Moll Flanders (Collins Classics) (37 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Bene, quello ammise tutto, e si mostrò veramente umilissimo; fece ottime proposte; salì a cento sterline e al pagamento di tutte le spese legali, e aggiunse che mi avrebbe fatto dono di un bellissimo corredo di vestiti. Io scesi a trecento sterline, e domandai di pubblicare un annuncio del fatto sui fogli pubblici d’informazione.

Questa clausola non volle assolutamente accettarla. Alla fine, comunque, arrivò, grazie alle abili manovre del mio avvocato, a centocinquanta sterline più un corredo di vestiti di seta nera; a quel punto a me andava bene e, come se fosse il mio avvocato a chiedermelo, accondiscesi; lui pagava l’onorario del mio avvocato e tutte le spese, e ci offrì una bella cena ad affare fatto.

Quando andai a prendere i soldi, condussi con me la mia governante, vestita come una vecchia duchessa, e un gentiluomo molto elegante, che fingevamo mi facesse la corte, ma io lo chiamavo cugino, e l’avvocato aveva il compito di accennare in privato col merciaio che quel gentiluomo faceva la corte alla vedova.

Il merciaio ci trattò tutti veramente bene e consegnò il denaro abbastanza allegramente; gli venne a costare in tutto duecento sterline, o poco più. Nel nostro ultimo incontro, quando si era già raggiunto l’accordo su tutto, saltò fuori il caso del commesso, e il merciaio supplicò per lui con molto fervore; mi disse che era un uomo che un tempo aveva avuto una bottega sua, aveva fatto ottimi affari, aveva moglie e molti figli, era poverissimo; non possedeva nulla da offrire come risarcimento, ma sarebbe venuto a chiedermi perdono in ginocchio, se io volevo, e davanti a tutti se così mi faceva piacere. Io non avevo nessuna voglia di rivedere quel cialtrone insolente, né il suo atto di sottomissione significava niente per me, visto che da lui non c’era niente da prendere, e così pensai che tanto valeva buttarla in generosità; dissi perciò che non desideravo la rovina di nessuno e perciò, in seguito alla sua preghiera, avrei perdonato allo sciagurato; ero troppo al di sopra di ogni desiderio di vendetta.

Quando fummo a cena, il merciaio fece entrare il poveretto a chiedere scusa, cosa che egli era pronto a fare con umiltà tanto abbietta quanto erano state ingiuriose al momento dell’offesa la sua arroganza e la sua superbia, e in questo era un esempio perfetto di assoluta bassezza d’animo, spietato, crudele e implacabile se stava in alto e in buona fortuna, miserabile e pusillanime se stava giù nella disgrazia. Comunque io abbreviai le sue striscianti riverenze, dissi che gli perdonavo, e volli che si ritirasse, come se, pur avendogli perdonato, non riuscissi a tollerarne la vista.

Adesso ero davvero in ottima situazione, se fossi stata capace d’accorgermi che era il momento di smettere, e la mia governante mi diceva spesso che ero la più ricca del mestiere in Inghilterra; e credo che fosse proprio vero, perché avevo da parte settecento sterline in contanti, oltre a vestiti, anelli, un po’ d’argenteria, e due orologi d’oro, tutta roba rubata, perché avevo fatto innumerevoli altri colpi oltre quelli che ho detto. Oh, avessi avuto almeno allora la grazia di pentirmi, ancora mi restava tutto il modo di volgermi indietro a considerare le mie follie, e a compiere qualche atto riparatorio; ma il momento del debito che dovevo pagare per tutti i pubblici misfatti che avevo commesso non era ancora giunto; e non riuscivo a proibirmi di andare in giro a battere le strade, come ormai dicevo, più di quanto vi fossi riuscita al tempo in cui realmente la mia condizione mi costringeva a farlo per il pane.

Non era passato gran tempo dalla sistemazione della storia col merciaio, che io mi misi a sfoggiare in giro un travestimento diverso da tutti quelli usati fino allora. Mi vestii da mendicante, con gli stracci più lerci e miserandi che riuscii a trovare, e andai in giro a battere, cacciando il naso in tutte le porte e in tutte le finestre che mi capitavano; in verità m’ero ridotta in uno stato che mi metteva a disagio più di qualunque altro nel quale mi fossi fino a quel momento trovata. Per natura, odiavo sporcizia e stracci; ero stata cresciuta nell’ordine e nella pulizia, e non mi riusciva d’essere diversa in qualunque condizione mi trovassi; quello fu, perciò, il travestimento più spiacevole fra quanti mai ne usai. Mi dissi subito che non poteva funzionare, perché era un vestito che causava in tutti imbarazzo e timore; e mi pareva che mi guardassero tutti come se avessero paura che io mi avvicinassi, che gli portassi via qualcosa, o paura di venirmi loro vicino per non pigliarsi qualcosa da me. La prima volta che uscii, girai tutta la sera, e non ne cavai niente, ma rincasai bagnata, infangata e stanca. Uscii comunque di nuovo, la sera dopo, ed ebbi una piccola avventura, che sarebbe potuta costarmi cara. Mentre ero ferma davanti alla porta di una taverna arriva un gentiluomo a cavallo, bussa alla porta, e siccome voleva entrare nella taverna, chiama uno degli inservienti a tenergli il cavallo. Nella taverna quello si fermò un bel po’, e il servitore sentì il padrone che lo chiamava, e temette che potesse arrabbiarsi con lui. Vedendomi lì ferma, mi chiamò. “Senti, donna,” dice, “tieni un momento questo cavallo, che io vado dentro; se viene il signore, ti darà qualcosa.” “Sì,” dico io, e prendo il cavallo, e via me ne vado tutta placida, e lo porto dalla mia governante.

Quello sarebbe stato un bel colpo per chi se ne intendeva; ma mai una povera ladra si trovò più inguaiata per non saper che fare di quel che aveva rubato; infatti, quando arrivai a casa, la mia governante fu affatto sbalordita, e che fare di quell’animale non sapevamo né lei né io. Affidarlo a una stalla non si poteva, perché di sicuro sarebbe stato pubblicato un annuncio sulla Gazzetta, con la descrizione del cavallo, e perciò non ci saremmo potute arrischiare più ad andarlo a riprendere.

Tutto quel che sapemmo trovare, per rimediare alla infelice impresa, fu di andare a mettere il cavallo davanti a una locanda, e mandare per mezzo di un facchino un biglietto alla taverna, dicendo che il cavallo di quel signore che s’era perso a quella certa ora era stato lasciato alla tale locanda, dove lo si poteva trovare; la poveretta che l’aveva in consegna, dopo averlo fatto girare per le strade, non era stata più capace di riportarlo indietro e lo aveva lasciato lì. Avremmo potuto anche aspettare che il proprietario mettesse un avviso offrendo una ricompensa, però non ci sentivamo di arrischiarci ad andare a ritirare la ricompensa.

Quello fu perciò un furto per modo di dire, perché poco fu quel che venne perduto e niente quello che ci si cavò, e io ero già stanca di andare in giro vestita da mendicante; non rendeva niente, e per di più era indecoroso e spaventevole.

Quando portavo quel travestimento, capitai in mezzo a una banda di gente della razza peggiore con la quale mi fossi mai messa insieme, e imparai alcuni dei loro trucchi. Erano fabbricanti di moneta, e mi fecero delle proposte ottime, quanto al guadagno; ma la parte che mi volevano assegnare era la più pericolosa. Voglio dire, proprio quella di far funzionare lo stampo, come lo chiamano, il che, se mi pigliavano, era la morte certa, impalata: voglio dire bruciata viva legata al palo; sicché, anche se avevo l’aspetto di una mendicante, e quelli mi promettevano montagne d’oro e d’argento per farmi accettare, la cosa non andava. La verità è che, fossi stata davvero una mendicante, o fossi stata disperata come ai miei inizi, magari ci sarei stata; perché infatti, che gliene importa di morire a chi non sa come fare a vivere? Ma, al presente, non era quella la mia situazione, o almeno io non mi sentivo di correre rischi tremendi come quelli; per di più, il solo pensiero di finire bruciata sul palo mi riempiva l’animo di terrore, mi faceva gelare il sangue, mi faceva venire la smania a tal punto, che non potevo nemmeno pensarci senza tremare.

Questo mise fine anche al mio travestimento, perché, siccome la proposta non m’era piaciuta, io a quelli non lo dissi, ma feci finta di accettare, e promisi di rivederli. Ma non ebbi più il coraggio di incontrarli; infatti, se li rivedevo, e non ci stavo, anche se rifiutavo con le più grandi assicurazioni di segretezza al mondo, quelli ci mettevano poco ad assassinarmi, per lavorare tranquilli e per andar via sicuri, come dicono. Che sicurezza sia poi quella, lo si giudica riflettendo quanto può sentirsi sicura gente che ammazza per prevenire un rischio.

Questo, e rubar cavalli, non erano cose che andassero bene per me, e non m’era difficile stabilire che era meglio non me ne occupassi più; il mio mestiere era un altro, e anche se c’erano abbastanza rischi, tuttavia era più adatto a me, e soprattutto c’erano più abilità, più modi di cavarsela, più occasioni di squagliarsela se capitava una sorpresa.

Ebbi in quel periodo diverse altre proposte, fra le quali quella di entrare in una banda di scassinatori; ma anche quella era una cosa nella quale non volevo arrischiarmi, non più che nel ramo dei monetari. Io mi offersi di andare con due uomini e una donna, che facevano il loro mestiere entrando nelle case per mezzo di stratagemmi, e con quelli sarei stata abbastanza disposta a rischiare. Ma erano già in tre, e a loro non piaceva troppo dividere, e io non ne volevo troppi nella stessa banda, sicché con quelli non conclusi, e dissi di no; e loro il primo tentativo che fecero lo pagarono caro.

Ma alla fine conobbi una donna che spesso m’aveva raccontato imprese da lei compiute, e con successo, sulla riva del fiume; mi misi con lei, e lavoravamo niente male. Un giorno capitammo su certi olandesi a St. Catherine, dove eravamo andate con la scusa di comprare roba sbarcata di contrabbando. Io entrai due o tre volte in una casa dove vedemmo una gran quantità di merci proibite, la mia collega una volta portò via tre pezze di seta nera d’Olanda che resero bene, e io ebbi la mia parte; ma in tutti i viaggi che feci io non riuscii a trovare l’occasione di combinare niente, e così lasciai perdere, perché c’ero stata tanto spesso che quelli incominciavano a sospettare qualcosa, ed erano così guardinghi che io capii che non c’era niente da fare.

Questo mi indispose piuttosto, e decisi di buttarmi in una cosa o in un’altra, perché non ero abituata a venirmene via tanto spesso senza guadagnarci nulla; così, il giorno dopo, mi vestii molto bene e feci una passeggiata fino all’altro capo della città. Passai davanti al Mercato nello Strand, ma non avevo la minima idea di che cosa cercavo, quando all’improvviso vidi una gran confusione in quel luogo, e tutta la gente, i bottegai e gli altri, fermi a guardare; e non poteva trattarsi d’altro che di una gran duchessa che veniva al Mercato, dicevano addirittura che stava arrivando la regina. Io mi misi vicina all’ingresso di un negozio volgendo le spalle al banco, come per lasciar passare la folla, mentre tenevo d’occhio un mucchio di merletti che la bottegaia stava mostrando a certe signore accanto a me; la bottegaia e la sua commessa eran così occupate a guardare quel che capitava, nella speranza di chissà quali affari, che io trovai il modo di farmi sparire in tasca una carta di merletti, e con quella squagliarmela; così la signora bottegaia pagò caro abbastanza il suo gusto di vedere la regina.

Uscii dalla bottega come spinta dalla calca e, mescolandomi alla folla, mi diressi verso l’altra porta del Mercato, e così me ne andai prima che si accorgessero della sparizione del merletto; e siccome non volevo essere seguita, chiamai una carrozza e mi chiusi dentro. Avevo appena chiuso gli sportelli della carrozza che vidi la commessa della bottegaia e altre cinque o sei persone arrivare di corsa per la via strillando come spaventate a morte. Non gridavano “Fermate il ladro!” perché non c’era nessuno che scappava, ma io sentii le parole “rubato” e “merletto” due o tre volte, e vidi la ragazza che si torceva le mani, e correva guardando da tutte le parti, spaventatissima. Il cocchiere che mi aveva preso su stava salendo a cassetta ma non era ancora arrivato al suo posto, e perciò i cavalli non avevano ancora cominciato a muoversi; sicché io ero tremendamente a disagio e presi l’involto del merletto e mi preparavo a lasciarlo cadere dallo sportello della carrozza che si apre davanti, proprio dietro il cocchiere; ma con mia grande soddisfazione in meno di un minuto la carrozza prese a muoversi, cioè appena il cocchiere fu montato ed ebbe dato la voce ai cavalli; così mi portò via senza più fermarsi, e io mi portai via il mio bottino che valeva circa venti sterline.

Il giorno dopo mi vestii di nuovo bene, ma con abiti completamente diversi, e mi incamminai dalle stesse parti; però non trovai niente, finché non giunsi nel St. James’s Park, dove vidi nel parco un gran numero di belle signore che passeggiavano nel viale, e fra le altre c’era una signorinetta, ragazzina di dodici o tredici anni, in compagnia di una bambina, credo la sorellina, che avrà avuto nove anni. Osservai che la più grande aveva un bell’orologio d’oro e una bella collana di perle, e, che c’era con loro un paggio in livrea; ma siccome non c’è l’abitudine che i paggi seguano le signore nei viali, notai che il paggio si fermava al loro ingresso nel viale, e che la maggiore delle due sorelle gli diceva qualcosa, sentii che gli dava l’ordine di aspettarle lì finché tornavano.

Quando le ebbi sentite licenziare il paggio, mi avvicinai a lui, gli domandai chi era la piccola signora, e scambiai con lui quattro chiacchiere, dicendo quant’era graziosa la piccolina e quanto la signorina, cioè la maggiore, era distinta e ben portante, che aria da donnina seria, aveva; e quell’imbecille subito mi disse chi era; era la figlia maggiore di Sir Thomas… di Essex, ed era ricchissima; la madre non era ancora arrivata in città, ma lei stava dalla moglie di Sir William…, di Suffolk, nella abitazione della Suffolk Street, e un monte d’altre cose; avevano al loro servizio una cameriera e una donna, oltre la carrozza di Sir Thomas, e cioè il cocchiere e lui stesso; era la giovinetta che comandava a tutta la famiglia, qui come a casa; e, a farla breve, mi disse una quantità di cose che mi servivano per il mio lavoro.

Io ero vestita molto bene, e portavo un orologio d’oro; lasciai perciò il paggio e mi andai a mettere al fianco della giovinetta, dopo avere aspettato che lei avesse fatto un’andata e un ritorno lungo il viale, e si fosse di nuovo avviata in là; ogni tanto la salutavo, chiamandola per nome col titolo di Lady Betty. Le domandai quando aveva avuto notizie del babbo, quando la sua signora madre sarebbe arrivata in città, e come stava lei.

Le parlai con tanta familiarità di tutta la sua famiglia che lei dovette per forza pensare che io fossi una loro conoscente intima. Le domandai come mai era in giro senza avere con sé la signora Chime (era questo il nome della sua donna) che si occupasse della signorina Judith, che era sua sorella. Poi mi misi a farle una lunga chiacchierata su sua sorella, che bella signorinetta che era, e le domandai se aveva studiato il francese, e mille altre cosette per intrattenerla, quando all’improvviso vedemmo arrivare le guardie, e la folla corse per vedere il re che passava, diretto al Parlamento.

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