prima volta, provai un senso vero di pentimento. Incominciavo adesso a considerare la mia vita passata con ripugnanza, e poiché era come se potessi già gettare uno sguardo sull’altra sponda dell’esistenza, le cose della vita, come credo che a chiunque accada in quel momento, incominciarono ad apparirmi sotto diversa luce, e in modo affatto differente da prima. Le cose più grandi e più belle, le prospettive di felicità e di gioia, i dolori della vita, erano ormai altrove; e non avevo in mente altro se non ciò che era tanto al di sopra di tutto quel che in vita avevo conosciuto, al punto che la più grossa stupidaggine di natura mi appariva il dar comunque peso ad una cosa, fosse pur stata cosa del massimo valore in questo mondo.

La parola eternità mi si presentava con tutte le sue incomprensibili implicazioni, e io ne avevo una consapevolezza così vasta che non saprei come riferirla. Fra l’altro, come appariva vile, grossolana, assurda, ogni cosa piacevole! — voglio dire ogni cosa che un tempo avevamo ritenuto piacevole — specialmente se riflettevo che proprio in cambio di così sciagurate miserie ci giocavamo la felicità eterna.

Vennero con tali pensieri, naturalmente, anche i rimorsi dell’animo mio per la sciagurata condotta della mia vita trascorsa; m’ero giocata ogni speranza di felicità per l’eternità dove stavo per entrare, e, al contrario, m’ero guadagnata il massimo della sventura, la sventura assoluta per se stessa; e con l’implicazione spaventosa, per di più, che si trattava di questo per l’eternità.

Io non sono in grado di dare lezioni di moralità a nessuno, ma riferisco di ciò meglio che so, così come fu per me, pur senza saper rendere nemmeno lontanamente l’idea dell’effetto che ebbe in quel momento sull’animo mio; in verità, si tratta di un effetto che non vi sono parole adatte a dire, o, se vi sono, io non sono tanto padrona delle parole da saperlo esprimere. Sarà compito del bravo lettore fare quelle riflessioni che la sua situazione gli suggerisce; ed è senza dubbio una cosa che prima o poi può capitare a chiunque: veder molto bene, voglio dire, quel che sarà, meglio di quel che è stato, e veder molto male il modo in cui finora ce ne siamo occupati.

Ma torniamo al caso mio. Il prete volle che gli dicessi, nella misura in cui lo giudicavo opportuno, qual era la mia posizione di fronte alla prospettiva delle cose al di là di questa vita. Mi disse che non veniva da me come il cappellano di quel luogo, il cui mestiere è strappar confessioni ai carcerati, per scopi personali o per far scoprire altri delinquenti; mestiere suo era invece condurmi ad una libertà di espressione tale che mi servisse a sgravarmi la coscienza, e consentisse a lui di darmi ogni conforto in suo potere; e mi assicurò che, qualunque cosa avrei detto, se la sarebbe tenuta per sé, sarebbe rimasta segreta come se l’avessimo saputa soltanto Dio e io stessa; non ci teneva a saper niente di me, ma, come ho già detto, lo chiedeva solo per essere in grado di darmi consiglio e assistenza per il meglio, e pregare Dio per me.

Quel modo onesto e amichevole di trattarmi fu la chiave che aprì tutte le chiuse dei miei sentimenti. Con ciò lui mi toccò il cuore; e io dipanai per lui tutta la corruzione della mia vita. In poche parole, gli feci un riassunto di tutta questa storia; gli dipinsi, in piccolo, un quadretto di cinquant’anni della mia vita.

Non gli nascosi nulla, e lui, a sua volta, mi esortò al pentimento sincero, spiegando che cosa intendeva per pentimento, e poi mi fece un tal quadro della infinita misericordia destinata dal Cielo ai peccatori della massima misura, da non lasciarmi modo di pronunciare più una sola parola di disperazione o di dubbio sulla possibilità di essere accolta anch’io; e in quello stato mi lasciò la prima sera.

Venne a trovarmi di nuovo la mattina dopo, e continuò col suo metodo spiegandomi le condizioni necessarie per ottenere la misericordia divina, che secondo lui consistevano soltanto e semplicemente nel desiderarla con assoluta sincerità e nell’essere disposti ad accettarla; nel rimorso sincero e nel disprezzo delle azioni da me compiute, che erano tali da fare di me il giusto bersaglio della vendetta divina. Io non sono capace di riferire tutto quel che diceva quell’uomo straordinario; quel che posso dire è che mi fece risvegliare il cuore, e mi mise in una condizione nella quale mai sapevo essermi trovata prima. Ero piena di vergogna e di lacrime per quel che era stato, eppure provavo al tempo stesso una gioia segreta e meravigliosa all’idea di essere una penitente vera, e di avere le consolazioni che toccano a chi fa penitenza — voglio dire, la speranza di ottenere il perdono; e così veloci mi giravano i pensieri per il capo, e così intensa era l’emozione che mi procuravano, che mi pareva di poter andare tranquillamente, da un attimo all’altro, al supplizio, senza provarne angoscia per nulla, ma interamente affidando l’anima mia di penitente nelle braccia della misericordia infinita.

Quel bravo signore si commosse tanto quando vide quale influsso quei pensieri avevano su di me, che ringraziò Dio di averlo mandato a farmi visita; e decise di non lasciarmi più fino all’ultimo momento, cioè decise di continuare a venirmi a far visita.

Dalla sentenza non passavano meno di dodici giorni prima che venissimo mandati al patibolo, e così, un mercoledì, l’ordine di morte; come si dice, arrivò, e io vidi che fra i nomi c’era il mio. Fu quello un colpo terribile per le mie recenti risoluzioni; mi mancò il cuore in petto, e svenni due volte, una dopo l’altra, senza dire una parola. Il bravo prete era molto addolorato per me, fece quel che poté per consolarmi con gli stessi ragionamenti e con la stessa commovente eloquenza della quale aveva già fatto uso in precedenza, e quella sera non mi lasciò prima che fosse giunta l’ora fino alla quale i carcerieri gli permettevano di stare con me, a meno che gli andasse di passare dentro con me la notte, cosa che lui però non volle.

Mi meravigliai molto di non vederlo per tutto il giorno seguente, perché era proprio la vigilia del giorno fissato per l’esecuzione; e ne fui grandemente scoraggiata e avvilita nell’animo, quasi mi sentii mancare al bisogno del conforto che mi aveva dato così spesso, e con tanta efficacia, nelle sue visite precedenti. Aspettai con grande impazienza e con animo angosciato, come si può immaginare, finché, verso le quattro, lui venne al mio appartamento; avevo infatti ottenuto il permesso, naturalmente pagando, perché senza soldi in quel posto non c’era niente da fare, di non rimanere nell’antro dei condannati a morte, con gli altri carcerati che dovevano morire, ma di avere tutta per me una cella piccola e sporca.

Il cuore mi balzò in petto per la gioia quando, prima ancora di vederlo, sentii alla porta la sua voce; ma si pensi che emozione provò l’animo mio quando lui, dopo essersi brevemente scusato per non essere venuto prima, mi dimostrò che quel tempo l’aveva usato a mio vantaggio; aveva ottenuto un rapporto favorevole sul caso mio dall’ufficio del segretario di Stato, e, insomma, mi portava una proroga.

Usò ogni precauzione di cui era capace nel comunicarmi una notizia che sarebbe stata una doppia crudeltà tenermi celata; e tuttavia per me fu troppo; come mi aveva prima sconvolta il dolore, adesso mi sconvolse la gioia, e io fui colta da uno svenimento molto più grave di quelli di prima, e non ci volle poco perché riuscissi a riprendermi.

Il brav’uomo, dopo avermi rivolto un’esortazione assai cristiana, affinché la gioia per la proroga non mi facesse uscire di mente il ricordo del dolore passato, e dopo avermi detto che doveva lasciarmi, per andare a far registrare sui libri la proroga, e farla notificare agli sceriffi, si fermò in piedi, prima di andarsene, e solennemente pregò Dio per me, che il mio pentimento fosse indubbio e sincero; e che il mio, per così dire, ritorno alla vita non fosse anche un ritorno a quelle follie delle quali io m’ero tanto solennemente risolta a far atto di ripulsa e contrizione. Io mi associai di tutto cuore a quella richiesta, e non fa bisogno dire che per tutta la notte restai nel fondo dell’animo mio profondamente impressionata dalla misericordia di Dio che mi salvava la vita, e provai, grazie alla bontà nella quale m’ero imbattuta, disgusto per i miei trascorsi peccati, più di quanto avessi provato mai nel momento del dolore.

Questo può sembrare poco convincente, e fuori tema per questo libro; in particolare, mi rendo conto che a molti di coloro che, magari, si sono compiaciuti e divertiti al racconto della parte cattiva e sciagurata della storia, potrà non piacere questa parte, che in realtà è la parte migliore della mia vita, la più utile per me, la più istruttiva per gli altri. Vorranno tuttavia consentirmi, spero, di raccontar completa la mia storia. Si potrebbe altrimenti far della satira aspra nei loro confronti, dire che il pentimento li diverte meno del delitto, e dire che avrebbero preferito che la storia fosse una tragedia assoluta, come del resto mancò poco che fosse.

Ma proseguo col mio racconto. La mattina dopo, vi fu nella prigione una scena davvero molto triste. Il primo saluto che ebbi al mattino furono i rintocchi a morto della grande campana del Santo Sepolcro, come la chiamano, che annunciava il giorno. Appena quella incominciò a suonare a morto, orribili pianti e lamenti si udirono giungere dall’antro dei condannati a morte, dove si trovavano sei disgraziati che quel giorno dovevano andare alla forca, chi per un delitto, chi per un altro, e due per omicidio.

A quello fece seguito un clamore confuso nell’edificio, fra carcerati d’ogni tipo, che esprimevano il loro intenso dolore per quelle povere creature mandate a morte, ma in maniera molto diversa l’uno dall’altro. Chi piangeva per loro; chi strillava e augurava loro il buon viaggio; chi imprecava e malediceva quelli che li avevano portati a ciò, vale a dire i testimoni e gli accusatori; molti li commiseravano; e pochi altri, ma proprio pochi, pregavano per loro.

Non rimaneva quasi margine per quel raccoglimento dello spirito che mi era necessario per benedire la misericordiosa Provvidenza che mi aveva, per così dire, strappata dalle fauci della rovina. Rimasi attonita e in silenzio, sopraffatta dalla situazione, incapace di esprimere quel che provavo; infatti, in tali casi, i moti dell’animo sono così convulsi, e cosiffatti, da non trovare un corso regolare.

In tutto quel tempo, le povere creature condannate si preparavano a morire, e il cosiddetto cappellano si dava da fare con loro, per ottenere che si rassegnassero alla condanna; e intanto io fui colta da un attacco di brividi, come se fossi io a trovarmi al posto loro, dove del resto fino al giorno prima ero stata sicura di trovarmi; fui sconvolta così violentemente da quell’attacco improvviso, che tremai come colta da un accesso di febbre, e non riuscivo a parlare, ero come ammattita. Appena quelli furono saliti tutti sui carri e andati, cosa che tuttavia io non ebbi coraggio bastante per guardare; appena, ripeto, se ne furono andati via, io fui presa da un accesso incontrollabile di pianto, senza motivo, ma così violento, e così prolungato che non sapevo più che fare, né come smettere, né come finirla, per quanti sforzi e per quanta buona volontà ci mettessi.

Quella crisi di pianto mi durò quasi due ore, e mi tenne occupata, credo, finché quelli ebbero tutti lasciato questo mondo, e allora seguì una gioia di natura umile, penitente, intensa; era un vero trasporto, un impeto di gioia e di gratitudine, e tuttavia sempre impossibile da tradurre in parole, e in quello stato rimasi per quasi tutta la giornata.

A sera, il buon prete venne di nuovo a trovarmi, e si rimise a farmi i suoi soliti bei discorsi. Si congratulò con me perché m’era ancora stato concesso tempo di pentirmi, mentre la storia di quei sei disgraziati era chiusa, e ormai erano al di là di ogni possibilità di salvezza; insistette vivamente perché io conservassi verso le cose della vita gli stessi sentimenti che avevo provato quando mi ero vista davanti l’eternità; e, in conclusione, mi disse che non dovevo pensare che tutto fosse finito, una proroga non era la grazia, e lui non poteva ancora dire quali sarebbero stati gli sviluppi; però, una grazia l’avevo avuta, e cioè avevo guadagnato tempo, ed era compito mio far di quel tempo buon uso.

Quel discorso, benché così appropriato, mi lasciò in cuore una grande tristezza, perché mi pareva che ancora la vicenda fosse indirizzata ad un finale tragico, anche se lui non lo dava per certo; e per quella volta, in verità, io non gli domandai nulla in proposito, perché lui aveva detto che avrebbe fatto il possibile per condurre la cosa a buon fine, e che sperava di riuscirci, ma mi avvisò di non sentirmi troppo sicura; e il seguito dimostrò che aveva ragione.

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