Virus (32 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Non erano stati dimenticati. Ma quando si incaglia, la burocrazia si ripiega su se stessa. Trasforma le sue conoscenze in un segreto, e punta l'indice in ogni direzione finché la parola «responsabilità» perde ogni significato. Un comitato anonimo aveva posto Corpus Christi in quarantena per un tempo indeterminato e per ragioni non rese pubbliche. Un tribunale segreto e letteralmente sotterraneo aveva sospeso i diritti dell'habeas corpus, e dato consegna all'esercito di abbattere gli infetti a vista. Tuttavia, malgrado la quarantena e le rassicurazioni imposte a Linda Lopez dalla sicurezza nazionale, il virus continuò a diffondersi.

In breve, a Corpus Christi caddero le linee telefoniche, seguite da Internet. Ma grazie ai radioamatori e agli apparecchi a onde corte si venne a sapere che la malattia mortale aveva raggiunto Washington DC, Chicago, LA, San Francisco, entrambe le Portland, e Miami. I superstiti raccontavano di familiari che nottetempo li avevano morsi e contagiati, e anonime fonti militari dicevano che il presidente non stava affatto giocando a golf, ma si era ritirato due chilometri sottoterra, in un bunker della base aerea di Offutt.

Convinti che la fine del mondo fosse imminente, la notte di sabato più di duemila persone in tutto il Paese si erano suicidate. Si contavano seicentodiciannove colpi d'arma da fuoco fatali. Quattrocento casi di overdose, per gran parte della categoria sonniferi legali e alcol, ma anche con eroina, Tylenol, Oxycontin, e Fentanyl. Centottanta si erano avvelenati con sostanze come liquido antigelo delle auto, alcol disinfettante, vischio, e persino grandi quantità di sale da cucina. Si era fatto ricorso a oggetti acuminati come coltelli, forbici e aghi da cucito. Si colpiva in modo fantasioso e nel contempo prevedibile: cuori, gole, basso ventre, arterie. C'era anche chi sceglieva di saltare: ci si gettava dai palazzi e dagli argini dei fiumi. Quasi tutti, dopo i primi metri di caduta libera, avevano pensato che forse, malgrado tutto, potevano davvero volare.

Corpus Christi non ebbe altrettanti suicidi del resto del Paese. Uno storico avrebbe congetturato che i suoi cittadini erano troppo impegnati a combattere una minaccia immediata per pensare alla desolazione del futuro che li aspettava. Ciononostante, la notte di sabato undici residenti di Corpus Christi si tolsero la vita. Una coppia cominciò dai bambini. Nel farlo non usarono troppa immaginazione: li soffocarono con il cuscino. Poi si occuparono l'uno dell'altro, e sebbene a quel punto Walter Houston si fosse convinto di avere commesso uno sbaglio, non lo disse a sua moglie, perché in un mondo in cui aveva ucciso i propri figli, comunque non voleva viverci. Si spartirono il flacone di Valium, ingoiando le pastiglie con uno scotch invecchiato dodici anni.

Tre persone vennero abbattute ai margini della I-95 dai Berretti Verdi delle forze speciali dell'esercito. I primi due erano infetti. I soldati alla periferia sud ne individuarono gli occhi neri grazie agli infrarossi e gridarono un altolà. Ma loro non alzarono le braccia in segno di resa, né spiegarono perché stessero galoppando a quattro zampe verso Hank Johnson, che non aveva mai sparato a nessuno in vita sua, e non aveva l'età per ordinare una birra al bar. Comunque, Hank forse non avrebbe sparato se non avesse visto che uno degli uomini infetti stringeva tra i denti il corpo ancora in convulsioni di un uccello. Mirò alla spalla dell'uomo, sperando che liberasse l'animale. Invece lo colpì alla testa, e caddero entrambi. Seguirono altri spari. Quei suoni gli parvero fuori posto, e Hank rifletté che non avrebbe mai immaginato di usare la sua arma sul territorio nazionale.

La terza persona uccisa ai margini della I-95 di Corpus Christi fu una quindicenne. Ancora sottosopra dall'ultimo scontro, questa volta Hank e gli altri non spararono una raffica di avvertimento né le urlarono di fermarsi dai megafoni. In realtà, lei non era infetta. Stava festeggiando. «Il seme del diavolo ha fallito!» aveva gridato nel cellulare della sua migliore amica mezz'ora prima di morire. Poi aveva fatto un balletto, mangiato due fette di torta al cioccolato, e deciso che era troppo felice per stare ferma. Era uscita per una passeggiata, sentendosi libera come un uccello.

Quella sera, la sua urina si era comportata al meglio, rifiutandosi di far spuntare il segno positivo sullo stick del test.

La vita era uno spettacolo, e d'ora in avanti lei non avrebbe più fatto cazzate. Passeggiando, si ritrovò nella zona sud della città, nei pressi dell'autostrada. Si era dimenticata della quarantena. Si era dimenticata di tutto, escluso il fatto che tra otto mesi non sarebbe stata la ragazza che tutti additavano per strada come un cattivo esempio. C'era buio, e l'erba era umida e fredda. Si mise a correre, tanto si sentiva bene, e felice. Il proiettile la colpì in mezzo agli occhi. Rimase a sorridere riversa sul prato. La sua morte era stata istantanea.

La domenica mattina, i superstiti aprirono gli occhi su una città diversa.

La madre di Enrique Vargas sedeva al tavolo della cucina con suo marito. La scorsa notte il figlio maggiore non era rincasato. Prima l'esercito, e adesso questo. Se avessero saputo cosa ne sarebbe stato delle loro vite, sarebbero rimasti in Messico. La madre di Enrique nascose il volto. «Non piangere» sussurrò suo marito, e lei non versò nemmeno una lacrima.

In fondo alla strada, Ronnie Kohler premeva per la settima volta il pulsante che riattivava la sveglia, accumulando un ritardo di almeno un'ora per la prima colazione con i suoi genitori. Per fortuna suo padre stava per andare in pensione: non sarebbe più stato costretto a leccargli il culo per avere un aumento. L'altra faccia della medaglia era che la banca si sarebbe sentita libera di licenziarlo. La sveglia ricominciò a suonare, e a lui tornò la memoria: il brunch era stato annullato. I suoi genitori erano malati. Al suo fianco Noreen non si mosse, nemmeno per tirargli in testa la sveglia Timex Sam's Club color indaco che aveva da undici anni, né per dargli dello smidollato. Il suo corpo era freddo, ma respirava ancora. La sera prima un paziente le aveva morso il braccio in ospedale e lei aveva passato la notte insonne; almeno poteva riposare un po'.

Dopo un chilum Ronnie aprì la porta d'ingresso, ma sulla soglia non c'era il giornale della domenica. Al suo posto, trovò un sacchetto di carta marrone. Lo aprì, e cominciò a sudare. Dentro c'era la coda di un cavallo. Che cazzo, aveva fatto uno sgarro a don Corleone? La tolse dal sacchetto. Era nera e folta. La tenne sospesa per un po' prima di capire la verità. Erano i capelli di Lois Larkin.

Lila Schiffer era in un letto d'ospedale, sveglia fin dalle prime luci dell'alba. Era l'unico paziente rinchiuso nel reparto malattie mentali dell'ospedale di Corpus Christi, e il personale si era dimenticato di lei. Era digiuna da quasi due giorni, e per quanto l'etichetta imponesse la finzione di aver perso l'appetito, in realtà stava morendo di fame. Il giorno prima, appena il sole era tramontato, erano cominciate le urla. Lei aveva sentito qualcuno fuori dalla sua porta, magari quell'infermiera così carina che le aveva prestato un numero della rivista
O
,
gridare: «Gesù...». E poi c'era stato uno stridere come di scarpe di gomma sul pavimento e il fracasso di una collisione (una lettiga? una scrivania?), e infine rumori molto peggiori. Imploravano pietà, uno dopo l'altro. Non avrebbe potuto dire quanti fossero. Dicevano tutti le stesse cose:
ti prego, no, basta, omioddio.
Ma le parole erano coperte dalle urla, e dallo schioccare di labbra, e da suoni che sembravano un ruminare secco su gambe di sedani. Lila si era raggomitolata nel lettino e aveva chiuso gli occhi, nonostante le voci fossero più basse e monocordi, le aveva riconosciute. Fuori dalla sua porta, Aran e Alice ridevano delle infermiere agonizzanti.

Quelli che la domenica mattina andarono al lavoro, finsero che fosse una giornata come le altre, spinti dallo shock a rifugiarsi nella sicurezza della routine. Prima che il segnale Internet si disattivasse, i banchieri accesero i computer e inviarono e-mail per rassicurare i clienti. Donald Leavitt della Morgan Stanley scrisse: «I racconti che avete sentito sono esagerati. Garantisco personalmente che la situazione attuale a Corpus Christi non comprometterà in alcun modo il servizio dovuto ai miei clienti. Non esitate a contattarmi per qualsiasi informazione. Per offrirvi una maggiore disponibilità in questo frangente, ho esteso il mio orario di lavoro alle venti». Poi si scollegò, e cercò di riscuotere dal sonno la moglie, che aveva smesso di tossire quella mattina presto, e in quel momento era fredda ma respirava ancora. La girò sulla schiena. Il taglio corto a paggetto la faceva sembrare lesbica, e da anni lui cercava di convincerla a farsi ricrescere i capelli. Si lasciò cadere sul letto accanto a lei, e sussurrò: «Non lasciarmi». Poi, tossì.

Maddie Wintrob guardò l'alba dalla finestra. La brace della sigaretta brillava, e sebbene non andasse in chiesa da quando a dodici anni sua madre l'aveva iscritta a un corso doposcuola di cultura religiosa, recitò una preghiera perché Enrique arrivasse a casa sano e salvo.

Meg Wintrob dormiva profondamente. Suo marito no.

Danny Walker sedeva in una piccola stanza buia. Per la prima volta nella sua vita era completamente solo, e pianse.

Albert Sanguine infilò un braccio sotto il letto e tirò fuori l'ultimo barattolo di budino di pane. Lo trangugiò per zittire il virus dentro di lui, e si chiese se il suo suicidio fosse un gesto coraggioso o vile.

Mentre i viventi si alzavano ad affrontare la giornata, gli infetti riposavano. Dormivano nascosti dietro le rocce, e nei loro letti. Dormivano nelle barelle dell'ospedale, nel bosco, nei mucchi impilati e pronti per l'inceneritore dell'ospedale, e nelle cantine umide. La loro pelle era fredda, ma i loro cari non osavano seppellirli; intravedevano un impercettibile sollevarsi del torace, una lieve contrazione nelle dita delle mani e dei piedi. Attendevano nel silenzio minaccioso della luce del giorno.

Mentre l'alba si trasformava in giorno, la cosa un tempo chiamata Lois Larkin riposava distesa nella radura del bosco, circondata da quattromila infetti.

 

25.

«It's okay to eat fish,

'cause they don't have any feelings»

 

Fenstad entrò nel parcheggio dell'ospedale. Alle nove di quella domenica mattina per le strade non c'era nemmeno una macchina. I pochi semafori rimasti in funzione lampeggiavano come per segnalare cautela. Per tutta Corpus Christi risuonavano gli allarmi di macchine e appartamenti, ma di poliziotti neanche l'ombra. Le foglie degli alberi avevano cominciato a diventare rosse per il gelo autunnale. Anche loro morivano, insieme ai prati, alle gramigne, e ai cespugli di pomodori tardivi. Lui non notava niente. Pensava a Meg.

Fenstad aveva passato metà della giornata precedente a liberare il prato di casa dalle ossa. C'erano resti di uccelli con i loro scheletri cavi, e cosce di volpe con il midollo risucchiato. Il pastore tedesco era troppo grande per il sacco dell'immondizia, così lui gli aveva calpestato la spina dorsale finché non era riuscito a farlo stare nel sacco. E poi, mentre vomitava a vuoto nei cespugli appassiti di azalea che circondavano la casa, aveva avuto un'epifania.

Sul suo prato c'erano più ossa che davanti a qualsiasi altra casa dell'isolato, e questo significava che la sua famiglia era stata predestinata al disastro, oppure che qualcuno - un italiano magro con la parlantina sciolta - stava cercando di distruggerlo. A quel punto ricostruì tutto. Martedì mattina lei lo aveva sentito parlare nel sonno, gemere qualcosa riguardo il cane, e aveva progettato un piano mentre piangeva le sue lacrime di coccodrillo. Con la seduzione aveva indotto Graham Nero a uccidere Kaufmann, aveva disseminato il prato di scarti del macellaio, e corrotto Lois Larkin perché gli facesse quella scenetta della tetta, tutto per farlo interdire e ottenere un divorzio senza intoppi.

Era rimasto in piedi sul prato con un sacco dell'immondizia pieno di ossa secche, e aveva spiato la sua pelle rosa attraverso il vetro smerigliato della camera da letto al secondo piano. La sua casa. Il magnifico e solido edificio vittoriano con i rivestimenti originali e le librerie su misura incassate nel muro. Solo il tappeto persiano in anticamera valeva settemila dollari. E lei stava mandando tutto in rovina. Ci aveva appiccato il fuoco. Bisognava fermarla, per il suo stesso bene.

I lamenti fuori dalla finestra lo avevano tenuto sveglio per tutta la notte di sabato. Credeva fossero un parto della sua immaginazione, così come lo era stata Sara Wintrob nel letto di Lois Larkin. Cos'altro potevano essere, se non il prodotto della sua mente? Certo non erano urla.

Al suo fianco, Meg dormiva nuda. Gli si era raggomitolata sulla spalla infilandogli la gamba rotta tra le cosce. Lui si era reso conto allora che non gli servivano altre prove della sua infedeltà. Normalmente l'ansia le avrebbe fatto rosicchiare le unghie fino all'osso. Con tutto quello che stava accadendo a causa del virus, avrebbe dovuto passare la notte a camminare avanti e indietro per tutta la casa. Quindi, perché dormiva? Perché sapeva qualcosa di cui l'aveva tenuto all'oscuro: non c'era nessun virus. Quelle ossa ce le avevano messe lei e Graham Nero,
apposta.

Allo spuntar del sole, lui allungò un braccio verso il suo corpo immobile e le tenne una mano sospesa sopra la bocca e il naso. L'ombra delle sue dita le faceva apparire la fronte aggrottata. Decise che se si fosse svegliata l'avrebbe soffocata. Se avesse continuato a dormire, l'avrebbe lasciata stare. Tentennava, come in equilibrio a piedi scalzi sul filo di un lungo rasoio. Da quale parte della lama sarebbe caduto?

Dopo un po', Meg si mosse. Strinse le palpebre, come se nel sogno stesse piangendo. Lui sapeva che avrebbe dovuto provare compassione. Era sua moglie. Sapeva anche che i propri sintomi erano quelli dello stress post-traumatico, perché quei lamenti fuori dalla finestra sembravano umani. E ciononostante voleva soffocarla, la troia.

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