Virus (33 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Una lacrima gli solcò la guancia. Dopo un po' lei si girò verso di lui e, ancora addormentata, gli baciò il petto nudo. Aveva la labbra tiepide e bagnate. Lui si scostò da lei. Aveva fallito. Non poteva farle del male. La amava troppo.

Il sole si era levato, ma il giorno non rischiarò. Fuori pioveva ancora. Eppure, dalle sei in poi i suoni notturni (
le grida!
) si zittirono. Il datario della sua sveglia lo informò che era domenica. Un'ondata di preoccupazione gli diede un vuoto allo stomaco. Quand'era stato al lavoro l'ultima volta? Giovedì? Potevano licenziarlo per violazione del contratto? Poi si ricordò del virus. E di Lila Schiffer. Era rinchiusa da giorni. In tutto quel caos, qualcuno si era dato la pena di farla uscire? O di darle qualcosa da mangiare? Se avesse tradito un altro paziente, era quasi certo che sarebbe impazzito del tutto. Balzò fuori dal letto, afferrò i primi vestiti a portata di mano, lasciò un biglietto a Meg e partì per l'ospedale a cercare Lila.

Sulle strade era sospesa una fitta nebbia mattutina. Uscendo dal vialetto del garage non notò l'auto della polizia rimasta abbandonata quella notte nel punto assegnato ai gemelli Simpson per tenere d'occhio la casa dei Walker. Uno dei fratelli era stato ucciso, e l'altro contagiato. I gemiti del fratello agonizzante avevano svegliato Maddie da un sonno profondo. Ora le sue ossa costellavano la strada. La Escalade di Fenstad ci passò sopra, e le ridusse in polvere. Pensò di aver preso una buca nell'asfalto, e quello che vide dallo specchietto retrovisore gli parve gesso.

Alla radio nazionale, di Corpus Christi non dissero quasi niente. Invece del solito radiogiornale, il conduttore trasmetteva le telefonate degli ascoltatori. Una donna di Austin raccontò di aver chiamato un'ambulanza per il marito malato, che da un giorno non smetteva di tossire, ma invece dell'ambulanza era arrivato un camion dell'esercito. Lo avevano rinchiuso nel retro insieme agli altri infetti, alcuni dei quali erano già morti. Non sapeva dove lo avessero portato. Ci furono altre chiamate. Fenstad spense la radio e abbassò il finestrino, lasciandosi bagnare la faccia dalla pioggia sottile. Per calmare i nervi si mise a fischiettare
I Just Wasn't Made for These Times
dei Beach Boys, una reazione che lui stesso non capiva se confermasse o confutasse la sua sanità mentale.

Il parcheggio dell'ospedale era tranquillo. Da giovedì sera all'ingresso principale era stato allestito un posto di blocco del Centro Epidemiologico, ma adesso i funzionari se n'erano andati e l'edificio appariva abbandonato. Non c'erano più nemmeno i soldati. Le porte automatiche del reparto di terapia intensiva si aprivano e richiudevano a intervalli, come in attesa di un ospite ritardatario, mentre cadeva una pioggerellina fitta.

Accostò all'ingresso, lasciando acceso il motore. L'edificio era una grande costruzione di parallelepipedi di cemento, culminante in un tetto spiovente e arrotondato. Vi regnava il silenzio di un mausoleo, e lui si chiese quanti infetti fossero morti tra quelle mura. «Non voglio entrare» mormorò mentre i tergicristalli oscillavano sul parabrezza. Gettavano sul suo volto ombre come di risacca su una spiaggia. Mentalmente lui rivide la spruzzata di lentiggini sul naso di Lila Schiffer, e la sua espressione sconfitta quando le aveva fatto portare via i bambini.

Scese dall'auto e si diresse verso le porte elettroniche che occhieggiavano e si aprirono al suo arrivo come se stessero aspettassero da sempre di inghiottirlo.

All'interno, il tanfo di zolfo era pesante. Gli occhi cominciarono a lacrimargli, e un'ondata di nausea lo attraversò come una scossa elettrica. Resistendo al conato, si strappò una manica della camicia e se la legò intorno al naso e alla bocca. Nel salone d'ingresso il neon ronzava, e si sentiva il brusio del generatore. Non c'erano inservienti né infermiere armati di spazzoloni per il pavimento o pillole per i pazienti. Non squillavano i telefoni. Non c'erano medici a fare prelievi, a sorseggiare caffè, a lamentarsi dei disservizi della mutua. Non si sentiva nemmeno un colpo di tosse. Solo l'aprirsi e chiudersi delle porte elettroniche, e il vento che le attraversava, soffiando carte e cartelle cliniche sul pavimento come foglie morte.

Superò il banco dell'accettazione e puntò al suo ufficio. Temendo che l'ascensore non funzionasse, prese le scale. Tra l'accettazione e il reparto di terapia intensiva, il suo sguardo indugiò sulle scie rosse che si erano coagulate come ruggine sulle piastrelle bianche. Seguivano il corridoio contrassegnato dal nastro giallo, e proseguivano verso il seminterrato.

Meglio darsela a gambe, Fennie
,
pensò. Rivide mentalmente la camicia sbottonata di Lois Larkin. Le teneva una mano sul seno, e lei rispondeva con un ghigno mostruoso. L'aveva colpita l'altro giorno? Era stato lui a farle saltare un dente? Non riusciva a crederci, ma aveva dei lividi sulle nocche della mano.

Le scale erano vuote, ad eccezione di un paio di camici rosa insanguinati. Li aggirò tenendosi più alla larga possibile mentre procedeva con la massima cautela, sforzandosi di non fare rumore. Avvertiva un'intelligenza tra le mura dell'edificio, e non aveva niente di umano.

Al secondo piano, la porta del suo ufficio era spalancata. La scrivania era ingombra di carte, e il pavimento di fascicoli aperti. La sua stampa di Dalì era sul divano, con il vetro della cornice rotto, e la parete dove un tempo erano appesi i suoi orologi liquefatti sembrava stranamente spoglia. Qualcuno aveva messo a ferro e fuoco la stanza.

«Dottor Wintrob?» domandò una voce.

Lui si girò di scatto a pugni chiusi, e per un pelo non colpì la sua segretaria Val in pieno petto. Fece un respiro profondo, e finse di non aver perso la calma. «Sì, Val» disse.

Invece della coda di cavallo stretta dall'elastico, i capelli le pendevano senza vita intorno al volto. «Volevo dirle addio. Ho telefonato a sua moglie. Mi ha detto lei che l'avrei trovata qui» disse Val. «È stato il mio capo per diciassette anni, lo sa?»

«Lo so» disse lui.

Val spalancò le braccia come sperando che lui la stringesse a sé, ma Fenstad non si mosse. Al posto dei soliti pantaloni beige, Val ostentava un paio di jeans attillatissimi. Al crollo di una civiltà, le piccole convenzioni sociali si logorano per prime. Gli uomini smettono giacca e cravatta, le donne mostrano la pancia. Intorno a lui crollavano le mura, e avvertì dentro un gemito di protesta vittoriana. Con un cenno della testa Val indicò il caos nell'ufficio. «Giovedì sera si sono portati via la cartella di Albert. Non ho potuto impedirlo. Quelli del Centro Epidemiologico, intendo, anche se non credo che fossero solo loro. Alcuni sembravano militari. Mio cugino è sergente nell'esercito, per questo li riconosco.»

«Perché volevano i dati di Albert?» domandò Fenstad.

Val alzò le spalle. «Cercherò di passare il confine con il Canada. Ho dei parenti lassù» disse. «Al Puffin Shop non c'è più benzina, ma se necessario posso aspirarne dal serbatoio di qualche macchina... Non sarà poi tanto difficile, no?»

«Crede che in Canada sia diverso?» domandò lui.

Lei lo fissò per una manciata di secondi, e poi scoppiò a piangere. Lui aprì le braccia. Fu una reazione meccanica. Senza emozioni. Non era ancora pronto per provare emozioni. Lei gli singhiozzò sul petto, e le vibrazioni gli solleticarono la pelle. Nella testa gli risuonava una canzone. La melodia gli era familiare, e lo rassicurò. Sua moglie, sua figlia. Non erano contro di lui. Lo amavano. Cosa ancora più importante, avevano bisogno di lui. Ma questo non cambiava il fatto che il virus si stava diffondendo come una gramigna velenosa. Non asciugava il fottutissimo sangue che inzuppava il tappeto e gli faceva sprofondare le scarpe.

«Ieri sera... l'ho ucciso» mormorò Val, e lui dapprima pensò fosse stata Meg a parlare. Meg lo aveva ucciso nel sonno, e adesso lui era morto. Ne fu sollevato. Adesso poteva smettere di preoccuparsi.

Val si sciolse dal suo abbraccio. «Deve saperlo. Stia attento all'odore, se vuole evitare gli infetti. È così che il virus le legge nel pensiero. Come... una sonda. Cerca di capire se può vivere dentro di te, o mangiarti e basta.»

Made for These
Times
suonava dolce nella sua mente...
They say I got brains but they ain't doin' me no good.
I wish they could...

Val frignava e le colava il naso. Due delle funzioni corporali che lo infastidivano di più. Le lacrime gli bagnavano il petto. Si rese conto di avere addosso gli stessi vestiti del giorno prima, e di quello prima ancora. Il fetore di morte qui era diverso da quello dell'obitorio municipale di Boston, dove aveva fatto i turni di apprendistato. Aveva qualcosa di elettrico, di ferroso. D'un tratto ne intuì l'origine. In stato di panico, il corpo umano produce adrenalina. Come per gli animali in un macello, quando un corpo viene ferito l'adrenalina si sprigiona nell'aria. Pensò al sangue coagulato sul pavimento dell'ingresso, e l'associazione si chiarì: quel posto puzzava di assassinio.

«Jeremy era proprio un bravo ragazzo, sa? Lo amavo molto» disse Val. Lui le fece un buffetto su una spalla. Nella testa la melodia continuava (
Sometimes I feel very sad...
), e lui immaginò il sole che calava, e centinaia di infetti che sorgevano come un esercito in quello stesso edificio, e sventravano i suoi colleghi come pesci.

«I contagiati mentono. Quand'è rientrato a casa ieri sera aveva gli occhi neri. Mi ha detto che mi odiava, ma non era lui a parlare. Per questo ho dovuto farlo fuori» disse Val.

Fenstad sbatté le palpebre, e ripeté mentalmente ciò che aveva appena sentito. Pensò a Meg, e poi a Madeline, infine a David. Recitò in silenzio una preghiera per loro:
Io non vi farò del male. Mai. Ti-prego-fa'-che-stiano-bene-li-amo-tanto-fa'-che-stiano-bene.

«Ho fatto la cosa giusta, vero?» domandò Val.

Lui annuì, perché dalla sua espressione si capiva che era ciò di cui aveva bisogno. Probabilmente era venuta apposta in ospedale. Per avere l'assoluzione di una figura autorevole. All'improvviso comprese che lei aveva ucciso il proprio figlio. Rimase a pensarci mentre la salutava. Le disse:
Buona fortuna. Abbi cura di te. Mettiti al sicuro in Canada.

Quando se ne fu andata, sedette sul divano per la prima volta da quando l'aveva comprato. Da quella prospettiva guardò la scrivania, e i diplomi incorniciati, e il paesaggio marino di Winslow Homer illuminato da un'alba tranquilla, senza nubi. Il cuore gli martellava nel petto, e gli sembrava di avere il sangue raggelato e vulnerabile, come se non avesse più la pelle a proteggerlo. Le budella gli si erano liquefatte in una pozza all'altezza dell'inguine.

Pensò a Meg, e a come ucciderla. L'idea lo confortò, come una masturbazione indolente. Lei non aveva fatto niente di male. Questo lo sapeva. Il problema non era Meg Wintrob. La sua reazione era il sintomo di un disturbo dissociativo acuto scatenato dalla marea di sangue che aveva allagato l'ospedale e gli lambiva le scarpe. Comunque, era consolante pensare di stringerle le mani intorno alla gola. Gli anni le avevano reso più fragile la pelle del collo, l'avrebbe sentita soffice sotto le dita.

Quando fosse rincasato avrebbe dovuto dirle cosa stava succedendo, non solo all'ospedale, ma dentro la sua testa. Per il suo stesso bene, doveva avvertirla che stava perdendo la ragione. Si immaginò di farlo, e la vide sollevare un sopracciglio, come se avesse appena annunciato che il suo vero nome era Tinkerbell.

Quando abbassò lo sguardo sull'orologio erano le dieci passate. Era rimasto seduto immobile talmente a lungo che i piedi gli erano diventati insensibili. Per un istante pensò che il tappeto li avesse inghiottiti, insieme alle sue scarpe. Ma era assurdo, giusto? Scoppiò a ridere. La risata riecheggiò nella stanza deserta, e sembrò quella di un fantasma. L'ospedale doveva esserne infestato. Che fosse morto anche lui?

Gli venne in mente una soluzione che gli parve ottima. Uscì dall'ufficio e raggiunse il dispensario in fondo al corridoio. Stappò un flacone di OxyContin oppiaceo, e ne frantumò una pastiglia tra i denti. Avvertì una sensazione di solletico e poi un tepore allo stomaco.

Scese le scale, anche se non diretto all'uscita. «Adesso voglio andare a casa» sussurrò mentre camminava. La stanza era chiusa dall'esterno, e il corridoio rosso di sangue coagulato. Corpi non ce n'erano. Strano, che fine avevano fatto?

Lei era seduta sul letto, vestita e truccata di tutto punto, ad aspettarlo. Non si girò a guardarlo quando lui aprì la porta. «Dottor Wintrob» disse.

«Lila.» Le fece un gran sorriso, come se il mondo fosse tutto rose e fiori. Aveva la gola secca. Quella roba era meglio della cocaina. Mentre parlava ingoiò un'altra pastiglia. «Come si sente oggi la mia paziente preferita?»

«Benissimo.» Lei lo guardò senza battere ciglio. La garza sul polso era strappata, e la ferita aveva ripreso a sanguinare. Lei si leccò il sangue, poi alzò gli occhi per spiegare: «Non voglio che mi fiutino».

Era ragionevole, e lui annuì. Gli tornarono in mente le ossa sul prato, il puzzo di adrenalina, e la sua segretaria che gli confessava di avere assassinato suo figlio. (
Gli infetti hanno fame, Fennie. Mangiano sciroppo per la tosse e ossa e pesce.
) Meglio rimandare. Se ci avesse pensato adesso sarebbe impazzito del tutto. Già adesso non sapeva con sicurezza se stesse piangendo. Forse era solo per educazione che Lila non diceva niente, fingendo di non badare ai suoi occhi che colavano. «Vuoi che andiamo a cercare i tuoi figli?» le chiese.

Lei scosse la testa. «Non sono più miei adesso.»

«Non fare così, Lila. Sono sempre tuoi, anche se il tribunale ti toglie la custodia.»

La voce di lei era piatta, come quella degli infetti. «Gliel'ho già detto. Sono cambiati.»

Non aveva argomenti per contraddirla, così non lo fece. «Mi dispiace non essere stato migliore come psichiatra. Sono stato arrogante. E comunque, devo lasciarti andare. Non c'è nessuno qui che ti porti da mangiare, e il mondo sta per finire. Chiunque sia rimasto qui probabilmente è già contagiato, e temo che questa notte vengano a mangiarti.»

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