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Authors: Sarah Langan

Virus (44 page)

BOOK: Virus
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La voce gli si fece aspra. «Anche la mia si è ammalata.»

«Mi dispiace» disse lei, anche se non le dispiaceva affatto. Non le interessava di sua figlia, e nemmeno di lui. Le interessava solo di Aran e di Alice, che però erano morti, no? Sì, li aveva uccisi lei.

Il dottor Wintrob annuì, e riprese a camminare. Lei lo guardò uscire dall'edificio. Avrebbe voluto seguirlo, ma ormai era un folle, così si diresse nella direzione opposta.

L'aria era immobile e maleodorante. Seguì il nastro rosso fino al blu, e poi fino al giallo. Giunse all'ingresso principale, e poi ricordò: qui c'erano anche Aran e Alice. Si costrinse a guardare. Non erano più i suoi bambini. Solo gusci vuoti e sudici. Prese delle lenzuola per ricoprire quella sozzura. Il suono delle lenzuola spalancate fu come un battito d'ali. Lei sperò che fossero le loro anime, liberate.

Poi uscì dall'ospedale nella luce del giorno.

Con la mente annebbiata, lasciò la bicicletta di Aran e vagò a piedi lungo Micmac Street. Le vetrine erano rotte e le porte di legno sfondate. Entrò e prese quello che le serviva: bende, alcol disinfettante, Tic-tac, schiuma da barba, un battente di ottone a forma di leone per la porta di casa, e carta dorata e nastri, perché oggi era il compleanno di
qualcuno.
Mentre camminava lasciò cadere tutto a terra, come briciole di pane su un sentiero, perché aveva le braccia colme.

Aran! Alice!
Non fosse stato per lei, sarebbero stati ancora vivi. Sarebbero andati ad abitare con il padre, che di certo era riuscito a lasciare la città. Che di sicuro aveva già raggiunto l'isola dove un tempo passavano l'estate, a mangiare mirtilli appena colti e passeggiare sulla spiaggia in cerca di conchiglie.

Ma se lui li amava tanto, perché non era venuto a prenderli? Perché era morto, o peggio: li aveva abbandonati.

Il polso le faceva male, così frugò nella borsa. Un flacone era penicillina, l'altro cianuro.

Passerà?

In un modo o nell'altro.

Prese il flacone di cianuro e lo gettò a terra. Con un calcio lo scaraventò lontano. Ne seguì la traiettoria, e lo scalciò di nuovo. E di nuovo, finché il flacone di plastica si ruppe, e lei calpestò le pastiglie fino a ridurle in polvere. Fu solo allora che si rese conto che, anche se i suoi figli erano morti, lei voleva vivere.

 

41.

Strozzata da un calzino

 

Dov'è che ho sbagliato?

Lunedì mattina Meg sentì l'auto di Fenstad uscire dal vialetto. Maddie non urlava più, e questo era un pessimo segno. Non voleva pensare al peggio. Se Maddie stava male, il suo intuito glielo avrebbe detto. Il problema era che il suo intuito le
stava
dicendo qualcosa. Le diceva che Maddie era morta.

Era rimasta immobile nella stessa posizione per ore. Non avvertiva più le braccia, non riusciva a muovere le dita, e ormai aveva smesso da un pezzo di cercare di divincolarsi. I nodi erano troppo stretti. Ma a Maddie era successo qualcosa. Se lo sentiva. E poi c'era quell'altra cosa alla quale non voleva pensare. Questa poteva essere la sua ultima occasione di scappare prima che Fenstad tornasse a casa e le uccidesse entrambe.

Prima di imbavagliarla le aveva ficcato in bocca qualcosa che non era riuscita a vedere, per quanto fosse abbastanza certa che si trattasse di un calzino sporco. Aveva un sapore tremendo. La saliva aveva gonfiato il cotone, che ora cominciava a chiuderle la gola. Respirava a fatica. Le braccia le erano diventate insensibili e non riusciva a spostarle, così spinse in avanti il busto quanto poteva, sperando di lacerare le lenzuola che la legavano.

Pensò a suo padre nel giorno del suo matrimonio, e a quello che le aveva detto. L'aveva convocata in sala da pranzo, e sebbene la giornata fosse piovosa, non aveva acceso le luci, lasciando la stanza nell'oscurità. Avrebbe dovuto farle da testimone, ma all'ultimo minuto si era rifiutato di accompagnarla dal giudice di pace. Il resto della sua famiglia, temendo di passare dalla parte del nemico, aveva fatto lo stesso.

Non ti accetteranno mai
,
le aveva detto il giorno in cui gli aveva annunciato il fidanzamento.
Ti sembreranno gentili, ma alle tue spalle ti chiameranno shiksa. Io sono disposto a pagare per le tue nozze, ma solo se farai le cose come si deve, in chiesa. Fidati di me, Meg. Nessuno ti ama come ti amo io. So cosa è meglio per te. Rompi il fidanzamento.

Ma lei non si era fidata. Il suo primo gesto di ribellione contro Frank Bonelli era anche stato l'ultimo. In un elegante completo bianco, quel giorno dal giudice di pace ci era andata da sola. Lui non le aveva mai più rivolto la parola. E adesso, vent'anni dopo, si ritrovava legata a un letto, a cercare di capire se aveva la forza di aggredire suo marito, e in tal caso con quale arma: forse un paio di forbici, oppure con un oggetto contundente?

Dov'è che ho sbagliato?
chiese il ricordo di suo padre, e lei scrollò le spalle, facendosi la stessa domanda.

Fu allora che vide Albert Sanguine. Con un pugno lui mandò in frantumi il vetro della finestra e si lasciò scivolare dentro la stanza. Il camice da ospedale era aperto sulla pelle bluastra. Lei pensò che forse era solo un sogno, ma camminando lui faceva scricchiolare le assi del pavimento. Era un uomo imponente, e avvicinandosi diventava sempre più grande. Quand'ebbe raggiunto il letto, la sovrastava come una torre.

Lei cercò di gridare. Il cotone le scivolò più in fondo nella gola. Ebbe un singulto, e le mancò l'aria. Stava soffocando su un calzino sporco. Lui si chinò su di lei, e le tornò in mente come l'aveva scaraventata in aria contro la partizione di plexiglass. Ricordava distintamente l'impatto, e lo schiocco della caviglia che si rompeva. Avrebbe lottato, se non fosse stata tanto impegnata a sforzarsi di respirare.

I suoi gesti furono delicati, per quanto maldestri. Lei non capì quello che aveva fatto finché non gli vide in mano la cravatta che teneva fermo il calzino. E ancora non ne fu sicura. Tirava respiri convulsi, ma non succedeva niente, e più cercava di respirare, più il calzino le scivolava in profondità nella gola. Improvvisamente avvertì un peso sul bacino, e non ne capì il motivo. Aveva chiuso gli occhi, ma anche se li avesse tenuti aperti il panico era troppo per rendersi conto che lui le si era seduto addosso per tenerla ferma.

A forza le aprì la mascella. Poi le cacciò una mano in bocca. Lei cercò di mordere. Non riusciva a respirare! Lui le tenne il mento, e le infilò le grosse dita in gola. Il sapore era salato. Sudore. Le venne un conato, e sputò qualcosa di lungo e umido. L'aria fredda le bruciò la gola. Un'altra convulsione, seguita questa volta da una sferzata di ossigeno. Le inondò i polmoni.

Albert lasciò cadere la calza accanto a lei perché potesse vederla. La saliva che per tutta la notte l'aveva impregnata l'aveva trasformata in un serpente di mezzo metro.

«Smetti di resistere!» sibilò lui. Poi diede in un colpo di tosse profondo, catarroso, e cominciò a slegare il nodo che le stringeva il polso sinistro. Le sue dita lavoravano lentamente. Era cambiato. I tic tourettici non c'erano più, e aveva gli occhi neri. Era infetto, evidentemente. Ma adesso era giorno fatto. Perché non temeva la luce come tutti gli altri?

«Dormono, ma lei sa che sono qui. Vede attraverso i miei occhi. Riesco a sentirla», disse. Girò la testa e tossì. Un grumo di catarro atterrò sulle lenzuola. «Adesso sa di te. Vuole snidare i superstiti. Li vuole tutti morti prima di lasciare Corpus Christi. Questa notte verrà a cercarti, e mi costringerà ad aiutarla.»

Il polso sinistro di Meg era libero. Inerte, ricadde sul letto. Lei cercò di sollevarlo e portarselo in grembo ma non riusciva nemmeno a girare la spalla. Aveva la mano violacea e gonfia, come qualcosa rimasta sott'acqua per ore.

Lui indicò l'altro polso. Con un cenno della testa lei diede il suo assenso, e lui cominciò a sciogliere il nodo. Puzzava come gli altri, un fetore di decomposizione. «Che cosa sei?» gli chiese. Aveva la voce rauca.

Per un secondo lui non rispose, e smise di lavorare al nodo. Lei si domandò se non fosse stato un errore. Se, come con Fenstad, avesse detto la cosa sbagliata, e girato un interruttore dentro di lui, così che adesso le si sarebbe avventato contro. Si fece piccola, in attesa. Le venne in mente che al suo elenco di problemi, ora si era aggiunta ufficialmente la voce «donna maltrattata».

«Quand'ero bambino ho avvertito la sua presenza, nel bosco», disse. «Il mio cervello e il virus, funzionano nello stesso modo. Io gli somiglio, più di Lois, più di chiunque altro. Così mi aveva chiamato. Io lo sentivo, anche se ero l'unico. Dopo l'incendio alla cartiera, è diventato più forte. Voleva che lo disseppellissi. Ma io non l'ho fatto.»

La guardò, e lei annuì. Aveva la gola troppo infiammata per parlare.

«Bevendo, lo mettevo a tacere. Con il budino di pane riempivo gli spazi della mia mente dove voleva abitare, perché non potesse impossessarsi di me, non del tutto. È stato lui a guarirmi», disse, indicandosi la ferita, che era aperta ma non sanguinava, «ma solo in parte. Ho bevuto tanto che gli ho impedito di cambiarmi. Adesso aspetta che io sia troppo stanco per lottare.» Il sorriso fu quello dolce dell'Albert che conosceva. «Ora è forte soprattutto dentro Lois Larkin. Lei crede di amarlo. Non capisce che è solo un parassita. Io la aiuto, anche se non voglio. Non riesco a liberarmi.»

Il polso destro ricadde sul letto. Lui lo prese tra le mani enormi e cominciò a strofinarle l'avambraccio. Lei vedeva i gesti, ma non sentiva niente. «Non ho mai mangiato le prede. Solo i topi», disse. Lei annuì, come se questo facesse tutta la differenza, e forse era proprio così.

«Ce ne sono altri come te? Parzialmente immuni?» domandò. Lentamente le tornava il tatto nelle mani. Dapprima solo aghi e formicolii, seguiti da un dolore cocente, e poi, finalmente, riuscì a muovere le dita. Sorrise. Dio è nelle piccole cose.

Lui scosse la testa. «Forse. Ma chi potrebbe volerlo? La mia mente e il mio corpo, vivono insieme, e si odiano.»

«Oh, Albert», disse lei. Voleva dirgli quanto le dispiaceva, ma non sapeva da dove cominciare. Il suo destino era stato più crudele di quanto lei avesse mai immaginato, e ciononostante lui aveva tenuto duro. Le tornò la speranza che forse anche la sua famiglia poteva farcela.

Lui sembrò capire, e annuì. «Dovete lasciare la città prima che faccia buio. Sono venuto a dirtelo.»

Meg cercò di sollevare le braccia, ma erano ancora inservibili, così si tirò a sedere nel letto, e attese che la debolezza passasse. «Perché lo hai fatto?» chiese.

Lui sorrise, come se la risposta fosse ovvia. «Sei stata buona con me.»

«Grazie», disse lei, e poi si fermò perché non voleva piangere davanti a lui.

«Cosa succederà quando lei scopre che sei venuto qui?»

Lui fece un sorriso amaro, e lei vi colse un barlume dell'uomo che avrebbe potuto diventare. «Mi ucciderà. Ma è quello che voglio.»

«Vieni con noi. Ce ne andremo insieme.»

Albert scosse la testa. «Adesso devo andare, signora Wintrob», disse. Poi la voce si fece gutturale. «Non è mai sazia. È una fame che parla. Se resto, ti farò del male.»

Era assurdo, ma d'un tratto lei provò vergogna di avere dentro qualcosa di così duro da suscitare violenza in tutti gli uomini della sua vita. Come se, in un certo senso, avesse tradito Albert, e anche Fenstad.

Lui spalancò le braccia insanguinate, e il camice si aprì ancora di più. Forse non ricordava che sotto era nudo. «Vattene. Il più lontano possibile. Se te ne vai, almeno la mia vita sarà valsa a qualcosa», disse, e persino mentre parlava, lei gli intravedeva dentro qualcosa di malvagio. Il labbro superiore era arricciato in un ringhio, e lei si vedeva riflessa nei suoi occhi neri, come immaginò si veda riflessa una preda all'avvicinarsi di un ragno.

«Sì», promise. Cos'altro poteva fare?

Lui arretrò nella stanza, e prese commiato con un ultimo cenno della testa. I gradini scricchiolarono mentre scendeva le scale. Lei capì allora come ci si senta, a resistere sul ciglio dell'inferno.

 

42.

La fuga

 

Appena sorto il sole, Danny Walker fece i bagagli. In seguito avrebbe rimpianto di non avere scelto scarpe più resistenti e una giacca pesante. Invece, nel borsone di tela rossa aveva messo tabacco da masticare e un mucchio di calze di ricambio. Non prese fotografie, né da mangiare, ma voleva portare con sé un ricordo di loro, così staccò dal frigorifero la lista della spesa e se la accartocciò nella tasca posteriore dei pantaloni. C'era scritto: «COMPRARE GELATO».

Salì sulla macchina di Felice. Il serbatoio era vuoto per tre quarti. Forse poteva bastare fino a Portland. Accese il motore e cercò una stazione radio. Non era rimasto nemmeno l'allarme del canale di emergenza. Su tutto lo spettro, solo un ronzio senza vita.

Si appoggiò al volante, e tirò il respiro più profondo possibile. Ok, va bene. Forse erano tutti morti. Forse tutto il mondo era sparito, e lui era l'unico ragazzo rimasto, ma doveva andarsene comunque. Doveva almeno tentare. Certo gli sarebbe piaciuto avere qualcuno con sé. Gli sarebbe piaciuto non essere solo, e che sul sedile posteriore dell'auto non ci fossero Felice, Miller e James, seduti a guardarlo.

Uscì dal vialetto. Dall'altra parte della strada, intravide un movimento dietro le tende. Vivo! Qualcuno era ancora vivo! Quella svitata di Maddie Wintrob. Le avrebbe baciato i piedi se fosse salita in macchina con lui. Ma poi l'entusiasmo si smorzò. Non aveva il coraggio di suonare alla porta del dottor Wintrob. Quell'uomo era completamente pazzo. E poi, gli aveva detto che sua moglie e sua figlia erano infette, e forse era vero.

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