Era un uomo piccolo e sottile con gli occhi dolci e il volto scarno. “Anch'io penso che andandocene perderemmo la faccia per sempre.” Yoshi gli sorrise. Utani gli piaceva; i daimyo del feudo di Watasa erano alleati con i Toranaga fin da prima di Sekigahara.
Poi Yoshi guardò gli altri due che erano entrambi membri del clan Toranaga. Nessuno ricambiò il suo sguardo.
“Adachi-sama?”
Adachi, signore di Mito, un ometto rotondo e nervoso, infine parlò: “Sono d'accordo con Anjo-sama che dovremmo partire, insieme allo shògun naturalmente. Tuttavia sono d'accordo con te che in questo caso, a dispetto di ogni apparenza, potremmo andare incontro a una sconfitta più grande, e quindi voto rispettosamente No”.
Il più anziano del gruppo, Toyama, era un uomo di cinquant'anni con i capelli grigi.
Aveva un imponente doppiomento ed era guercio in seguito a un incidente di caccia, e rispetto alla vita media dei giapponesi era vecchio. Toyama, daimyo di Kii, era il padre del giovane shògun.
“Vivere o morire non ha alcun significato per me, né mi preoccupa la morte di mio figlio, l'attuale shògun, poiché se ne potrà sempre nominare un altro. Ma m'inquieta assai ritirarmi soltanto perchè i gai-jin sono all'ancora nella nostra baia. Voto contro qualsiasi ritirata e a favore di un attacco. Voto perchè ci si diriga sulla costa e, se gli sciacalli vogliono sbarcare, voto perchè si uccidano gli uomini e si distruggano navi, cannoni e fucili.”
“Non disponiamo di abbastanza uomini” rispose Anjo disgustato da quel vecchio e dalla sua passione guerresca che non era mai stata messa alla prova della realtà di una battaglia.
“Quante volte devo dirlo: non disponiamo di un numero sufficiente di uomini per difendere il castello e impedire al nemico di sbarcare in forze. Quante volte devo ripetere che le nostre spie ci hanno riferito che il nemico dispone di duemila soldati armati di fucili sulle navi e all'Insediamento e di altri ventimila a Hong Kong e...”
Infuriato, Yoshi lo interruppe, “Avremmo avuto samurai in abbondanza e daimyo a portata di mano per guidare l'attacco se tu non avessi abrogato la legge del sankin-kotai!”
“Fu per volere dell'imperatore, scritto e presentato da un principe di questa corte. Non potevamo far altro che obbedire. Avresti obbedito anche tu.”
“Sì... se avessi ricevuto il documento! Ma io non l'avrei mai accettato, sarei stato sempre lontano oppure avrei cercato di trattenere il principe o impiegato una qualsiasi delle mille tattiche possibili, o sarei sceso e patti con Sanjiro, istigatore della “richiesta”, oppure ancora avrei chiesto a uno dei nostri sostenitori alla corte di presentare una petizione all'imperatore nella quale si domandava di ritirare il suo appoggio alle richieste” ribattè seccamente Yoshi.
“Qualsiasi petizione dello shògunato dev'essere approvata, è la legge. Controlliamo pur sempre le ricchezze della corte! Tu hai tradito la nostra eredità.”
“Mi chiami traditore!” Sotto gli occhi sbalorditi degli altri tre, Anjo aveva messo mano alla spada.
“Dico che hai consentito a Sanjiro di manovrarti” replicò Yoshi immobile.
Sembrava calmo e sperava che Anjo facesse la prima mossa per poterlo uccidere e farla finita una volta per tutte con le sue manifestazioni di stupidità. “Non esistono precedenti di questo genere: nessuno ha mai contravvenuto alle indicazioni del Legato. E' stato un tradimento.”
“Eccetto le famiglie Toranaga non c'era daimyo che non volesse l'abrogazione! Erano d'accordo, anche la Bakufu e il Roju, e perciò sembrava più prudente accettare la “richiesta” dell'Imperatore piuttosto che spingere tutti i daimyo dalla parte dell'opposizione, riunita intorno a Sanjiro, ai tosa e ai choshu. Saremmo stati completamente isolati. Non è forse vero?” chiese rivolto agli altri. “Non è vero, dunque?”
Utani rispose a bassa voce: “E' certamente vero che io ho votato per il abrogazione, ma adesso penso di aver commesso un errore”.
“Il nostro errore fu di non intercettare Sanjiro e ucciderlo” disse Toyama.
“Era protetto dal mandato imperiale” precisò Anjo.
Toyama digrignò i denti in un sorriso. “Che vuoi dire con questo?”
“Tutti i Satsuma si sarebbero ribellati contro di noi e con diritto, e i tosa e i choshu si sarebbero uniti a loro, col risultato di far scoppiare una guerra civile che non possiamo vincere. Votate! Sì o No?”
“Io voto per l'attacco, soltanto per l'attacco” rispose ostinato il vecchio. “Oggi contro i nemici nella baia e domani contro Yokohama.”
Da lontano giunse il suono stridulo delle cornamuse.
Altre tre lance si stavano dirigendo verso il molo, affollate di highlander che stavano raggiungendo gli altri già raggruppati a riva e intenti a battere sul tamburo e a soffiare nelle cornamuse.
Kilt, colbacchi, tuniche scarlatte, fucili.
Una quarta imbarcazione con a bordo sir William, Tyrer, Lun e i tre uomini al suo servizio le seguiva.
Mentre sbarcavano il capitano responsabile del distaccamento salutò.
“Tutto è pronto, signore. Abbiamo messo pattuglie a guardia del molo e delle zone circostanti. La marina ci darà il cambio entro un'ora.”
“Bene. Allora procediamo verso la Legazione.”
Sir William e il suo gruppo salirono sulla carrozza che era stata faticosamente trasportata fin li.
La seguivano venti soldati scelti della marina. Il capitano diede l'ordine e il corteo parti con le bandiere al vento e i soldati tutt'intorno, preceduti da uno splendente tambur maggiore alto più di due metri, e i portatori cinesi di Yokohama in retroguardia che, infelici, trascinavano i carretti carichi di bagagli.
Le stradine strette costeggiate da negozietti e case a un solo piano erano misteriosamente vuote. Vuoto era anche il posto di guardia al primo ponte di legno, sopra un canale maleodorante. E anche il Posto di guardia successivo.
Un cane si precipitò ringhiando da un vicolo scomparve guaendo colpito da un calcio che lo fece volare per dieci metri.
Altre strade e ponti vuoti. Il corteo procedeva lentamente a causa dell'ingombrante carrozza che cercava di avanzare lungo strade concepite soltanto per i pedoni.
La carrozza si fermò un'altra volta.
“Non sarebbe meglio se camminassimo, signore?” chiese Tyrer.
“No, per Dio, arriverò in carrozza!” Sir William era furente con se stesso. Aveva dimenticato che le strade giapponesi potevano essere così strette. Aveva voluto arrivare in carrozza soltanto perchè le ruote erano proibite, per provocare la Bakufu.
“Capitano, se per passare dovete abbattere qualche casa non esitate” gridò.
Non fu necessario.
I soldati della marina, avvezzi a maneggiare i cannoni negli angusti spazi sotto coperta, si diedero a spingere e tirare e imprecando sollevavano di peso la carrozza facendole superare gli ostacoli che incontravano.
La Legazione sorgeva su una leggera altura nel sobborgo di Gotenyama, accanto a un tempio buddista.
Era una struttura a due piani, in stile britannico e circondata da un'alta cancellata i cui lavori di edificazione erano cominciati tre mesi dopo la firma del Trattato.
La costruzione del palazzo tuttavia era proceduta con terribile lentezza; in parte perchè gli inglesi, volendo aderire in tutto al progetto originale, avevano utilizzato materiali da costruzione, vetro per le finestre e mattoni per le fondamenta, fatti arrivare appositamente da Londra, Hong Kong o Shanghai, e ignorando lo stile architettonico del Giappone le cui case, senza fondamenta, erano di legno e carta, volutamente leggere e facili da erigere o riparare o addirittura ricostruire in caso di terremoti. L'altra causa dei ritardi era invece imputabile alla Bakufu che, riluttante all'idea di un edificio straniero al di fuori dei confini di Yokohama, poneva ogni sorta di ostacolo al proseguimento dei lavori.
Benché ancora incompleto, l'edificio della Legazione comunque venne occupato e la bandiera britannica fu alzata quotidianamente sul pennone alto che tanto faceva imbestialire gli ufficiali della Bakufu e gli abitanti di Edo.
Il predecessore di sir William l'aveva abbandonata l'anno prima, quando i ronin nottetempo avevano assassinato i due uomini a guardia della sua camera da letto facendo infiammare gli animi degli inglesi ma esultare quelli dei giapponesi.
“Ci dispiace tanto... “ aveva detto la Bakufu.
Ma quel luogo, dato in affitto agli inglesi a tempo indeterminato, fu un errore, infatti da sempre i giapponesi avevano fatto il possibile per rientrarne in possesso, era stato scelto con grande oculatezza. Dal cortile anteriore si vedevano la città e il mare dove la flotta era all'ancora in posizione di battaglia.
Il corteo arrivò a riprendere possesso del luogo con grande sfarzo militare perchè sir William aveva deciso di trascorrervi la notte per prepararsi all'incontro dell'indomani. “Che c'è?” chiese al capitano che si era portato una mano al berretto.
“Faccio issare la bandiera, signore? Occupiamo la Legazione?”
“Immediatamente. Attenetevi al piano, fate un gran fracasso, tamburi, cornamuse, eccetera, poi fate suonare la banda mentre marcia su e giù.”
“Sissignore.” Il capitano si diresse verso il pennone e al suono delle cornamuse e tra i rulli di tamburo la bandiera britannica tornò a svettare sull'altura. Dall'ammiraglia venne sparata una bordata in risposta, sir William alzò il cappello e diresse tre Viva la Regina. “Bene. Così va meglio. Lun!”
“Sì, signore?”
“Aspetta un minuto, tu non sei Lun!”
“Io Lun numero due, padrone, Lun numero uno viene sera.”
“D'accordo, Lun numero due. Cena al tramonto, sistema tutto per bene anche per gli altri padroni.”
Lun numero due annuì con amarezza. Detestava trovarsi in quel luogo così isolato e pieno di pericoli, circondato da migliaia di occhi ostili che i barbari sembravano non notare nemmeno.
Non li capirò mai, pensò.
Quella notte Tyrer non riusciva a dormire.
Sdraiato sul pagliericcio sistemato sopra un tappeto, si rigirava senza sosta agitato dalle preoccupazioni.
Ripensava a Londra e ad Angélique, all'attacco subito e all'incontro che avrebbe avuto luogo l'indomani, al braccio ancora dolorante e a sir William che era stato irascibile tutto il giorno. L'aria era fredda nella piccola stanza, e lasciava presagire l'annuncio dell'inverno.
Le finestre si affacciavano sui giardini posteriori dell'edificio, estesi e grandi e dalla fitta vegetazione.
Nella stanza c'era un altro materasso per il capitano ancora impegnato dall'ultima ronda.
La città era immersa in un silenzio rotto soltanto dal latrato dei cani affamati e dal miagolio di qualche gatto randagio. Di tanto in tanto giungeva fino a lui il suono lontano delle campane delle navi che battevano l'ora e l'eco delle risate gutturali dei soldati. Quei suoni lo rassicuravano; i soldati sono straordinari, pensò, qui siamo al sicuro.
Incapace di prendere sonno, si alzò e si diresse sbadigliando alla finestra, l'aprì e si appoggiò al davanzale.
Fuori solo tenebre e nubi fitte.
Nessun'ombra nei giardini pattugliati dagli highlander che illuminavano i sentieri con le lampade a olio.
Al di là dello steccato intravide la sagoma incerta di un tempio buddista. Al tramonto, quando le cornamuse avevano terminato di suonare la ritirata e la bandiera era stata ammainata come di rito, il pesante cancello sbarrato e suonate le loro campane, i monaci avevano riempito la notte con uno strano canto che non aveva mai fine: “Ommm mahnee padmeee hummmmm...”.
Aveva avuto un effetto benefico sui nervi di Tyrer, altri nella Legazione avevano invece fischiato e gridato ai monaci di tacere.
Accese la candela che qualcuno gli aveva preparato accanto al letto.
Il suo orologio da tasca segnava le due e trenta.
Continuando a sbadigliare rimboccò la coperta, si sedette appoggiando la schiena contro il cuscino durissimo e aprì la sua piccola valigetta da diplomatico con le iniziali in rilievo, un regalo d'addio della madre, estraendone un taccuino.
Scorrendo la colonna di parole e frasi giapponesi che aveva trascritto foneticamente, ripassò le traduzioni in inglese.
Poi ripeté l'esercizio partendo dal termine inglese e pronunciando a voce alta la traduzione in giapponese e con grande soddisfazione scoprì di non aver fatto errori.
“Ma sono poche parole e non so nemmeno se le pronuncio correttamente, c'è così poco tempo per studiare e non ho ancora incominciato a scrivere.” A Kanagawa aveva chiesto a Babcott qualche consiglio su come scovare un buon insegnante. “Perché non chiedere al padre?” gli aveva risposto il dottore.
E così Tyrer aveva fatto.
“Certamente, ragazzo mio. Ma questa settimana non è possibile, cosa ne diresti del mese prossimo? Vuoi un altro sherry?”
Mio Dio, quanto si beve da queste parti! Cominciano a bere al mattino e sono tutti ubriachi entro l'ora di pranzo. Il reverendo non mi sarà di nessuna utilità e per di più puzza da far girar la testa. Che colpo di fortuna invece aver incontrato André Poncin!
Il giorno precedente aveva incontrato il francese in uno dei negozietti del villaggio che vendeva i generi di prima necessità per gli stranieri. I negozietti erano tutti concentrati sulla strada principale, dietro High Street, che partendo dal mare collegava l'Insediamento con la Città Ubriaca e dove tutti sembravano vendere le stesse mercanzie locali: cibo e attrezzature per la pesca, spade da due soldi e curiosità.
Tyrer stava appunto curiosando in uno scaffale di libri giapponesi fatti con carta di ottima qualità e molto spesso corredati di belle stampe e incisioni in rilievo, e cercava disperatamente di comunicare i propri desideri al sorridente proprietario.
“Pardon, monsieur” aveva detto lo straniero, “ma dovete spiegare a quest'uomo che tipo di libro cercate.”
Aveva una trentina d'anni, gli occhi marroni e i capelli castani e ondulati, un bel naso gallico e vestiti eleganti.
“Dovete dire: watashi hoshii hon, Ing'erish Nihongo, dozo, sto cercando un libro con il testo in inglese e giapponese.”
Sorrise.
“Ovviamente libri del genere non esistono da queste parti, anche se con un'ottima imitazione della sincerità questo tizio vi risponderà: Ah so desu ka, gomen nasai, eccetera cioè: Oh, molto spiacente, oggi non ne ho ma se tornate domani... Ovviamente non dice il vero, o meglio vi dice ciò che secondo lui voi volete sentire, una consuetudine giapponese dalla quale è impossibile prescindere.