Authors: Dante
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
→
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
→
18
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
→
in te magnificenza, in te s’aduna
21
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
→
de l’universo infin qui ha vedute
24
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
27
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
→
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
→
30
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
Ancor ti priego, regina, che puoi
→
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
36
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
39
per li miei prieghi ti chiudon le mani!”
Li occhi da Dio diletti e venerati,
→
fissi ne l’orator, ne dimostraro
42
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
45
per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’ i disii
→
appropinquava, si com’ io dovea,
Bernardo m’accennava, e sorridea,
→
perch’ io guardassi suso; ma io era
→
51
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
→
e più e più intrava per lo raggio
54
de l’alta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
→
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
Qual è colüi che sognando vede,
→
→
→
che dopo ’l sogno la passione impressa
60
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
→
mia visïone, e ancor mi distilla
→
→
63
nel core il dolce che nacque da essa.
O somma luce che tanto ti levi
→
→
da’ concetti mortali, a la mia mente
69
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
72
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
75
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
→
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
→
78
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
81
l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
84
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
→
→
→
legato con amore in un volume,
87
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
90
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
→
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
93
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
→
mirava fissa, immobile e attenta,
→
99
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
→
che volgersi da lei per altro aspetto
102
è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
105
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
→
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
108
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
114
mutandom’ io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
→
de l’alto lume parvermi tre giri
→
117
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
→
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
120
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
→
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
123
è tanto, che non basta a dicer “poco.”
O luce ettema che sola in te sidi,
→
sola t’intendi, e da te intelletta
126
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
→
→
pareva in te come lume reflesso,
129
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
→
mi parve pinta de la nostra effige:
→
132
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
→
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
135
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
→
ma non eran da ciò le proprie penne:
→
se non che la mia mente fu percossa
141
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
→
→
ma già volgeva il mio disio e ’l
velle
,
→
sì come rota ch’igualmente è mossa,
→
1–36.
Dante clearly offers these verses as an introduction to the third and final
cantica
as a whole. So much is dealt with in them, and in precisely such a way as to set
Paradiso
off from the rest of the poem, that it is perhaps worth considering them as a unit before attempting to come to grips with particular lines. One burden of these remarks (and of the specific glosses that follow them) is that Dante is once again (see, e.g.,
Purg
. XXIV.52–54) playing a dangerous game as he addresses his role as poet. He presents himself, if in hidden ways (in modern political parlance, he “preserves deniability”), as being inspired by God to write this part of the poem (a barely hidden claim in the first two canticles as well). At the same time he allows us to believe, if we are uncomfortable with that claim here, that he is only doing what all poets do, invoking deities for poetic inspiration as has been conventional since Homer’s time. And so here we shall find him referring to Apollo (I.13), Mt. Parnassus (I.16), the satyr Marsyas (I.20), and Daphne (in the form of the laurel tree—I.25). Yet all those classicizing gestures do not quite obfuscate the clear postclassical network of the necessary Christian appurtenances of a poem that begins by remembering its culmination and conclusion, the vision of God in the Empyrean.
We are fortunate in the fact that the first dozen of these opening verses are the subject of a commentary written by no less an expert than Dante himself, in his
Epistle to Cangrande
, which now, after the evidence that it was known and extensively cited by Andrea Lancia circa 1345, as Luca Azzetta (Azze.2003.1) has demonstrated, cannot easily be denied its Dantean paternity (and especially not by those for whom a major piece of negative evidence against the authenticity of the document was the complete absence of direct reference to Dante’s authorship in the fourteenth century). Dante himself marks off these thirty-six verses as introductory, referring to the rest of the
cantica
(
Par
. I.37–XXXIII.145) as its
pars executiva
(executive portion), i.e., the narrative (of which he says nothing, if he seems to promise to do so). In fact, his detailed treatment (the
pars executiva
, as it were, of his epistle) is reserved, interestingly enough, only for the first dozen of these three dozen lines, which receive some four pages of analysis (we might reflect that, had the commentator continued at this rate, he would have produced a document of some sixteen hundred pages for
Paradiso
alone). Then the commentator begins to treat his subject at breakneck speed: The last
terzina
of the group (vv. 10–12) receives only a single brief sentence of attention, while the following fifteen verses (13–27) are glossed even more hurriedly.
Except for Scartazzini, a happy and fairly early exception, few exegetes have made wide use of the
Epistle
in their responses to the opening of the
Paradiso
(if Charles Singleton, in his “Special Note” to the canto, and Umberto Bosco/Giovanni Reggio [comm. to vv. 1, 2, 3, 4, 6, 7–9, 12, 13] offer notable exceptions; see also Baldelli [Bald.1993.2]). To do so properly would overburden these pages; therefore, the interested reader is directed to a fuller treatment of this document in the commentary to the opening five tercets of the canto in the Princeton Dante Project (
www.princeton.edu/dante
).
Dante’s practice as composer of prologues to each of his three
cantiche
is diverse, as may be readily observed in the following table:
Paradiso
, it seems clear, required more painstaking justification than anything before it, and this, the fifth of the nine invocations in the poem (see the note to
Inf
. II.7–9) is by far the most elaborate, requiring eight tercets for its development. We shall return to the invocatory portion of the introduction to
Paradiso
shortly; here we may simply observe that the self-reflective poetic gestures made in those eight tercets occupy fully two-thirds of this introductory poetic space.
[return to
English
/
Italian
]