Non tralasciai nulla di quel che andava detto da una persona riconoscente, per chiarirgli che tenevo in giusta considerazione la sua cortesia. In verità, dopo quella volta, io mi mostrai con lui meno riservata di quanto ero stata prima, anche se tutti e due restammo entro i più rigorosi confini della virtù. Ma benché la nostra conversazione si facesse sempre più libera io tuttavia non giunsi a prendermi la libertà che lui desiderava, chiedergli cioè denaro, anche se segretamente ero molto lieta della sua proposta.
Passarono alcune settimane, e io ancora non gli avevo chiesto denaro, quando la mia padrona di casa, furba creatura, che spesso m’aveva spinto a farlo ma aveva capito che io non ci riuscivo, tira fuori una storia di sua invenzione ed entra all’improvviso in camera mia mentre io ero con lui. “O vedova,” dice, “ho cattive notizie da darti stamani.”
“Che c’è?” dico io. “Le navi dalla Virginia le han prese i francesi?” Questo infatti era quel che temevo.
“No, no,” dice lei, “ma è tornato l’uomo che hai mandato ieri a Bristol a prender denaro, e dice che non ne ha portato.”
Ora a me quel suo piano non poteva affatto piacere. Trovai che aveva molto l’aria di forzare lui, cosa che lui in verità non voleva, e io capivo bene che non avevo nulla da perdere se conservavo la mia ritrosia a chiedere, così tagliai corto. “Non capisco perché ti abbia detto una cosa simile,” dissi, “perché ti assicuro che mi ha portato tutto il denaro che l’avevo mandato a prendere, ed eccolo qui,” dissi, tirando fuori una borsa dove c’erano una dozzina di ghinee, e aggiunsi: “S’intende che la gran parte di questo verrà subito a te.”
Lui apparve dapprima un po’ seccato quando lei incominciò a parlare a quel modo, proprio come io m’ero immaginata che sarebbe avvenuto, perché lei s’era spinta troppo avanti; ma, quando mi sentì dare quella risposta, si tranquillizzò subito. La mattina dopo ne parlammo ancora, e lo trovai assolutamente soddisfatto. Sorridendo, mi disse che si augurava che io non avessi bisogno di denaro senza dirglielo, perché era diversa la promessa che gli avevo fatto. Io gli dissi che m’era molto dispiaciuto che la padrona di casa avesse parlato apertamente a quel modo, il giorno prima, di cose che non la riguardavano; ma ne avevo dedotto che voleva quel che le dovevo io, circa otto ghinee, che subito avevo deciso di darle, e gliele avevo anzi date la sera stessa del giorno in cui lei aveva parlato in quel modo così sciocco.
Lui divenne di ottimo umore quando sentì che io l’avevo pagata, e per il momento si cambiò discorso. Ma la mattina seguente, quando sentì che nella mia stanza m’ero levata prima di lui, mi chiamò dalla sua, e quando io risposi mi domandò d’andare in camera sua. Era a letto quando entrai, mi fece avvicinare e sedere sulla sponda del letto, perché disse che aveva da dirmi una cosa di una certa importanza. Dopo alcune frasi gentili, mi chiese se ero disposta a essere franca con lui e a dargli una risposta sincera per l’unica cosa che voleva da me. Dopo avere un po’ cavillato intorno alla parola “sincero”, e avergli chiesto quando mai gli avevo dato una risposta non sincera, gli promisi che l’avrei fatto. La sua richiesta, dunque, disse allora lui, era che gli lasciassi vedere la mia borsa. Io misi subito la mano in tasca e ridendo la tirai fuori, e c’erano dentro tre ghinee e mezzo. Allora lui mi domandò se era quello tutto il denaro che avevo. Io gli dissi di no, sempre ridendo, proprio no.
Bene, allora, disse lui, voleva che io gli promettessi di andare a prendere tutto il denaro che avevo, fino all’ultimo soldo. Io dissi di sì, andai in camera mia e presi una cassettina personale dove avevo altre sei ghinee, e un po’ d’argento, gettai tutto sul suo letto e gli dissi che era quella tutta la mia ricchezza, sul serio, fino all’ultimo scellino. Lui guardò quel denaro ma non lo contò, poi lo rimise tutto nella cassettina e, ficcata la mano in tasca, tirò fuori una chiave e mi disse di aprire uno scrigno di noce che aveva sul tavolo, e prendere una certa cassetta, cosa che io feci. In quella cassetta c’era una gran quantità di monete d’oro, giudicai un paio di centinaia, ma non ne ero certa. Lui prese la cassetta e, tenendomi la mano, me la fece ficcar lì dentro e prendere una manciata. Io mi opponevo, ma lui mi tenne con fermezza la mano nella sua e la guidò nella cassetta, e mi fece prendere tutte le ghinee che riuscivo ad afferrare in una volta sola.
Fatto questo, me le fece posare in grembo, prese la mia cassettina e versò tutto quel suo denaro insieme al mio, e mi disse di andare a mettere al sicuro il tutto in camera mia.
Racconto questa storia in modo molto particolareggiato per il suo lato allegro e per dar l’idea dell’indole dei nostri rapporti. Non molto tempo dopo, lui incominciò a trovare da ridire ogni giorno sui miei vestiti, sui miei merletti, sulle mie cuffie, e, in poche parole, mi incoraggiava a comprare cose migliori; cosa che, fra l’altro, io ero ben disposta a fare, anche se non pareva, perché non c’era niente al mondo che mi piacesse più dei bei vestiti. Io gli dissi che dovevo far la brava massaia col denaro che lui mi aveva prestato, altrimenti non sarei stata in grado di restituirglielo. Lui allora mi disse, in poche parole, che siccome nutriva per me un rispetto sincero e conosceva la mia situazione, quel denaro non me lo aveva prestato, me lo aveva dato, e pensava che io me lo ero ben meritato facendogli così completamente compagnia. Dopo di ciò, mi fece prendere una cameriera e tener casa, e, poiché l’amico venuto a Bath con lui se n’era andato, volle che gli preparassi io i pasti, cosa che io feci ben volentieri, convinta, come infatti fu, che non ci rimettevo nulla, e che anche la padrona di casa non avrebbe mancato di trovarci il suo tornaconto.
Vivevamo così da circa tre mesi, quando, cominciando a diradarsi la compagnia a Bath, lui parlò di andar via, e disse che gli sarebbe piaciuto che io partissi per Londra con lui. Io non fui troppo entusiasta della proposta, non sapendo colà in che situazione mi sarei trovata a vivere né come mi avrebbe trattata lui. Ma mentre di ciò si discuteva, lui s’ammalò gravemente; era andato in una località del Somersetshire, chiamata Shepton, dove aveva degli interessi, e cadde malato seriamente, tanto da non potersi rimettere in viaggio. Così mandò a Bath il servitore a dirmi di noleggiare una carrozza e andare da lui. Prima di partire aveva lasciato a me tutto il suo denaro e ogni oggetto di valore, e io non sapevo che dovevo farne, ma misi tutto al sicuro meglio che potei, chiusi la casa e andai da lui, che trovai davvero molto malato; lo convinsi, comunque, a farsi portare in lettiga a Bath, dov’era possibile avere migliori cure e assistenza.
Lui acconsentì, e io lo riportai a Bath, che distava, mi ricordo, quindici miglia. Qui lui continuò ad avere la febbre e rimase in letto cinque settimane, per il qual tempo intero io gli feci da infermiera e lo assistetti, con la stessa cura che se fossi stata sua moglie; lo fossi stata, non avrei davvero potuto far di più. Me ne stavo a sedere accanto a lui così a lungo e così spesso che alla fine lui non volle più vedermi lì seduta, e io mi feci mettere allora una brandina nella sua stanza e la sistemai ai piedi del suo letto.
Ero realmente molto addolorata del suo stato e preoccupata di perdere un buon amico quale lui era e poteva rimanere per me, e passavo con lui molte ore in lacrime. Alla fine però stette meglio, fece sperare che si sarebbe rimesso, e realmente si rimise, sia pure con grande lentezza.
Fossero le cose andate in modo diverso da quel che sto per dire, non avrei nessuna riluttanza a confessarlo, come è evidente che ho già fatto in altri passi di questo racconto; ma posso ben affermare che, a parte la libertà d’entrare in camera quando lui o io eravamo a letto, e a parte le cure necessarie per assisterlo giorno e notte durante la malattia, non v’erano mai stati fra noi la minima parola né il minimo atto impudichi. Oh, fosse stato fino all’ultimo così!
Dopo qualche tempo lui recuperò le forze e si sentì molto meglio, e io avrei voluto togliere la mia brandina, ma lui non me lo permise finché non fu in grado di fare a meno di avere accanto qualcuno, e solo allora io potei trasferirmi nella mia stanza.
In diverse occasioni lui mostrò di apprezzare l’affetto e le attenzioni che avevo per lui; e quando fu completamente guarito mi fece un regalo di cinquanta ghinee per la mia assistenza e per il fatto, disse, che io avevo rischiato la mia vita per salvare la sua.
Mi faceva ora dichiarazioni di affetto sincero e incrollabile per me, ma tutto dimostrava che erano ancora assolutamente salvi il mio onore e il suo. Io gli dissi che ne ero veramente contenta. Lui arrivò al punto di dichiarare che, si fosse trovato nudo a letto con me, avrebbe rispettato nel modo più sacro il mio onore, come se fossi stata assalita da un bruto, l’avrebbe difeso. Io gli credetti, e gli dissi che gli credevo, ma lui non si accontentò, e disse che avrebbe atteso l’occasione adatta per provarmelo in modo indubbio.
Fu molto tempo dopo che io ebbi motivo, per gli affari miei, di andare a Bristol, al che lui mi prese a noleggio una carrozza, si offrì di venire con me e così fece. Quella volta la nostra intimità aumentò. Da Bristol lui mi condusse a Gloucester, che fu soltanto un viaggio di piacere, per cambiar aria; e lì ci capitò l’avventura di non trovare alla locanda altro alloggio che una grande camera a due letti. Il padrone, salendo a mostrarci le stanze, ed entrato in quella, si rivolse a lui con grande franchezza: “Signore,” disse, “non è affar mio indagare se questa signora è vostra moglie oppure no, ma, se non lo è, potrete decentemente coricarvi in questi due letti come se foste in due camere separate.”
E con questo tira una grande tenda che passava proprio in mezzo alla stanza e separava completamente i letti.
“Va bene,” dice prontamente il mio amico, “vada per questi due letti, e quanto al resto, noi due siamo parenti troppo stretti per coricarci insieme, anche se possiamo dormir molto vicini.”
E quello dette un aspetto decente alla cosa. Quando venne il momento di andare a letto, lui uscì educatamente dalla stanza finché io non fui a letto, poi a sua volta andò a letto nella sua parte di camera, ma restò per un pezzo a parlare con me, dal suo letto.
Alla fine, ripetendo quel che diceva sempre, che cioè avrebbe potuto coricarsi nudo in letto con me e tuttavia non farmi il minimo torto, salta fuori dal letto. “E adesso, mia cara,” dice, “vedrai che ho detto la verità, e che so mantenere la mia parola,” e via che entra nel mio letto.
Io resistetti un poco, ma devo confessare che non avrei resistito troppo se lui non mi avesse fatto quella promessa; così, dopo una piccola lotta, come dicevo, me ne stetti quieta e lo lasciai venire in letto. Entrato, lui mi prese fra le braccia, e così giacqui con lui tutta la notte, ma lui non mi fece né mi dette altro che tenermi stretta, ripeto, fra le braccia, per tutta la notte, e al mattino si alzò e si vestì, lasciandomi per parte sua innocente come il giorno che ero nata.
Fu quella una cosa sorprendente per me, e forse lo sarà anche per altri che sanno come funzionano le leggi di natura; lui era infatti un uomo forte, vigoroso, vispo; né si comportava a quel modo per un principio religioso, ma solo per una questione d’affetto; e insisteva su quel punto, che benché io fossi la donna che gli piaceva di più al mondo, siccome mi amava non poteva farmi torto.
Ammetto che era un nobile principio, ma poiché una cosa simile non l’avevo mai saputa fino a quel momento, fu per me una gran meraviglia. Compimmo come prima il resto del nostro viaggio e ritornammo a Bath, dove, poiché lui aveva modo di venir da me quando voleva, replicò più volte quell’astinenza, e molto spesso io giacqui con lui e lui con me, e, benché avessimo acquisito tutta l’intimità di un marito e di una moglie, lui non arrivò mai fino in fondo, perché quello era un punto di estrema importanza per lui. Non posso dire che a me la cosa facesse tutto il piacere che lui credeva, perché devo ammettere che ero più perversa di lui, come presto sentirete.
Vivemmo così per quasi due anni, con l’unica eccezione che lui in quel periodo andò tre volte a Londra, e una volta vi rimase per quattro mesi, ma va detto a suo onore che mi fornì sempre di denaro e mi mantenne in modo magnifico.
Fossimo restati così, confesso che avremmo avuto di che vantarci; ma, come dicono i savi, è sempre un male arrischiarsi fin sull’orlo del fattaccio, e ce ne accorgemmo; e qui ancora una volta devo render giustizia a lui ammettendo che non venne da parte sua la prima mossa scorretta. Fu una notte che eravamo insieme a letto, al caldo e in allegria, e credo che quella sera avessimo bevuto tutti e due un po’ di vino più del solito, anche se non tanto da farci perdere la testa, fu quella notte che io, dopo alcune altre follie che non posso dire, trovandomi stretta forte tra le sue braccia gli dissi (lo riferisco con tutta la vergogna e tutto l’orrore di cui è capace l’animo mio) gli dissi che sentivo in cuor mio di poterlo liberare dal suo impegno per una notte, e poi più.
Lui mi prese subito in parola, dopo di che non ebbi più modo di resistergli; né, per la verità, di resistere io avevo la minima voglia, andasse come doveva andare.
Così si infranse la nostra regola di virtù, e io mutai il mio ruolo d’amica nella qualifica non melodiosa e dura a dirsi di puttana. La mattina dopo eravamo tutti e due in preda al pentimento; io piangevo a più non posso, lui si diceva molto addolorato. Ma era tutto lì quel che ormai ci restava da fare, e, cadute così le barriere dell’onore e della coscienza, non trovammo da allora in poi altri ostacoli contro i quali combattere.
Fu una ben triste conversazione quella che avemmo per tutto il resto di quella settimana. Io arrossivo quando lo guardavo, e ad ogni istante rifacevo la stessa osservazione sconsolata. “Che succederà se adesso avrò un figlio? Che sarà allora di me?” Lui mi consolò dicendomi che, finché gli avrei voluto bene io, altrettanto me ne avrebbe voluto lui; e aggiungeva che, poiché ci eravamo ormai spinti a quel punto (dove, per la verità, lui non aveva mai inteso arrivare), se io avessi avuto un figlio, lui si sarebbe preso cura di lui e di me. Questo ci calmò entrambi. Io gli assicurai che, se restavo incinta, ero pronta a rischiare la vita per fare a meno della levatrice, piuttosto che fare il suo nome come padre del bambino; lui mi assicurò che non mi sarei mai trovata, se restavo incinta, in una simile necessità. Così calmati e consolati dalle nostre reciproche assicurazioni, ripetemmo quella colpa quante volte ci fece piacere, finché alla fine, come io avevo temuto, la cosa accadde, e io rimasi proprio incinta.