Moll Flanders (Collins Classics) (73 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Per la verità, il capitano poteva essere abbastanza sicuro della nostra intenzione di partire, perché, dopo aver fatto tante provviste per andarci a stabilire laggiù, non sarebbe stato ragionevole restarcene qui a rischio della vita, visto che così sarebbe andata se ci avessero ripresi. In poche parole, scendemmo tutti a terra con il capitano e cenammo insieme a Gravesend, dove ci divertimmo molto, e passammo la notte, dormendo nella stessa locanda dove avevamo cenato, e la mattina dopo tornammo tranquillamente a bordo con lui. Comprammo lì dieci dozzine di bottiglie di ottima birra, vino, pollame e altra roba che pensammo ci sarebbe servita a bordo.

La mia governante rimase con noi per tutto quel tempo e venne con noi fino ai Downs, come fece anche la moglie del capitano, con la quale lei tornò. Separarmi da mia madre non mi dette tanto dolore quanto separarmi da lei, e non la rividi mai più. Avemmo un bel vento dell’est che soffiò il terzo giorno che eravamo ai Downs, e di lì salpammo il dieci aprile. Non toccammo più terra altrove, finché, spinta sulla costa dell’Irlanda da un vento fortissimo, la nave andò a gettar l’ancora in una piccola baia presso la foce di un fiume, di cui non ricordo il nome, ma dicevano che il fiume arrivava da Limerick e che era il fiume più grande dell’Irlanda.

Lì, poiché ci bloccò per un certo tempo il maltempo, il capitano, che era sempre lo stesso tipo cortese e simpatico di prima, ci fece di nuovo scendere a terra con lui. Lo fece veramente per usare una gentilezza a mio marito, che soffriva molto il mare, e stava male specialmente quando il vento era forte. Comprammo lì una scorta di altre provviste fresche, specialmente manzo, maiale, montone e pollame, e il capitano si fermò per far mettere sotto sale cinque o sei barili di carne di manzo per aumentare le scorte di bordo. Non eravamo ancora lì da cinque giorni, che il vento si calmò, e venne il vento buono, issammo di nuovo le vele e in quarantadue giorni arrivammo sani e salvi alle coste della Virginia.

Quando accostammo alla spiaggia, il capitano mi chiamò, e disse d’aver capito dai miei discorsi che avevo in quel luogo dei parenti, e che c’ero già stata prima, e supponeva perciò che conoscessi quale era all’arrivo il trattamento riservato di solito ai forzati deportati. Io risposi che non lo sapevo, e, quanto al fatto d’aver lì dei parenti, poteva star certo che non mi sarei fatta riconoscere da nessuno di loro mentre ero nella condizione della carcerata; per il resto, ci rimettevamo completamente all’assistenza che lui aveva cortesemente promesso di darci. Lui mi disse che dovevo trovare qualcuno del posto che ci comprasse come servi, e fosse pronto a rispondere di noi al governatore del paese, se mai ci cercavano. Io dissi che avremmo fatto come lui ci indicava; lui fece perciò venire un piantatore a trattar con lui, come se fosse, l’acquisto di quei due servi, cioè mio marito e io, e lì noi fummo formalmente venduti a quello, e scendemmo a terra con lui. Il capitano sbarcò con noi e ci condusse ad una certa casa, che non so se fosse o no una taverna, dove comunque ci facemmo preparare un gran catino di punch al rum e altre cose, e facemmo baldoria. Poco dopo il piantatore ci rilasciò un certificato di riscatto, e una dichiarazione che l’avevamo servito fedelmente, e noi fummo liberi il mattino seguente d’andare dove ci pareva.

Per questa parte dei suoi servigi il capitano ci domandò seimila misure di tabacco, che disse di dovere al suo armatore, e che noi subito comprammo per lui, e di ciò fu più che soddisfatto.

Non è opportuno che io mi spinga a dire in particolare in quale parte della colonia della Virginia ci stabilimmo, per diverse ragioni; sarà sufficiente dire che entrammo nel grande fiume Potomac, dov’era diretta la nave; e lì avremmo dapprima voluto stabilirci, anche se poi cambiammo idea.

La prima cosa di una certa importanza che feci, dopo avere fatto sbarcare tutte le nostre mercanzie e averle fatte mettere in un deposito o magazzino, che, insieme a un alloggio, prendemmo in affitto nel piccolo posto o villaggio dove sbarcammo — ripeto, la prima cosa fu chiedere informazioni di mia madre e di mio fratello (il fatale personaggio che avevo preso per marito, come ho già diffusamente raccontato). Una piccola indagine mi condusse ad apprendere che la signora…, e cioè mia madre, era morta; mio fratello (ovvero marito) era vivo, cosa che confesso non fui lieta di sapere; ma quel che era peggio appresi che se ne era andato dalla piantagione dove prima viveva e dove ero vissuta io con lui, e abitava adesso con uno dei figli in una piantagione proprio vicinissima al luogo dove eravamo sbarcati noi e avevamo preso in affitto il magazzino.

Io rimasi dapprima molto stupita, ma siccome potevo esser certa che non era in grado di riconoscermi, non solo fui tranquillissima, ma mi venne una gran voglia di rivederlo, se era possibile, senza che mi vedesse lui. A questo scopo scovai, informandomi, la piantagione dove lui stava, e, in compagnia di una donna del luogo che presi per assistermi, una di quelle che si chiamano tuttofare, me ne andai a spasso da quelle parti come se volessi soltanto vedere la campagna e dare un’occhiata in giro. Alla fine, arrivai tanto vicina da vedere la casa dove abitavano. Domandai alla donna di chi era quella piantagione; lei disse che apparteneva al tale, e dando un’occhiata sulla nostra destra, “Eccolo lì,” dice, “il signore che è proprietario della piantagione, e con lui c’è il padre.”

“Quali sono i loro nomi di battesimo?” dissi io.

“Quello del vecchio non lo so,” disse lei, “ma quello del figlio è Humphry; e mi pare,” dice, “che si chiami così anche il padre.”

Figuratevi, se potete, quale confuso miscuglio di gioia e di spavento si impadronì dell’animo mio, perché immediatamente compresi che quello non era altri che mio figlio, vicino a quel padre che la donna mi mostrava, e che era mio fratello. Non avevo maschera, ma mi abbassai tanto il cappuccio sul volto da poter star certa che, dopo oltre vent’anni d’assenza, e per di più non aspettandosi certo di vedermi in quella parte del mondo, non mi riconoscesse. Ma non c’era bisogno di tante precauzioni, perché il vecchio signore era diventato di corta vista per una malattia che gli era venuta agli occhi, e ci vedeva appena tanto da camminare senza sbatter contro gli alberi o cadere nei fossi. La donna che era con me lo aveva detto per pura combinazione, senza sapere com’era importante per me.

Come s’avvicinavano a noi io dissi: “Vi conosce, signora Owen?” (così si chiamava quella).

“Sì,” disse lei, “mi conosce se mi sente parlare, ma non ci vede abbastanza da riconoscere né me né altri.” E mi raccontò la storia della sua vista come ho riferito. Questo mi rassicurò, e perciò, riaperto il cappuccio, li lasciai passarmi accanto.

Era tremendo per una madre vedere a quel modo il proprio figlio, un giovine signore bello e prestante, in fiorente condizione, e non potersi azzardare a farsi riconoscere né a interessarsi di lui. Consideri ciò ogni madre che legge, e pensi quale angoscia mi dovette occupare l’animo; qual desiderio avevo di abbracciarlo e di piangergli addosso e in qual modo mi parve di sentirmi rivoltare le viscere dentro: da torcermi le interiora, e non sapevo che fare, come neppure adesso so esprimere la sofferenza che provai! Quando lui si allontanò da me, io restai fissa e tremante, a guardarlo fin quando potei vederlo; poi mi stesi sull’erba, in un posto che avevo notato, finsi di sdraiarmi per riposarmi, ma, volgendo le spalle a quella donna, e tenendo la faccia in terra, piansi, e baciai il suolo dove aveva posato il piede lui.

Non riuscii a nascondere a quella donna il mio turbamento, tanto che lei se ne accorse e pensò che mi sentissi male, e io fui costretta a fingere che fosse vero; al che, lei mi forzò ad alzarmi perché il terreno era umido e pericoloso, e io così feci, e ce ne andammo via.

Sulla via del ritorno, continuando io a parlare di quel signore e del figlio, ebbi un altro motivo di dispiacere. La donna incominciò, come se volesse raccontarmi la storia per divertirmi: “Circola,” dice, “una storia molto curiosa, dalle parti dove abitava prima quel signore.”

“Di che si tratta?” io dissi.

“Ecco,” dice, “che il vecchio, andato in Inghilterra quand’era giovanotto, s’innamorò di una giovane, una delle donne più belle che si siano mai viste, la sposò, e la condusse qui da sua madre che allora era viva. Visse diversi anni con lei,” continuò, “ed ebbe da lei parecchi figli, uno dei quali è il signore che adesso era con lui; ma, dopo qualche tempo, quando la vecchia signora, la madre, parlò alla nuora di certe cose che la riguardavano di quando era stata in Inghilterra, e della sua vita in Inghilterra, che era stata piuttosto cattiva, la nuora incominciò a sentirsi stupita e turbata; e, a farla breve, andando più a fondo, si scoperse in modo innegabile che la vecchia era la madre di lei e, dì conseguenza, suo figlio era il fratello della propria moglie, il che riempì d’orrore tutta la famiglia, e li gettò in tale costernazione da condurli quasi alla rovina. La giovane donna non volle più vivere con lui; il figlio, fratello e marito, per qualche tempo diventò matto; alla fine, la giovane se ne andò in Inghilterra, e non se ne è saputo più niente.”

È facile capire quanto terribilmente mi colpisse quel racconto ma non è possibile descrivere la natura del mio turbamento. Mi mostrai meravigliata da quella storia, e feci mille domande sui particolari, dei quali mi accorsi che era perfettamente informata. Alla fine cominciai ad informarmi delle condizioni della famiglia, come la vecchia signora, cioè mia madre, era morta, e a chi aveva lasciato quel che possedeva; mia madre, infatti, mi aveva promesso con la massima solennità che, morendo, avrebbe fatto qualcosa per me e mi avrebbe lasciato tanto da fare in modo che, se vivevo, avrei potuto prima o poi entrarne in possesso senza che suo figlio, ovvero il mio fratello e marito, potesse impedirmelo. La donna mi disse che non sapeva esattamente che cosa era stato disposto, ma le avevano raccontato che mia madre aveva lasciato una somma di denaro, e ne aveva legato alla piantagione il pagamento, perché andasse alla figlia se se ne avevan notizie, sia in Inghilterra che altrove; e il mandato era stato affidato al figlio, cioè alla persona che avevamo visto con suo padre.

Era quella una notizia troppo bella per prenderla alla leggera, e potete ben immaginare che mi fece venire in mente mille idee, che passi compiere, come, quando e in che modo farmi conoscere, e anche se farmi conoscere oppure no.

Era quello un imbarazzo dal quale non avevo capacità sufficiente per uscirne, né sapevo che strada scegliere. Mi occupava la mente giorno e notte. Non riuscivo a dormire né a conversare, tanto che mio marito se ne accorse, mi domandò che cosa mi angustiasse, si sforzò di distrarmi, ma fu tutto inutile. Insistette che gli dicessi che cosa mi turbava, ma io tenni duro finché, siccome non faceva che insistere, mi vidi obbligata a mettere in piedi una storia, che tuttavia si fondava su qualcosa di vero. Gli dissi che ero preoccupata perché mi rendevo conto che dovevamo levare le tende e cambiare i nostri piani di sistemazione, dato che capivo che mi potevan riconoscere se mi fermavo in quella parte del paese; infatti, dopo la morte di mia madre, diversi miei parenti eran venuti in quella zona dove stavamo ora noi, e io mi vedevo costretta o a rivelarmi, cosa che nella nostra situazione non era opportuna per molti motivi, o ad andarmene; e non sapevo che cosa fare, ed era questa la ragione per cui ero così triste e pensierosa.

Lui, in questo, fu d’accordo con me, che cioè non era affatto opportuno che nella situazione in cui ci trovavamo io mi facessi conoscere; e, di conseguenza, disse d’essere disposto a trasferirsi in qualunque altra parte del paese, o anche in un altro paese se a me pareva il caso. Ma io avevo presente un’altra difficoltà, cioè che se mi trasferivo in un’altra colonia mi toglievo per sempre la possibilità di fare una seria ricerca di quel che mia madre mi aveva lasciato. Inoltre, non potevo nemmeno pensare di svelare al mio nuovo marito il segreto del mio precedente matrimonio; non mi pareva una storia che si potesse raccontare, né sapevo prevedere le conseguenze; ed era impossibile svolgere la ricerca, andando fino in fondo, senza far sapere a tutti quanti non solo chi ero stata, ma anche che cosa ero adesso.

In quell’imbarazzo restai per parecchio tempo, e ciò rese molto inquieto il mio sposo; mi vedeva infatti preoccupata, e pensava però che io non fossi sincera con lui e che non lo mettessi interamente a parte della mia angustia; diceva spesso che si domandava che cosa avesse fatto lui perché io non dovessi avere fiducia in lui per qualsiasi cosa, specie se si trattava di cose spiacevoli e dolorose. La verità è che sarebbe stato giusto fargli completa fiducia perché non c’era uomo che lo meritasse di più da parte di una moglie; ma era quella una cosa che io capii di non potergli rivelare, e tuttavia siccome non avevo nessuno a cui raccontarne anche solo una parte, il peso era troppo grave per l’anima mia; infatti, dite pure quanto vi pare che il nostro sesso non sa mantenere un segreto, la mia vita secondo me è una chiara dimostrazione del contrario; ma, si tratti del nostro sesso o del sesso maschile, un segreto di una certa importanza dovrebbe sempre avere un confidente, un amico del cuore, qualcuno cui comunicarne la gioia o il dolore a seconda dei casi, altrimenti peserà il doppio sull’animo e potrà anche diventare intollerabile; e di quanto ciò sia vero chiamo a testimone il genere umano.

Ed è questa la ragione per cui molte volte sia uomini che donne, e spesso uomini per altri versi di grandi e ottime qualità, si sono però trovati deboli a quel riguardo, e non sono stati capaci di sopportare il peso di una gioia segreta o di un segreto dolore, ma sono stati costretti a svelarlo, anche soltanto per sfogarsi, e per liberare l’animo oppresso dai pesi che vi gravavano sopra. Né era questo un segno di pazzia o di sconsideratezza, bensì una logica conseguenza del fatto; e quelle persone, avessero pure continuato a lottare contro la loro oppressione, certamente avrebbero parlato durante il sonno, e avrebbero svelato il segreto, fosse pur stato di fatale natura, senza riguardo alla persona a cui veniva esposto. Questo bisogno naturale è cosa che spesso agisce con tale forza nell’animo di coloro che sono colpevoli di atroci misfatti, specialmente di omicidi segretamente commessi, da costringerli a svelarli, anche se ne consegue necessariamente la loro rovina. Ora, anche se può esser vero che spetta alla giustizia divina la gloria di tutte quelle scoperte e di tutte quelle confessioni, è però altrettanto certo che la Provvidenza, la quale di solito agisce con i mezzi della natura, si serve in questo caso delle medesime cause naturali per produrre casi straordinari.

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