Virus (37 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Per la prima volta da quando era cominciato tutto, Fenstad provò un'emozione adeguata alle circostanze. Era terrorizzato. La pioggerella si intensificò, e il cielo grigio si rovesciò. Non gli era mai piaciuto il termine «male». Era una parola da ignoranti. Aveva avuto in cura un numero sufficiente di schizofrenici da saperlo. Ma in quel momento, cambiò idea. Il male esisteva, ed era lì, a Corpus Christi.

Tornò in macchina e spense la radio.
Meglio filarsela, Fennie. Lo senti anche tu?
Chiuse gli occhi. Il battito del cuore aveva rallentato: troppe pastiglie. Per riattivare la circolazione strinse le mani fino a farsi male.
Fennie? È un nodulo?
Si guardò i piedi, per assicurarsi che non poggiassero su una moquette insanguinata. Ricordò a se stesso che il cane non poteva più abbaiare: il cane era morto. Pensò a Meg, che per tre volte quella settimana gli aveva detto che lo amava. Pensò ai capelli viola di sua figlia, e alle faccine sorridenti che gli lasciava disegnate sull'agenda (Maddie Bonelli Wintrob Vargas, ragazza prodigio!). Erano tutto il suo mondo. Era il momento di fare un bilancio. Era il momento di riprendere il controllo. La sua famiglia aveva bisogno di lui.

Contò fino a tre, poi fino a dieci, poi fino a cinquanta. Fece la cosa che gli riusciva meglio. Prese le distanze dal problema, come studiandolo su un vetrino al microscopio, e cercò una soluzione.

Il virus determinava nell'ospite uno stato ostile, schizofrenico. Forse leggeva il pensiero, forse produceva solo allucinazioni sgradevoli che rendevano l'ospite vulnerabile. Comunque fosse, lui era uno strizzacervelli: se c'era qualcuno in grado di affrontare gli stati di alterazione psicologica, quel qualcuno era lui. Forse dosi massicce di litio potevano placare gli infetti? Si chiese se qualcuno al Centro Epidemiologico ci avesse provato. Poi scosse la testa. No, quel virus trasformava le persone in mostri, e una volta che se n'era impossessato, non c'era farmaco che tenesse.

Però doveva esistere un modo di proteggere il cervello dall'infezione, di metabolizzare il virus dopo il contagio. Non sono in molti a saperlo, ma il Dna umano si compone principalmente di virus. Ogni essere umano ha antenati sopravvissuti a un'infezione, dal vaiolo all'influenza, dai quali ha ereditato il codice per quegli stessi virus, trascritto nel suo corredo genetico. Se questo era un virus antico, forse qualcuno era geneticamente immune, e nel suo Dna si poteva trovare un vaccino. Meglio ancora: e se gli infetti avevano un'avversione istintiva a cose come il fuoco, l'odore del metano, o il cloro nell'acqua, che potessero impedirgli di attaccare?

Le donne nel seminterrato dell'ospedale avevano detto che l'infezione era partita da Bedford. Ancora poche settimane prima c'era gente che abitava nelle roulotte lungo il fiume, e questo significava che il virus si era attivato solo di recente, altrimenti li avrebbe spazzati via già da tempo. Se là c'era ancora qualcuno, forse loro avevano la risposta.

Annuì tra sé e sé. Ok. Bene. Ok. Poi si tastò la tasca, e si passò la lingua sulle gengive. Ingoiò un'altra pastiglia.
Ok.

Si mordicchiò un labbro, e poiché era insensibile non si accorse del sangue. La pioggia cadeva a scrosci. Andare a cacciare il naso a Bedford non aveva molto senso. Meglio preoccuparsi di mettere Meg e Maddie al riparo. Se i confini erano stati chiusi, era abbastanza convinto di persuadere i soldati a farli passare per raggiungere il New Hampshire. Avrebbe fatto buio entro tre o quattro ore, quindi c'era ancora un po' di tempo. Poteva pompare la benzina dai serbatoi, come aveva detto la sua segretaria. Ma con la caviglia rotta Meg non poteva camminare a lungo. Questo poteva costituire un problema se le macchine bloccate sull'autostrada li avessero costretti a fermarsi e fare a piedi i quasi duecento chilometri che li separavano dal confine di Stato. Per un po' poteva trasportarla lui, ma non per tutto il tragitto. Non sarebbero stati al sicuro se la notte li avesse sorpresi allo scoperto.

No, decise. Per ora avevano ancora una casa, potevano barricare le porte. Non sapeva cosa avrebbero trovato sulla strada. Accese il motore e cominciò a guidare. Finché restavano in città, valeva la pena sfruttare le ore di luce per vedere cosa poteva trovare a Bedford.

Tornò sulla strada e si diresse a nord. Quando raggiunse la via secondaria che correva lungo il bosco, trovò un paio di soldati della polizia militare armati di mitra che bloccavano la strada di collegamento tra le due città. Rallentò per mostrare la patente, ma loro gli fecero segno di passare. Erano uomini di una certa età, entrambi con i capelli grigi e un gran numero di mostrine sul colletto dell'uniforme. Sergenti, come minimo. E allora, cosa ci facevano di pattuglia come due reclute? Gli affiorò un'idea che non gli piacque affatto. Stavano al posto delle reclute perché le reclute avevano disertato, o erano morte.

Bedford era silenziosa quanto Corpus Christi. Le case, a quanto poteva vedere, erano abbandonate. Ma lungo la valle trovò il parcheggio delle roulotte, l'ultimo avamposto dei residenti, a quanto si diceva. Era stato costruito all'interno di un avvallamento fangoso che di recente si era allagato, e alcune delle roulotte erano incrostate di terra fino al tettuccio.

Accostò davanti allo steccato che circondava il parcheggio e scese dall'auto. La pioggia gli scrosciava sul volto e le scarpe da tennis sguazzavano nelle pozzanghere. Si sorprese di vedere camminare verso di lui una donna dall'aspetto vigoroso con due ciocche di capelli grigi sulle tempie. Dimostrava una quarantina d'anni, forse cinquanta. Era alta, con le spalle larghe. Indossava una giacca di cerata gialla sopra pantaloni di fustagno e un maglione di lana blu. Avrebbe potuto essere la presidentessa dell'associazione genitori di Corpus Christi.

Lui agitò la mano in un saluto, avvicinandosi a sua volta. «Abita qui?» domandò. Si aspettava che rispondesse che era di passaggio da Bangor, in cerca di indizi come lui.

«Già» disse lei. Dalla voce capì che era del posto. L'inflessione era piatta e priva di calore, quella tipica della gente di Bedford. «Da vent'anni. Prima avevo una casa, ma è crollata nell'incendio.»

«Nessun altro abita qui?»

Lei scosse la testa. «Prima. Adesso se ne sono andati tutti. Si sono presi la malattia dei polmoni. Di notte però tornano.» Quando gli sorrise, lui capì che nessuna associazione di genitori l'avrebbe mai accettata tra le sue fila. Aveva i denti neri. Non marroni, come se non li lavasse, ma neri, come se mangiasse solo merendine e zucchero che glieli avessero fatti marcire.

«Ci sono infetti anche qui?» domandò Fenstad.

Lei si portò una mano sopra la testa per ripararsi i capelli dalla pioggia. «Chiamali infetti, se vuoi, ma sono forti come tori.» Poi con l'indice si fece dondolare un incisivo, e a lui tornò un vago ricordo di aver preso a pugni in faccia Lois Larkin. Solo l'idea gli fece accelerare il cuore, ma come scorie sulla corrente di un fiume, il ricordo sprofondò subito.

«Dove dorme?» Aveva alzato la voce per farsi sentire nonostante lo scrosciare della pioggia.

Lei sorrise, e parlò sempre facendosi dondolare il dente, così gli fu difficile decifrare le parole. «Avevo due figlie ma se ne sono andate. Anche mio marito.»

Lui avrebbe voluto fuggire, ma ormai era là e forse quella donna sapeva qualcosa. Aveva già sprecato mezza giornata, adesso voleva qualche informazione concreta da portare a Meg. «Posso farle qualche domanda?»

Lei annuì. «Dentro. L'ho sempre odiata la pioggia, anche prima dell'alluvione.» Poi si diresse alle roulotte. Si fermò davanti alla più malconcia. Non aveva nemmeno le ruote. Ancora più preoccupanti erano i fantocci a grandezza naturale, cuciti con abiti da bambino e nylon e imbottiti di cotone, che pendevano dai capestri lungo i pannelli di legno delle fiancate. Ogni effige portava un cartello stradale di metallo con una parola scritta con la vernice spray in caratteri infantili. In sequenza, Fenstad lesse:
Non è mai sazia. La sua fame è implacabile.

La donna indicò i fantocci. «Non è casa mia, ma ho cercato di decorarla al meglio.» Poi lo guardò e sorrise. «AH!» strillò.

Lui sobbalzò.

«Beccato!» disse lei, e cominciò a ridacchiare. «Era già così quando sono arrivata.» Poi salì i tre gradini del suo rudere di roulotte, e si sbatté la porta alle spalle.

Dopo qualche secondo, e un gran fracasso, tornò fuori. Gli fece cenno di entrare, e lui ne dedusse che la sparizione indicasse un tentativo di riassettare l'interno o di nascondere qualcosa che non voleva fargli vedere. Il respiro della donna era affannoso. Si rese conto che si era stancata troppo presto per una donna di quell'età e di quel fisico. Non aveva il virus, ma era malata. Non provò compassione. Al contrario, la sua fragilità la rendeva meno pericolosa.

Infilò una mano in tasca per rassicurarsi tastando il flacone di OxyContin. Poi entrò nella roulotte. Lo spazio era angusto. Una branda pieghevole e un tavolo da cucina erano accostati alla parete per lasciare un margine di movimento. Il pavimento era lucido di cera. Nel secchio dell'immondizia accanto alla porta, confezioni vuote e accartocciate di Mallowmars, Hershey's Kisses e Twinkies crepitavano ancora, come se ci fossero state appena gettate e pressate con un piede. Lei seguì il suo sguardo e annuì. «L'elettricità è saltata quasi dappertutto, così prendo quello che non è guasto e che agli abitatori della notte non interessa. Forse così mi lasceranno stare. Sono rimasti quasi solo i dolci.»

Sul tavolo c'era una foto di due ragazze: una minuta e bionda, l'altra bruna e più rotondetta. Nessuna delle due sorrideva al fotografo.

«Tè?» domandò lei. «Ho solo il Lipton. Sono una donna sola, non posso permettermi altro. La figlia che mi è rimasta studia chimica con una borsa di studio, ma a me non manda nemmeno un centesimo. Vive nel peccato con il suo ragazzo... Proprio così. Allora, un tè va bene?»

Lui non voleva un tè, e lo strizzacervelli in lui si chiese se lei fosse in grado di farlo bollire. «Sì, grazie.»

Lo sorprese vedere che lei ne già aveva una teiera pronta. Versò il contenuto in una tazza che gli offrì su un piattino sbeccato. «Aspettavo ospiti. Tengo gli occhi aperti... sulla cartiera. Sto di guardia alla vecchia cartiera. Se resti bene in ascolto, senti tutto.» Gli strizzò l'occhio.

Sollevando la tazza lui ci vide galleggiare un pisello verde (zuppa in scatola?). Almeno si augurava fosse un pisello. Se la portò alle labbra e finse di bere, poi la appoggiò sul tavolo accanto alla foto d'infanzia di Susan e Elizabeth Marley.

«Quando hanno cominciato ad ammalarsi le persone di qui?» domandò.

Lei sorrise. Poi sputò. A lui si rivoltò lo stomaco. Un dente le era caduto in mano. Lo nascose nel pugno come un boccone indigesto che non sapesse eliminare con educazione. Lui pensò a Lois. Aveva picchiato una donna. Ma forse non era così grave. Lui era solo un uomo normale, e questi erano tempi fuori dall'ordinario.

«È cominciato molto prima dell'incendio, ma allora gli animali e le persone morivano prima di contagiare gli altri, così non si è diffuso. Lo zolfo lo ha solo reso più forte, tutto qui.» Poi si sporse in avanti. «Perché non mi chiedi quello che vuoi sapere davvero?» disse, solo che adesso parlava con la lisca:
sciapere.

Lui aveva la mente fissa all'ospedale, e alla marea di sangue che doveva averlo travolto durante la notte, così le diede una risposta da strizzacervelli: «E cos'è che vorrei sapere?».

«Ti credi furbo, eh?» disse lei. «A te non interessa come è cominciata. Vuoi sapere come fermarla. Ma non
puoi
fermarla.»

Lui si esplorò l'interno della guancia con la lingua, ma aveva la bocca completamente insensibile. Ne fu felice. Desiderò che anche il resto di lui non sentisse niente.

«È capitato qualcuno da queste parti. Un ragazzino, credo. Ha trovato le ossa dell'ultimo portatore del virus, e ci ha sanguinato sopra, e poi ha succhiato le ossa finché il virus non ha cominciato a crescere dentro di lui» disse.

«Come lo sa?» domandò Fenstad.

Lei sogghignò. La gengiva non sanguinava dove aveva perso il dente, e questo gli fece pensare che fosse già caduto prima, e che lei avesse fatto come i tossici del Midwest che hanno la bocca imputridita dalle metanfetamine, e avesse cercato di incollarselo con il Polident. «Questo posto è infestato.»

«Non credo di capirla» le rispose.

«Certo che non capisci» sibilò lei. Poi prese un Twinkie, strappò la confezione argentata con i denti. Miracolosamente, rimasero al loro posto.

«Cos'è successo qui a Bedford?»

Lei si inclinò in avanti sul tavolo. «Tornatene a casa a pestare tua moglie, o a fare quelle altre cose che fate voi maschi.»

Lui trasalì. Che sapesse di Lois? E di Kauffman?

Lentamente il sorriso le si allargò sulla faccia. «Punto sul vivo, eh?»

Lui si alzò per andarsene ma lei lo afferrò per un braccio. Aveva le dita appiccicose. «Ti dirò tutto.»

Lui attese anche se non avrebbe voluto. Doveva sapere. Il ghigno di lei si fece enorme, come non vedesse l'ora di rivelare il suo segreto. «Era venuta una ragazza a redimere questo posto. Si ingoiava i nostri incubi come caramelle.» Poi si arrestò, e con la mano libera si riempì la bocca di Twinkie. Quando riprese a parlare le caddero briciole bagnate dai lati della bocca. «Anch'io ingoio zucchero... Lo ingoio per lei, perché sappia che io non dimentico. Per esserle vicina.» Poi con l'altra mano si cacciò di nuovo il dente nella gengiva, riprendendo a parlare senza lisca.

Fenstad aveva visto abbastanza. Con uno strattone liberò il polso dalla presa e puntò la porta. Lei gli gridò dietro: «Ma gli incubi sono troppi, non puoi ingoiarli tutti. Non in un luogo infestato come questo. Povera, stupida illusa. Questo posto gli incubi li
partorisce
»
.

Fenstad allungò la mano verso la maniglia. La prospettiva della pioggia là fuori gli sembrava meravigliosa, come se potesse lavare via il fetore di quella donna dai suoi abiti.

«Era vivo anche prima, ma adesso è diverso. Questa volta è più astuto. All'inizio era come James Walker: stupido e crudele. Ma adesso ha un nuovo capo. Riesci a indovinare chi è? La tua vita dipende da questo.»

Fenstad si voltò a guardarla. Voleva credere che fosse pazza, ma sapeva che non era vero. La donna sorrise. «Lo sai perché non mi mangiano?» Si indicò una tempia con il dito indice, come se ci puntasse una pistola. Poi premette il grilletto. «Bang!» disse. «Cancro. Il sapore non gli piace.»

Lui aveva quasi guadagnato l'uscita. Notò allora cosa lei gli avesse nascosto. Un lenzuolo bianco ricopriva un piccolo grumo sul tavolo di cucina.

Lei vide che lo stava guardando. «Sono una persona civile, io: li cucino come si deve. Il fuoco distrugge il virus» disse.

Dal lenzuolo spuntava il dito di un bambino. Fenstad deglutì, ma non riuscì a mandare giù la bile. Spalancò la porta e vomitò.

«Hai poco da fare il superiore, signor saccente! Io mangio solo quelli morti!»

Lui scese i gradini barcollando. Il sole era tramontato. La pioggia fu un conforto. Gli veniva da piangere, tanto gli faceva bene. Persino il buio era meglio del mostro alle sue spalle. Persino il virus era meglio. Accelerò il passo, poi si mise a correre verso la macchina.

«Aspetta e vedrai! Anche tu farai lo stesso!» strillò lei alla macchina che si allontanava.

 

29.

Il custode di mio fratello

 

Danny tolse la sicura. O almeno si augurava che fosse la sicura. Il metallo era tiepido perché lo aveva stretto tra le mani tutta la notte. Se la infilò in bocca. Tremava, e i suoi denti battevano sul ferro della canna. Stava già pensando che fosse una cattiva idea. Ma cominciò a contare. Al tre avrebbe premuto il grilletto. Questa volta non si sarebbe tirato indietro. Avrebbe dovuto seppellire meglio quei conigli. Avrebbe dovuto essere un fratello migliore. Avrebbe dovuto decidere di non seppellirli affatto, quei conigli.

«Uo» contò con la bocca piena di acciaio bene oliato: uno.

I fantasmi dei suoi genitori lo guardavano da un angolo della stanza. Negativi senza colore, erano neri dove avrebbero dovuto essere chiari. Non sorridevano. Le vene sul collo di Miller erano gonfie, come se la sua collera stesse per esplodere. Felice gli teneva una mano, sembrava una bambina aggrappata al suo papà. Erano vestiti eleganti, come per una serata al golf club. La pelliccia di lei era fatta di resti di coniglio.

Si tolse la pistola di bocca. Non voleva averli come testimoni. Si rese conto che non stava cercando di proteggerli: non gli piacevano affatto. «Andatevene via» disse. «Siete morti.»

Lui e il suo vecchio rimasero a fissarsi. Lo sguardo di Miller era torvo, come per costringere Danny ad abbassare gli occhi. Danny girò la pistola, e la puntò contro suo padre. Il rinculo lo mandò a sbattere sul muro della scala contro il quale era rimasto seduto tutta la notte, di guardia alla porta. «Uuuff» disse. Alzò gli occhi, e i fantasmi dei suoi genitori erano svaniti. Al loro posto restava solo il foro di un proiettile mal centrato a circa un metro e mezzo da terra, e Danny sorrise per la prima volta da giorni, per la felicità che il proiettile si fosse conficcato nel muro e non nella sua testa.

Si alzò in piedi, girò la serratura, e aprì la porta sulla luce resa morbida dalle nubi di metà mattina, come una talpa che spunta nel sole dalla tana.

 

Un'ora dopo aveva mescolato gli ingredienti che era riuscito a trovare in cucina, e si era preparato delle frittelle accompagnate da una spremuta di lime per tacitare il brontolio del suo stomaco. Poi racimolò il coraggio, e andò in sala da pranzo a prendere i resti di sua madre e darle sepoltura.

Ma la stanza era vuota, non restava che qualche macchia di sangue sul pavimento. La sua determinazione cedette. Durante la notte, se l'erano presa loro. Provò una rabbia sorda. Ma anche sollievo.

Guardò fuori dalla finestra. Il giardino era deserto, come anche i giardini dei vicini da entrambi i lati. Nella città ai suoi piedi bruciavano piccoli incendi. Avevano l'aria di essere stati appiccati la sera prima, non restavano altro che i tizzoni. La valle andava lentamente in cenere nella foschia mattutina.

Capì che era giunto il momento di andarsene.

A parte l'ammaccatura lasciata da Aran sulla portiera del passeggero, l'auto di sua madre era in buone condizioni. Ci salì e girò la chiave nell'accensione. Il motore prese vita. Non restava molta benzina. Avrebbe dovuto procurarsene. Lo stomaco riprese a brontolare. Avrebbe dovuto procurarsi anche da mangiare.

Guidò lentamente, guardandosi intorno in cerca di segni di vita. Non ne vide. I negozi di Micmac Street erano vuoti. Le vetrine erano rotte, e dai vetri infranti pendevano oggetti male assortiti, dai condizionatori d'aria ai tappeti persiani. Il supermercato era stato saccheggiato. Non c'era più carne né verdura. Persino il gelato era sparito dai congelatori.

Benzina non ne era rimasta in nessuno dei tre distributori, così decise di tentare la sorte. Si diresse alla rampa d'ingresso dell'autostrada e cercò di imboccare la I-95. La rampa era ostruita da un Humvee. A bordo c'era un soldato, e quando l'auto di Danny si avvicinò l'uomo abbassò il finestrino. «Fai marcia indietro o spariamo!» gridò da un megafono. Danny rallentò, ma senza fermarsi. La città era in rovina; dove altro poteva andare?

Poi si abbassò un secondo finestrino oscurato, e Danny fermò la macchina. La canna di un fucile automatico gli puntava contro. «Fai inversione, adesso!» gridò il soldato.

Danny infilò la retro, ma non sembrò bastare. Pop-pop-pop! Il rumore gli spaccò i timpani. Schiacciò a tavoletta e sgommò in retromarcia fino a uscire d'un balzo dalla rampa e ritrovarsi su Micmac Street. Lo specchietto retrovisore non c'era più, e gli ci volle un secondo per rendersi conto che l'avevano disintegrato. Gli ci volle un secondo per rendersi conto che non avevano sparato in aria, avevano sparato a lui.

L'unica altra via di uscita passava da Bedford. Imboccò la strada senza nome che collegava le due città fin dai tempi della loro fondazione. Anche qui c'erano i soldati. Lui accostò accanto a un camion e abbassò il finestrino. Due uomini in mimetica e armati di mitra gli si avvicinarono a piedi, e lui recitò mentalmente una preghiera di due parole:
non sparate.
Uno dei soldati lo guardò negli occhi e poi, senza aprire bocca, gli fece cenno di proseguire.

Accelerò e percorse la strada ai bordi del bosco. Il fitto degli alberi lo stringeva da destra e da sinistra.
Ci vediamo nel bosco
aveva detto James. Era tornato laggiù? Danny inclinò la testa, in ascolto. Era là che si nascondevano?

Entrò nella città deserta di Bedford. La Main Street era vuota. Tutte le vetrine erano infrante. Somigliava molto a Corpus Christi, e improvvisamente pensò che d'ora in poi, dovunque fosse andato, tutto sarebbe stato come a Corpus Christi. Il mondo intero era infestato, non c'era più un luogo dove nascondersi. I morti, gli infetti, i vivi, avevano tutti preso casa insieme.

Danny si asciugò gli occhi e tirò su col naso. Nella sua mente, i fantasmi delusi dei suoi genitori lo fissavano. Anche il suo fratellino (ma era poi mai stato davvero un bambino innocente?) era morto. Al suo posto si era risvegliato un mostro.

Capì ciò che doveva fare. C'era un solo modo per mettere fine a una cosa e cominciarne un'altra. C'era un solo modo per andare avanti senza odiare se stesso. C'era un solo modo per mettere a tacere i fantasmi, e una sola cura per il suo fratellino.

Ci vediamo nel bosco.

Accostò sulla Main Street, e parcheggiò nella zona pic-nic ai margini del bosco. Si stava facendo tardi. Le quattro del pomeriggio. Le giornate si era accorciate, e non mancava molto al tramonto. Fece un respiro profondo, si tastò la pistola che teneva in tasca, e andò a caccia.

Più si inoltrava tra gli alberi, più il fascio di adrenalina dentro di lui si scioglieva. Era stanco, non di camminare ma di tremare, di essersi tenuto pronto alla fuga da tanto tempo che adesso il fatto che il sangue gli scorresse nelle vene al doppio della velocità ordinaria cominciava a sembrargli naturale.

Il sole si abbassava all'orizzonte. Dovunque vedeva alberi caduti. L'istinto gli diceva di girare sui tacchi, ma non poteva abbandonare suo fratello. Non un'altra volta. Il ragazzo era rimasto solo al mondo, e per una volta Danny avrebbe fatto la cosa giusta.

Dopo un po', il sentiero si aprì su una radura. Tutt'intorno al perimetro c'erano carcasse di animali. Si intravedevano le pelli svuotate di conigli, cervi, e persino l'enorme paio di corna di un alce. Danny diede in un unico conato a vuoto prima di scavalcare i loro corpi e dirigersi verso il centro del prato. Era ubriaco di adrenalina. Ne aveva talmente tanta in corpo che avrebbe potuto correre una maratona.

Si chinò a tastare il terreno. Era nero e freddo e umido. Giunse al centro della radura. Da lontano erano sembrati un blocco unico, ma avvicinandosi vide che erano centinaia, forse migliaia, accatastati gli uni sugli altri. Puzzavano come una discarica.

D'un tratto la mente gli si schiarì. Il fascio di terrore gli si drizzò di nuovo nello stomaco stringendolo in una morsa. Riempì ogni cavità. Tremava. Non solo nelle mani; in tutto il corpo. Sua madre, Miller, Lou McGuffin, il medico dell'ospedale; erano morti. Centinaia. Migliaia. Forse milioni. Tutti morti.

Alcuni dei corpi erano riversi a faccia in giù, come se persino in sogno avessero tentato di leccare il sangue che impregnava il terreno. Strinse il pugno e se lo portò alla bocca. Premette tanto che gli fecero male i denti, e questo gli fu di aiuto. Gli diede la forza di avvicinarsi ancora un po'.

Camminava in punta di piedi. Tutto d'un tratto gli venne da pisciare, ma non voleva abbassarsi la cerniera davanti a quelle cose. E ormai aveva comunque perso il controllo. Si lasciò andare e i jeans si fecero caldi. Aveva trovato il nido.

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