Virus (36 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Uscì dalla cappella e riprese a camminare. Il rosso diventò nero. Stava pensando al sorriso incantevole di sua madre, che riusciva chissà come a farti sentire la persona più importante del mondo. Forse se l'era solo immaginata l'espressione di shock sulla sua faccia nella sala da pranzo, come se nell'ultimo istante avesse capito che cosa era diventato il suo secondogenito, e quella scoperta le avesse spezzato il cuore.

Ma James aveva fatto anche di peggio. Mentre Danny fuggiva verso la stazione di polizia, aveva intravisto qualcosa penzolare da uno dei puntali di ferro della cancellata di fronte a casa. Il vento soffiava forte, e per un istante Danny aveva pensato che lì ci fosse qualcuno ancora vivo.

Prima di vedere quello che vide sulla cancellata, sperava ancora che in James ci fosse qualcosa da salvare. Certo, si detestavano, ma lui aveva sempre creduto che, se un giorno fossero stati nella merda, si sarebbero spalleggiati a vicenda. In quel momento aveva capito che James era un mostro. Impalato sulla cancellata c'era il corpo senza vita di Miller Walker.

Da una delle stanze lungo il corridoio con il nastro rosso, Danny sentì un grido gutturale. Il suono si interruppe, e tornò il silenzio. Si voltò e tornò sui suoi passi. Era ora di andarsene, ma aveva dimenticato perché (
Hanno fame, ricordi? Vattene via, Danny, finché puoi!
). Rifece il percorso a ritroso: dal rosso al verde. I pazienti nel reparto verde di terapia intensiva non tossivano più, ma molti di loro stavano scivolando giù dai letti. Alcuni sembravano in forze, ma gli altri si muovevano lentamente. Avevano le gambe troppo lunghe, e il dorso troppo corto, così non riuscivano a camminare né eretti né carponi. Era come se il virus dentro di loro non li calzasse ancora bene. Danny sbatté le palpebre, e decise di fingere che una parte di lui fosse ancora a casa a guardare
Elimidate.
Che una parte di lui fosse al sicuro.

Camminò tenendosi stretto al muro azzurrino, cercando di rendersi il più piccolo possibile. Erano ancora nelle loro stanze, non erano usciti in corridoio. Forse non lo avrebbero visto. Forse non avrebbero cercato di fargli quello che voleva fargli James.

Il re è morto. Viva il re!

Tutto d'un tratto l'aria si era fatta immobile, come se la tempesta elettrica che aveva sentito arrivare fosse ormai sopra la sua testa. Nei corridoi non c'era più nessuno, erano rimasti solo i malati nei loro letti. Nessuno lamentava più la morte di un amico, di un genitore o di un gatto. Nessuno pregava, nessuno tossiva. Le infermiere, i medici, persino gli inservienti si erano dileguati. Dove sono andati? domandò una vocina dentro di lui. Pensò di sapere la risposta, ed era una risposta terribile. Qualcosa cadde con un tonfo alle sue spalle, e lui si girò. Aveva le dimensioni di un bambino, e non si muoveva abbastanza in fretta da riuscire a raggiungerlo. Era grassoccio, con le braccia e le gambe punteggiate di fossette. Gli ci volle un po' per capire che un tempo era stato umano. Un neonato. Aveva gli occhi neri.

Fuggì via barcollando.

Il verde diventò blu. Il blu si apriva sull'ampia sala da dove era partito. L'accettazione. A pochi metri di distanza c'era l'uscita e dietro il bancone un medico con un camice rosa e una targhetta che diceva ROSSOFF in grandi lettere nere in stampatello. L'uomo alzò le braccia, nel segno universale della resa, e da quello Danny capì che era ancora umano. Senza produrre suono, le sue labbra formularono una parola:
Pietà.

Le barelle erano vuote, e Rossoff era circondato da tutti i pazienti che fino a un momento prima dormivano. Danny rimase a guardare, anche se sapeva che avrebbe dovuto precipitarsi oltre le porte automatiche davanti a lui. Qualcosa ci era rimasto incastrato, e continuavano ad aprirsi e chiudersi, aprirsi e chiudersi, senza sosta. Ma la solitudine è una cosa terribile. Non voleva che nei suoi ultimi istanti quell'uomo restasse senza almeno un testimone. O forse era lui a sentirsi solo.

Una ragazza grassa - la conosceva, era Alice Schiffer - prese il medico per la mano come volesse condurlo via e salvarlo dalla folla. Il medico la lasciò fare, e Danny vide il sollievo sul suo volto, come se qualcuno gli avesse gettato in faccia un secchio d'acqua gelida e lui si fosse improvvisamente riscosso dal torpore, ma fosse anche molto più vicino a perdere il controllo. Anche Danny provò sollievo.
Grazie a Dio
,
pensò. Ma poi Alice partì all'attacco. «Co...?» gridò il medico. Aveva gambe e braccia magre, ma un ventre prominente, e Danny si domandò se il suo rispetto per le persone grasse fosse dovuto al fatto che gli ricordavano il padre. Con uno strattone Rossoff le strappò la mano insanguinata dai denti. Le sue labbra erano rosse. Il cerchio degli altri si strinse, finché Rossoff non poté più restare in piedi. Danny non lo vedeva più; sentiva solo le sue grida.

Gli faceva male la gola, e si rese conto che non era il medico a gridare, era lui.

A quel suono, alcuni degli infetti gli si avvicinarono con un tramestio. Andavano carponi, si trascinavano, e qualcuno camminava ancora. La loro pelle pallida e sottile come carta velina lasciava intravedere le contrazioni dei muscoli. Erano solo camici, decise lui. Camici bianchi e blu da laboratorio, come le figure di un libro illustrato. Evitò di guardare i loro occhi neri, ma riconobbe comunque gli inservienti che poco prima aveva implorato di aiutarlo, e Aran Schiffer, Frannie Saulnier, la prima ragazza che aveva baciato e probabilmente la più dolce che avesse mai conosciuto, motivo per cui l'aveva scaricata. Pensava che avrebbe incontrato di meglio.

Fu Frannie a fare il primo passo. Era stata una ragazza emotiva, facile alla commozione al punto di portarsi la mano al cuore quando vedeva le persone che amava, come se non vivessero solo nel mondo, ma anche dentro di lei. «Danny, ti ho aspettato tanto» disse. Si portò la mano al cuore anche in quel momento, ma il gesto non tradiva alcuna emozione.

Lui corse fuori dalle porte, e si ritrovò nella notte. Lo seguirono fino alla Mercedes di sua madre. Salito sull'auto chiuse le portiere e poi -
slam!
- si ritrovò sollevato su due ruote. Provò un vuoto allo stomaco come su un carrello delle montagne russe caduto a precipizio, e andò a sbattere di lato contro la portiera del conducente. Poi la macchina tornò in asse, e lui rimbalzò una, due volte, e si ritrovò seduto.

Cosa stava succedendo? Guardò fuori e vide luccicare i loro occhi neri. Cinque? Dieci? Cinquanta? Non riusciva a contarli. Quello grosso, Aran, della squadra di lotta libera, stava cercando di ribaltare la macchina. La Mercedes era pesante, praticamente un carro armato tedesco, ma comunque non c'era da stare allegri. Aran prese due passi di rincorsa, e poi caricò. Questa volta aveva i rinforzi. Altri due avevano seguito il suo esempio. Danny allungò la mano verso il portaoggetti, e tirò fuori le chiavi. Girò l'accensione nell'istante preciso in cui i tre sbatterono contro la portiera. La macchina rimbalzò, poi si sollevò su due ruote, e per un pericoloso istante rischiò di cappottarsi. Danny rimase schiacciato contro il finestrino. «Merda!» gridò. «Merda! Fatemi-uscire-fatemi-uscire!»

Allungò una gamba e diede gas. Lauto balzò in avanti e ricadde con un tonfo. Le gomme gemettero rimbalzando sull'asfalto. Rigò la carrozzeria di un Suv parcheggiato e poi, con una serie di colpi sordi, investì alcuni degli infetti. «Via-via-via!» strillava Danny, proprio mentre alla radio del college un ascoltatore isterico si metteva a sbraitare dagli altoparlanti della Mercedes: «È arrivata la fine del mondo!».

Nello specchietto retrovisore, il luccicare degli occhi si faceva sempre più lontano, e lui contò da dieci a uno alla rovescia per non lasciare subito l'acceleratore e scoppiare a piangere, mentre alla radio il dj annunciava: «Grazie, ascoltatore. Un altro argomento sul quale preferiremmo non soffermarci. Ora, se c'è qualcuno di voi che conosce mia mamma, che abita a Portland, al numero 16 di Temple Street, potrebbe per favore fare un salto da lei per vedere come sta?».

Bum!
L'auto era passata sopra qualcosa di solido, e adesso lo trascinava sotto il telaio. Un corpo? Il corpo di chi? C'è qualcuno là sotto? Gli venne da ridere. La macchina aveva rallentato, per quanto lui premesse il pedale a tavoletta. Nello specchietto retrovisore, il luccicare degli occhi si fece più vicino. «Bastardi!» gridò lui.

«Si chiama Eunice Hildebrandt, e se passate a trovarla vi inviterà a cena. Grazie, amici, grazie davvero. Mitico» diceva il ragazzo alla radio, come se avesse dimenticato che questa era una pandemia, e si desse ancora la pena di fare il figo.

«È morta, coglione» gli rispose Danny. «Se ti fermi, sei morto.» Poi diede gas, e
flop flop flop
,
la cosa si staccò finalmente dal telaio. L'auto riprese velocità, e gli occhi si allontanarono di nuovo.

Il paesaggio gli scorreva davanti, e lui si ricordò che stava guidando. Significava che era ancora vivo, e che era riuscito a uscire dall'ospedale. Lungo la strada investì qualche ostacolo. Si augurò che nessuno di essi fosse la testa di sua madre. Un paio di chilometri dopo accostò nel vialetto di casa. Non voleva tornare là dentro, ma non gli era venuto in mente nessun altro posto. La cosa sulla cancellata (
Il migliore attacco è la sorpresa, ragazzo mio!
) non c'era più, e lui si chiese a chi cazzo fosse venuto in mente di rubargli il suo vecchio. Poi si chiese se non avesse perso del tutto la ragione.

Da lontano, vedeva occhi che lo seguivano. Lo stavano ancora guardando.

Si precipitò in casa e si chiuse la porta alle spalle. Poi si mise a cercare la cosa che gli serviva. Non ricordava come si chiamasse, ma ne aveva un'immagine confusa nella mente. La trovò nel ripostiglio in anticamera, dietro le racchette da squash e da tennis, sotto gli sci e le racchette, l'attrezzatura da pesca alla mosca, le mazze da golf, i calendari di Playboy con la copertina rivestita di plastica come articoli da collezione. Era un oggetto pesante, conservato in una scatola da scarpe. Si mise i proiettili in tasca ma alcuni caddero a terra. Rotolarono con uno sferragliare sonoro. Da risvegliare i morti.

Aprì la porta del seminterrato, e si chiuse dentro. Tenne la pistola puntata verso la porta per quasi un'ora prima di ricordarsi di mettere i proiettili nel caricatore. Dopo un po', senza sapere quanto tempo fosse passato - il cellulare non funzionava bene, e lui non portava l'orologio - sentì andare in frantumi una finestra al pianterreno. Poi qualcosa che strisciando fece scricchiolare le assi del parquet.

Era come un fruscio. Immaginò dei corpi che si trascinavano sul pavimento. I malati, quelli che non si muovevano ancora bene. Calcolò il loro progresso seguendolo con gli occhi sul soffitto. Raggiunsero l'anticamera, poi la cucina, e infine la sala da pranzo, dove si arrestarono. Lui ebbe un sussulto muto. Avevano trovato sua madre. Avrebbe dovuto seppellirla. Oddio, avrebbe dovuto darle riposo.

Dopo un po', si fece di nuovo silenzio. Avevano finito quello che dovevano fare e se n'erano andati. Dapprima provò sollievo, ma subito dopo gli passò. Nel seminterrato era buio pesto. Non osava accendere le luci. Pensò agli occhi di sua madre. Anche a quelli di suo padre. Nella mente riusciva a vedere la sagoma delle loro facce come sul negativo di una foto; pallide e prive di emozioni. Ora che erano morti entrambi, erano cambiati. Erano diventati cattivi. Incolpavano lui di quello che era successo a James.

Avrebbe dovuto seppellirli. Come i conigli. Non gli era riuscita una cosa giusta in tutta la vita, e adesso il mondo stava per finire, non c'era tempo per rimediare.

Si sentiva gonfio in tutto il corpo, come se il dolore gli avesse impregnato gli organi e li avesse dilatati. Stavano per scoppiare, e a quel punto lui sarebbe morto. «Mamma e papà, vi prego, restate morti. Non voglio più rivedervi» sussurrò nel buio. Nella mente rivedeva le loro facce, la loro smorfia di rimprovero. Lo fissarono tutta la notte.

Poi, esausto, si addormentò.

Quando si svegliò, la domenica mattina, scoprì che malgrado fosse sorto un nuovo giorno l'incubo durava ancora. Si mangiò le lacrime, immaginò i fantasmi severi di Felice e Miller che lo fissavano nel buio, e infine si puntò la pistola alla tempia.

 

28.

La strega

 

Fenstad non tornò dritto a casa una volta lasciato l'ospedale. Parcheggiò invece in cima alla collina, e attese che il cuore smettesse di battergli all'impazzata. Tranne la Wbai del Colby College, le stazioni radio erano passate quasi tutte ai canali satellitari nazionali che trasmettevano dalle grandi città. I programmi erano registrati, o si limitavano ai comunicati stampa. La stazione rock non faceva che ripetere il comunicato della Fema, che raccomandava ai cittadini del New England di chiudersi in casa, e aspettare gli aiuti che stavano per arrivare.

La mente di Fenstad era un turbine di immagini. Si sforzò di non lasciarsi suggestionare. Come in visita alla vasca degli squali nell'acquario, cercò di restare al sicuro dall'altra parte del vetro. Rivide la testa decapitata di Alice, e gli tornò alla mente una frase che ripeteva sempre scherzando la sua maestra di quinta elementare:
Cadranno delle teste!
Rivide il tatuaggio della margherita mutilata sul braccio della donna bassa, e l'osso di pollo che gli rotolava contro la scarpa.

Meglio filarsela, Fennie.
Aveva le labbra insensibili, e si chiese se non fossero i primi sintomi di un infarto finché non ricordò l'OxyContin. Si tastò il taschino della camicia, per accertarsi di averne ancora.

Scese dall'auto e guardò giù verso la città. Pennacchi di fumo nero si levavano dal quartiere degli uffici (incendi? esplosioni?), ma a parte quello, sembrava tutto tranquillo. Le case avevano porte e finestre sprangate. Si domandò quanti fossero i superstiti, sempre che ne restassero ancora. I fertili prati verdi erano punteggiati di schegge d'avorio: ossa. Sulla strada, a qualche metro da lui, c'era un teschio umano perfettamente ripulito. Non era rimasto nemmeno lo scalpo. Ma la città non era del tutto deserta. L'auto della polizia di Tim Carroll pattugliava lenta le strade. Quell'uomo meritava il suo stipendio fino all'ultimo centesimo.

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