Yoshi sputò con rabbia.
“Anjo è soltanto il primo passo.”
Più i due uomini consideravano le implicazioni e le conseguenze di un simile cambiamento di scena e più mettevano a fuoco con precisione i pericoli delle innumerevoli trappole che venivano loro tese. Sempre con voce roca Ogama disse: “I festeggiamenti proseguirebbero per settimane, dovremmo offrire banchetti alla Corte e a noi stessi. Veleni lenti potrebbero facilmente essere versati nei cibi”.
Yoshi rabbrividì. Aveva sempre avuto una profonda paura per i veleni.
Uno zio che amava molto era morto tra atroci sofferenze, per “cause naturali” secondo il referto del dottore, ma più probabilmente per avvelenamento.
Era stato una spina nel fianco di un ostile membro della Bakufu e la sua morte era stata una comoda soluzione per tutti. E anche la morte dello shògun che aveva preceduto Nobusada, proprio l'anno in cui Perry era tornato in Giappone, non aveva avuto spiegazione. Un giorno stava benissimo e l'indomani era stecchito, con gran gioia del tairò che lo odiava e che al suo posto voleva una marionetta, Nobusada appunto, da manovrare a suo piacimento.
Si trattava di voci, prove non ce n'erano, ma in Giappone come in Cina il veleno era uno strumento antico.
Yoshi cercava di comportarsi con raziocinio e di pensare che morire avvelenato era solo questione di karma, ma ciò nonostante si serviva soltanto di cuochi fidati e faceva attenzione a non mangiare in luoghi pericolosi. Ma tutto questo non bastava a evitare le crisi di panico che di tanto in tanto lo assalivano.
Ogama battè con violenza un pugno contro il palmo aperto. “Anjo tairò! Non riesco a crederci.”
“Io neppure.” Quando aveva spedito il messaggero a organizzare quell'incontro segreto Yoshi non aveva potuto impedirsi di considerare l'ironia che adesso fossero proprio lui e Ogama a dover lavorare di concerto in nome della sopravvivenza. Nessuno dei due ce l'avrebbe fatta da solo. Per il momento.
“Come mettiamo fine a questa storia? Mi rendo conto che potrei cadere in tentazione.” Ogama sputò disgustato sul tatami.
“Potrebbero indurre in tentazione chiunque, Ogama-dono.”
“Sono come spiriti di lupo, me ne rendo conto. Siamo in trappola.
Se il Divino ci invita, i suoi laidi sgherri ci faranno a pezzi. Riuniamo gli uomini di cui parlavi oppure... convoco Basuhiro, la sua mente è come quella di un serpente!”
“Domani saremo in trappola soltanto se accetteremo l'invito. Suggerisco di lasciare Kyòto questa notte, in segreto. Se non saremo qui... giusto?” Ogama sorrise con aria serafica per un istante poi tornò serio.
Yoshi ne comprese la ragione. “Una simile azione richiede grande fiducia reciproca.”
“Sì, grande. Che cosa suggerisci per non commettere errori?”
“Non posso prevedere tutti i rischi ma di certo è questione di tempo: usciamo alla chetichella da Kyòto questa sera stessa con l'intesa di restarne lontano almeno per venti giorni. Io mi dirigerò senza indugi a Edo dove affronterò, o neutralizzerò, Anjo. E vi resterò fino a quando questa faccenda non sarà sistemata.
Il generale Akeda rimarrà qui e dirà che sono stato costretto a fare immediato ritorno al Dente del Drago perchè un membro della mia famiglia è caduto gravemente malato, ma che mi si aspetta di ritorno al più presto.
Tu vai a Fushimi e trascorri li la notte. Domani al tramonto, quando sarà chiaro a tutti che non c'è alcun modo di recapitarti l'invito perchè nessuno, neppure Basuhiro, conosce il tuo nascondiglio...”
“E' troppo pericoloso non informarlo, comunque va' avanti.”
“Decidi tu a questo proposito. Comunque domani al tramonto tu farai avere un messaggio al principe Fujitaka nel quale lo inviti a un incontro privato che avrà luogo dopodomani mattina, diciamo alle rovine di Monoyama, uno dei luoghi più frequentati e più belli della città dove ti dichiarerai stupito per l'onore rappresentato dall'invito e ti dispiacerai di non essere stato presente per riceverlo.
Nel frattempo lui farà in modo che altri inviti non vengano recapitati durante la tua assenza.
“E quando tornerai?” domanderà lui. Non ne sei sicuro. I gai-jin hanno minacciato uno sbarco imminente a Osaka. Devi andare personalmente ad accertarti della situazione e a organizzare la difesa. Nel frattempo gli farai capire in modo chiaro che sarebbe meglio se non arrivassero altri inviti senza preavviso anche se è con grande umiltà che li accetteresti, eccetera, fino a quando non deciderai di accettarli.” Ogama grugnì. Fissò il tatami sovrappensiero.
Poi disse: “Cosa faranno Sanjiro e Yodo di Tosa? Arriveranno qui in forze, certo, i loro uomini saranno in assetto da cerimonia e non di guerra, ma saranno pur sempre samurai”.
“Dirai a Fujitaka di fare in modo che la consegna dei loro inviti venga rimandata... potrebbe suggerire al Divino che questo solstizio non si presenta sotto buoni auspici.”
“Ottimo suggerimento! Ma se non si lasceranno scoraggiare?”
“Fujitaka farà in modo che ciò non avvenga.”
“Se è così facile perchè non restiamo e ci facciamo consegnare l'invito? Io dico a Fujitaka di suggerire la storia dei cattivi auspici e basta.
I festeggiamenti vengono cancellati, giusto? Sempre che Fujitaka abbia il potere di suggerire e di ottenere qualche risultato.”
“Con Wakura lo può fare certamente. Io credo che a Kyòto l'inganno si respiri persino nell'aria... se restiamo finiremo in una trappola.” Yoshi non aveva altro da aggiungere. Inoltre, che Ogama restasse solo a Kyòto non rientrava nei suoi piani, e poi c'era ancora la questione delle Porte da risolvere.
“Potrei restarmene a Fujimi o a Osaka per una ventina di giorni” riprese Ogama scandendo le parole. “Non posso tornare a Choshu, lascerei i miei... qui resterei esposto a ogni attacco.”
“Da parte di chi? Non da me... siamo alleati. Hiro e Sanjiro non sono a Kyòto. Potresti anche arrivare a Choshu se volessi. Puoi contare su Basuhiro per mantenere salda la tua postazione.”
“Di nessun vassallo ci si può fidare fino a questo punto” rispose Ogama acido. “E che cosa faranno gli shishi intanto?”
“Basuhiro e Akeda continueranno a combatterli, le nostre spie della Bakufu continueranno a stanarli dai loro nascondigli.” Ogama guardò Yoshi con aria minacciosa.
“Più ci penso e meno la cosa mi piace. Troppi pericoli, Yoshidono. Fujitaka mi dirà che anche il tuo invito non è stato consegnato.”
“Assumerai un'aria sorpresa, potrai persino spingerti a dire che quella della malattia di un familiare dev'essere una scusa e che probabilmente mi sono precipitato a Edo per vedere come posso impedire ai gai-jin di mettere in atto la minaccia di marciare su Kyòto, e per accertarmi che se ne vadano da Yokohama.”
I lineamenti del suo volto si indurirono.
“Comunque non se ne andranno.”
“Li manderemo via noi” ribatté Ogama con asprezza.
“A tempo debito, Ogama-dono.” Yoshi sapeva essere ancora più aspro. “Fino ad ora tutto è accaduto come io avevo previsto. Credimi, i gai-jin non si faranno scacciare. Non ancora.”
“Quando allora?”
“Presto. Ma per il momento dobbiamo accantonare questo problema. La cosa più importante ora è proteggere noi stessi; dobbiamo andarcene insieme e insieme fare ritorno in città. E, in segreto, resteremo alleati fino a quando non decideremo formalmente, e da soli, che sarà giunto il momento di cambiare i nostri rapporti.” Ogama rise ma non disse niente. “Terza e ultima cosa: mentre io sono a Edo l'accordo sulle Porte resta valido.”
“La tua mente salta da una parte all'altra come un gatto con delle spine nelle zampe.” Ogama si schiarì la gola e mosse le gambe per trovare una posizione più comoda. “Forse accetto e forse no. E' una faccenda troppo cruciale per prendere una decisione avventata. Devo parlarne con Basuhiro.”
“No. Parlane con me. Posso consigliarti meglio perchè sono più informato sull'argomento e inoltre, cosa importante, in questa faccenda condivido i tuoi interessi e per di più non sono un vassallo bisognoso di compiacerti con piccoli favori.”
“No, solo favori grandi. Come le Porte.” Yoshi rise. “Poca cosa paragonata a quello che mi garantirai e che io garantirò a te quando sarai tairò.”
“Allora comincia a concedermi qualcosa subito: voglio la testa di Sanjiro.” Yoshi lo guardò dissimulando lo stupore. Non aveva dimenticato le parole di Inejin, il locandiere sulla strada per il Dente del Drago e sua spia, a proposito di Ogama e di “Cielo Cremisi”.
Inejin aveva parlato del modo in cui, con Sanjiro a favore o neutrale, Ogama sarebbe riuscito ad avere la meglio sullo shògunato con la tattica tradizionale e tanto amata dai daimyo di un attacco a sorpresa.
“Ti accontenteresti anche delle palle?” chiese Yoshi prima di dare inizio alle spiegazione del piano che andava progettando da mesi.
Ogama cominciò a ridere.
La colonna di guardie si dirigeva verso le baracche della caserma affiancata da un gruppo composto di quattro samurai tra i quali si nascondeva Yoshi, vestito da semplice fante. Benché fossero stati avvertiti di trattarlo come un soldato, gli uomini trovavano difficile non guardarlo di sottecchi di tanto in tanto o non scusarsi quando gli si avvicinavano troppo.
Tra i soldati c'era un informatore shishi di nome Wataki. Non aveva trovato il modo di comunicare ai suoi amici che si sarebbe presentata l'occasione per un'imboscata.
Yoshi era stanco ma soddisfatto. Alla fine Ogama aveva accettato tutte le condizioni e lui poteva quindi lasciare Kyòto con le Porte al sicuro nelle mani dello shògunato che, a sua volta, almeno per il momento, non era più in pericolo.
Per ora, pensò, e spero per un tempo sufficiente. Sto rischiando grosso e il mio piano fa acqua da molte parti, ciò di cui, per fortuna, Ogama non si è accorto. Altrimenti se ne preoccuperebbe. Non importa, di sicuro Ogama progetta di tradirmi. Pazienza, di più non potevo fare, e dovrebbe funzionare. Accettare l'invito era escluso.
Il tempo stava migliorando e in cielo sole e nuvole lottavano per avere la meglio.
Yoshi non se ne accorgeva come non vedeva niente di quanto gli accadeva intorno, intento com'era a mettere a punto i dettagli della partenza: a chi dirlo, come comportarsi con Koiko e il generale Akeda, chi portare con sé. E la sua preoccupazione più grande: sarebbe arrivato in tempo a Edo per salvare il salvabile?
Prima un bagno e un massaggio, le decisioni dopo...
A un tratto, mettendo a fuoco le immagini che vedeva lungo la strada, si rese conto della realtà che lo circondava: la gente, le bancarelle, i pony, le kaga e i palanchini, case e tuguri, bambini, pescivendoli, venditori ambulanti con ogni mercanzia, indovini e scribi, tutta la vita del mercato. Era per lui un'esperienza completamente nuova quella di camminare come un uomo comune tra la folla e cominciò ad apprezzare la diversa prospettiva dalla quale gli era data l'occasione di guardare.
Ben presto si ritrovò a reagire come un semplice uomo di campagna di fronte a immagini, odori e suoni di una città mai vista prima, e avrebbe voluto fermarsi, mescolarsi alla gente, conoscere quegli uomini, sapere che cosa pensavano e facevano e mangiavano e dove dormivano. “Soldato” mormorò al giovane che gli marciava accanto, “dove vai quando sei in libera uscita?”
“I-io, signore?” balbettò il giovanotto lasciando quasi cadere la lancia per lo stupore d'essere stato interpellato da Sua Eccellenza e trattenendo l'impulso di cadere in ginocchio all'istante. “Io, io ... vado a bere, sire.”
“Non chiamarmi sire” sussurrò Yoshi stupefatto per la grande confusione suscitata dalla sua domanda presso tutti i soldati che l'avevano udita. Qualcuno aveva persino perduto il ritmo della marcia, rompendo quasi le fila.
“Comportatevi normalmente. Non guardatemi! Tutti quanti!” I soldati si scusarono e quelli più vicini a lui cercarono di fare come era stato loro ordinato, ma adesso che il principe Yoshi aveva spezzato l'incantesimo dell'invisibilità parlando a uno di loro, l'impresa era quasi impossibile. Il sergente si guardò intorno e gli si avvicinò con apprensione. “Tutto a posto, signore? C'è...”
“Sì, sì, sergente. Torna al tuo posto!” Istintivamente il sergente chinò il capo e obbedì, i soldati ripresero il passo e procedettero verso le baracche, a un centinaio di metri di distanza. Con grande sollievo di Yoshi, la folla attraverso la quale stavano avanzando non si era accorta del leggero trambusto generatosi nella colonna.
Ma non era sfuggito ai due uomini che si trovavano in fondo alla strada. Si trattava della sentinella shishi, Izuru, e del giovane ronin tosa che doveva prenderne il posto, Rushan. Erano entrambi accanto alla bancarella vicina al cancello che conduceva agli alloggi dei Toranaga.
“Sono forse ubriaco, Rushan? Un sergente che si inchina a un soldato semplice. Un sergente?”
“L'ho visto anch'io, Izuru” sussurrò l'altro di rimando. “Guarda il soldato. Ecco, adesso lo vedi bene, quello alto verso il fondo, guarda come porta la lancia. Non è abituato alla lancia.”
“E vero, ma... Che cos'ha che non va?”
“Guarda gli altri come lo tengono d'occhio senza farsi vedere!” Osservarono attentamente il soldato con crescente agitazione man mano che la colonna si avvicinava. Benché armi e uniformi fossero uguali il soldato alto si distingueva dagli altri per passo e portamento, anche se fingeva di trascinarsi come gli altri, e per le sue caratteristiche fisiche.
“E' il principe Yoshi” dissero i due shishi all'unisono, e immediatamente Rushan aggiunse: “E' mio...”.
“No, mio.”
“L'ho visto prima io!” mormorò Rushan eccitato al punto di non riuscire quasi a parlare.
“Tutti e due allora, insieme abbiamo più possibilità di farcela.”
“No, e tieni la voce bassa. Un uomo alla volta ha detto Katsumata, e ci siamo tutti dichiarati d'accordo. E' mio. Fammi il segnale.” Con il cuore che batteva all'impazzata, Rushan si aprì un varco tra la folla del mercato per prendere una posizione migliore dalla quale attaccare.
Venditori e clienti si inchinarono con cortesia scambiandolo per un samurai di basso rango in libera uscita dalla guarnigione e non gli prestarono attenzione. Erano tutti concentrati sulla colonna che si stava avvicinando.
Rushan ora si trovava proprio all'estremità della, carreggiata.
Gettò un'ultima occhiata alla sua preda poi sedette su uno sgabello dando la schiena alla colonna, gli occhi fissi su Izuru, completamente in pace con se stesso. La sua poesia di morte per i genitori si trovava al sicuro nelle mani dello shoya del villaggio a cui l'aveva consegnata anni prima, quando, insieme a dieci altri studenti, si era ribellato.