Moll Flanders (Collins Classics) (69 page)

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Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Ma proseguo col mio racconto. La mattina dopo, vi fu nella prigione una scena davvero molto triste. Il primo saluto che ebbi al mattino furono i rintocchi a morto della grande campana del Santo Sepolcro, come la chiamano, che annunciava il giorno. Appena quella incominciò a suonare a morto, orribili pianti e lamenti si udirono giungere dall’antro dei condannati a morte, dove si trovavano sei disgraziati che quel giorno dovevano andare alla forca, chi per un delitto, chi per un altro, e due per omicidio.

A quello fece seguito un clamore confuso nell’edificio, fra carcerati d’ogni tipo, che esprimevano il loro intenso dolore per quelle povere creature mandate a morte, ma in maniera molto diversa l’uno dall’altro. Chi piangeva per loro; chi strillava e augurava loro il buon viaggio; chi imprecava e malediceva quelli che li avevano portati a ciò, vale a dire i testimoni e gli accusatori; molti li commiseravano; e pochi altri, ma proprio pochi, pregavano per loro.

Non rimaneva quasi margine per quel raccoglimento dello spirito che mi era necessario per benedire la misericordiosa Provvidenza che mi aveva, per così dire, strappata dalle fauci della rovina. Rimasi attonita e in silenzio, sopraffatta dalla situazione, incapace di esprimere quel che provavo; infatti, in tali casi, i moti dell’animo sono così convulsi, e cosiffatti, da non trovare un corso regolare.

In tutto quel tempo, le povere creature condannate si preparavano a morire, e il cosiddetto cappellano si dava da fare con loro, per ottenere che si rassegnassero alla condanna; e intanto io fui colta da un attacco di brividi, come se fossi io a trovarmi al posto loro, dove del resto fino al giorno prima ero stata sicura di trovarmi; fui sconvolta così violentemente da quell’attacco improvviso, che tremai come colta da un accesso di febbre, e non riuscivo a parlare, ero come ammattita. Appena quelli furono saliti tutti sui carri e andati, cosa che tuttavia io non ebbi coraggio bastante per guardare; appena, ripeto, se ne furono andati via, io fui presa da un accesso incontrollabile di pianto, senza motivo, ma così violento, e così prolungato che non sapevo più che fare, né come smettere, né come finirla, per quanti sforzi e per quanta buona volontà ci mettessi.

Quella crisi di pianto mi durò quasi due ore, e mi tenne occupata, credo, finché quelli ebbero tutti lasciato questo mondo, e allora seguì una gioia di natura umile, penitente, intensa; era un vero trasporto, un impeto di gioia e di gratitudine, e tuttavia sempre impossibile da tradurre in parole, e in quello stato rimasi per quasi tutta la giornata.

A sera, il buon prete venne di nuovo a trovarmi, e si rimise a farmi i suoi soliti bei discorsi. Si congratulò con me perché m’era ancora stato concesso tempo di pentirmi, mentre la storia di quei sei disgraziati era chiusa, e ormai erano al di là di ogni possibilità di salvezza; insistette vivamente perché io conservassi verso le cose della vita gli stessi sentimenti che avevo provato quando mi ero vista davanti l’eternità; e, in conclusione, mi disse che non dovevo pensare che tutto fosse finito, una proroga non era la grazia, e lui non poteva ancora dire quali sarebbero stati gli sviluppi; però, una grazia l’avevo avuta, e cioè avevo guadagnato tempo, ed era compito mio far di quel tempo buon uso.

Quel discorso, benché così appropriato, mi lasciò in cuore una grande tristezza, perché mi pareva che ancora la vicenda fosse indirizzata ad un finale tragico, anche se lui non lo dava per certo; e per quella volta, in verità, io non gli domandai nulla in proposito, perché lui aveva detto che avrebbe fatto il possibile per condurre la cosa a buon fine, e che sperava di riuscirci, ma mi avvisò di non sentirmi troppo sicura; e il seguito dimostrò che aveva ragione.

Fu un paio di settimane dopo ciò, che io ebbi qualche ragionevole timore d’essere compresa nell’ordine di morte della sessione seguente; e non fu senza grande difficoltà, e senza infine un’umile domanda di deportazione, che riuscii a scansarla, tanto male mi trovavo messa a motivo della mia fama, e tanto pesante era la mia infelice notorietà di vecchia delinquente; anche se in ciò, a rigore, mi facevano torto, perché io a rigor di legge non ero affatto una vecchia delinquente, qualunque opinione avessero di me i giudici, perché mai ero comparsa prima a loro in un processo; sicché i giudici non potettero accusarmi di essere una vecchia delinquente, però l’accusa riuscì a presentare il mio caso come volle.

Avevo adesso la sicurezza di aver salva la vita, a condizione d’essere deportata, condizione, per la verità, molto dura per sé, ma in fondo non troppo dura al paragone; e di conseguenza io non farò nessun commento su quella sentenza, né sulla scelta davanti alla quale mi trovai. Piuttosto che la morte, si sceglie sempre qualsiasi altra cosa, specialmente quando, com’era il caso mio, dall’altra parte ci aspetta una prospettiva non di tutto riposo.

Il buon prete, il cui interessamento, benché lui mi fosse estraneo, m’era valso la proroga, si dolse sinceramente di quegli sviluppi. Aveva nutrito la speranza, disse, che io terminassi i miei giorni sotto l’influsso dei buoni insegnamenti, sì da non dimenticare le angosce trascorse, e da non essere di nuovo buttata in mezzo a una marmaglia sciagurata, quale è in genere la gente che vien spedita così in esilio, ambiente dove, come disse lui, avrei avuto bisogno di un aiuto veramente non comune della grazia di Dio per non ritornare cattiva come prima.

Non ho nominato per parecchio tempo la mia governante, che per la gran parte di quel tempo, anche se non per tutto, era stata molto gravemente ammalata, e poiché era giunta vicina a morte per la malattia come c’ero giunta io per la condanna, era diventata una gran penitente; non l’ho nominata, ripeto, perché in tutto quel tempo non la vidi; ma, poiché si andava rimettendo ora in salute e ricominciava ad uscire, venne a trovarmi.

Le raccontai in che stato mi trovavo, e da qual vario flusso e riflusso di paure e di speranze ero stata travolta; le narrai com’ero scampata, e a quali condizioni; e lei si trovò presente quando il prete espresse il suo timore che io mi dessi di nuovo al male ricadendo in mezzo a una compagnia sciagurata come in genere è quella dei deportati. Anch’io per la verità ci pensavo con mestizia, perché sapevo che bande spaventose mandano sempre via insieme, e dissi alla mia governante che i timori del bravo prete non erano infondati.

“Bene, bene,” dice lei, “ma spero che non ti lascerai tentare da esempi tanto orribili.”

E, appena se ne fu andato il prete, mi disse che non voleva scoraggiarmi perché forse si potevano trovare il mezzo e il modo di aiutarmi a cavarmela per conto mio, diversamente, e di questo mi avrebbe riparlato.

Io la guardai con attenzione, e mi sembrò che avesse un’aria più allegra del solito, e mi feci immediatamente mille idee sul fatto di tornare in libertà; ma non riuscivo assolutamente a immaginare in che modo; né a figurarmene uno verosimile; la cosa però mi preoccupava troppo perché potessi lasciarla andar via senza darmi una spiegazione, che a lei invece non andava di darmi, e tuttavia prevalse la mia insistenza, e, mentre ancora io insistevo, lei mi rispose in poche parole così: “Allora, hai del denaro, no? Hai mai sentito in vita tua che qualcuno sia stato deportato quando aveva un centinaio di sterline in tasca? Credi a me, bambina,” dice.

Io capii subito quel che voleva dire, ma le dissi che lasciavo tutto a lei da fare, per me non vedevo speranza al di fuori di una rigida esecuzione dell’ordine, e, siccome si trattava di una severità che veniva considerata misericordia, non v’era dubbio che sarebbe stata rigidamente osservata. Lei si limitò a dire: “Tenteremo quel che si può fare.” E così ci separammo quella sera.

Rimasi in carcere per quasi quindici settimane dopo la firma dell’ordine di deportazione. Per qual motivo non so, ma, alla fine, passato quel tempo, fui messa a bordo di una nave sul Tamigi, insieme a una banda di altri tredici personaggi, i più duri e sciagurati che mai Newgate avesse fabbricato ai miei tempi; e bisognerebbe mettersi a raccontare una storia molto più lunga di questa per descrivere il livello di insolenza e di temeraria ribalderia al quale quei tredici arrivarono, e il modo in cui si comportarono durante il viaggio; di questo possiedo una divertentissima relazione, di cui il capitano della nave che li portava mi dette le bozze, e che dette l’incarico al suo secondo di scrivere.

Può sembrare che non valga la pena di addentrarsi nel racconto di tutti i piccoli episodi che mi capitarono in quell’intermezzo delle mie avventure; voglio dire, fra l’ordine definitivo della mia deportazione e il momento del mio imbarco sulla nave; e io son troppo prossima alla fine del mio racconto per trovare lo spazio; ma una cosa che riguarda me e il mio marito del Lancashire non posso fare a meno di raccontarla.

Costui, come ho già raccontato, era stato trasferito dalla parte comune del carcere al cortile di mezzo, con tre dei suoi compagni, perché ne avevano pescato un altro da aggregare a loro per qualche tempo; lì, per non so quale motivo furono tenuti in custodia senza essere condotti al processo per quasi tre mesi. Pare che trovarono il modo di dar delle mance, o di comprare certi che dovevano venire a testimoniare contro di loro, perché c’era bisogno di prove per condannarli. Dopo qualche incertezza per quella ragione, riuscirono a trovare prove sufficienti contro due di loro, per farli fuori; ma gli altri due, e uno dei due era il mio marito del Lancashire, restarono ancora lì in attesa. Avevano, mi pare, contro ognuno di loro una testimonianza completa, ma siccome la legge faceva stretto obbligo che i testimoni fossero due, non riuscivano a farne nulla. Pare tuttavia che fossero decisi a non lasciare andare i due, sicuri che qualche prova nuova sarebbe saltata fuori; e a questo scopo credo che furon fatte le pubblicazioni, che quei certi prigionieri erano stati presi, e che chi era stato rapinato da loro poteva venire al carcere a vederli.

Io colsi l’occasione per soddisfare la mia curiosità, fingendo di essere stata rapinata sulla diligenza di Dunstable, e di voler vedere i due banditi. Ma, quando arrivai nel cortile di mezzo, mi travestii così bene, e mi camuffai tanto il volto, che lui vide ben poco di me, e di conseguenza non capì chi ero; e quando tornai fuori, dissi a tutti che li conoscevo molto bene.

Immediatamente corse per tutto il carcere la voce che Moll Flanders andava a testimoniare contro uno dei banditi, e che in quel modo io mi scapolavo la condanna alla deportazione.

Quelli lo vennero a sapere, e subito mio marito volle vedere quella signora Flanders che lo conosceva tanto bene e che doveva testimoniare contro di lui; e io ebbi perciò il permesso di andarlo a trovare. Mi vestii con gli abiti migliori con i quali potessi permettermi di apparire in un luogo simile, e andai nel cortile di mezzo, ma per un po’ mi tenni il cappuccio sul volto. Lui sulle prime parlò poco, mi domandò soltanto se lo conoscevo. Io dissi che lo conoscevo sì, e molto bene; ma mi nascondevo il volto, contraffeci anche la voce, in modo che non potesse nemmeno immaginare chi ero. L’avevo conosciuto, dissi, fra Dunstable e Brickhill; ma volgendomi al carceriere che era lì, chiesi se non potevano concedermi di restare sola con lui. Quello disse, certo, certo, come volevo, e molto educatamente si ritirò.

Appena se ne fu andato quello, ed ebbe chiuso la porta, io gettai via il cappuccio, e scoppiando a piangere, “Caro,” dico, “non mi riconosci?” Lui si fece pallido, e restò senza parola, come fulminato, e, incapace di dominare la meraviglia, non riuscì a dire altro che: “Lasciami sedere.” E sedutosi al tavolo posò sul tavolo il gomito, e, reggendosi il capo con la mano, fissò lo sguardo in terra come un idiota. Io, d’altra parte, piangevo così forte, che per un po’ non potei più parlare; ma dopo avere dato un certo sfogo con le lacrime ai miei sentimenti, ripetei le stesse parole: “Caro, non mi riconosci?” Al che lui rispose di sì, e per un po’ non disse altro.

Dopo un certo tempo, ancora meravigliato, alzò gli occhi verso di me e disse: “Come puoi essere così crudele?” Io non capii subito cosa voleva dire; e risposi: “Perché mi chiami crudele? Che cosa ti ho fatto di crudele?”

“Venir qui,” dice lui, “in un posto simile, non è forse un modo di offendermi? Io non ti ho derubata, almeno non per strada.”

Compresi da quello che non sapeva affatto in che miserevole condizione mi trovavo io, e pensava che, venuta a sapere che lui era lì, io fossi venuta a rinfacciargli d’avermi abbandonato. Ma io avevo troppe cose da raccontargli per prendermela, e, in poche parole, gli dissi che ero ben lontana dall’idea di offenderlo, al massimo potevo venire a dolermi con lui; si sarebbe facilmente persuaso che non ci pensavo nemmeno, quando gli avessi detto che stavo peggio di lui, per molti versi. Lui sembrò piuttosto preoccupato dalla affermazione generica che stavo peggio di lui, ma con una specie di sorriso mi guardò un po’ stranito e disse: “Come può essere? Se vedi che sono in catene, a Newgate, con due compagni miei che sono stati già impiccati, come puoi dire che stai peggio di me?”

“Su, caro,” dico io, “ne avremmo per un bel pezzo, se io dovessi raccontarti, e tu stare a sentire, la mia infelice storia; se sei disposto ad ascoltarla, capirai facilmente che sto peggio di te.”

“Ma come è possibile,” dice ancora lui, “se io mi aspetto d’esser sistemato per sempre alla prossima sessione?”

“Sì,” dico io, “è possibilissimo, se ti dico che me m’hanno già sistemata per sempre tre sessioni fa, e sono qui condannata a morte; non sto peggio di te?”

Allora, veramente, lui rimase di nuovo zitto, come ammutolito, e dopo un po’ si alza in piedi.

“Coppia infelice!” dice. “Come può essere ciò possibile?”

Io lo presi per mano. “Su, mio caro,” dissi, “mettiamo pure a confronto le nostre sventure. Io sono carcerata in questa stessa prigione, e in una situazione molto peggiore della tua, e tu ti convincerai che non sono venuta qui ad offenderti, quando saprai i particolari.”

Con ciò, tornammo a sederci insieme, e io gli raccontai la mia storia quanto mi parve opportuno, arrivando infine al fatto che m’ero ridotta in grande povertà, e dipingendomi come caduta in mezzo a una tale compagnia da trovarmi indotta ad alleviare le mie sventure in un modo al quale ero purtroppo non avvezza, e che, compiendo quelli un tentativo a casa di un commerciante, ero stata presa, io che non facevo altro che star ferma sull’uscio perché la cameriera mi aveva tirato dentro; io non avevo rotto nessuna serratura, non avevo portato via niente, e nonostante ciò, ero stata dichiarata colpevole e condannata a morte; ma i giudici, tenendo conto della miseria della mia condizione, avevano provveduto a farmi condonare la pena, a patto che accettassi di essere deportata.

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