Paradiso (65 page)

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Authors: Dante

BOOK: Paradiso
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ed ènne dolce così fatto scemo,

               
perché il ben nostro in questo ben s’affina,

138
         
che quel che vole Iddio, e noi volemo.”

               
Così da quella imagine divina,   

               
per farmi chiara la mia corta vista,

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data mi fu soave medicina.   

               
E come a buon cantor buon citarista   

               
fa seguitar lo guizzo de la corda,

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in che più di piacer lo canto acquista,

               
sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda

               
ch’io vidi le due luci benedette,

               
pur come batter d’occhi si concorda,

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con le parole mover le fiammette.

PARADISO XXI

               
Già eran li occhi miei rifissi al volto   

               
de la mia donna, e l’animo con essi,

3
             
e da ogne altro intento s’era tolto.

               
E quella non ridea; ma “S’io ridessi,”

               
mi cominciò, “tu ti faresti quale   

6
             
fu Semelè quando di cener fessi:

               
ché la bellezza mia, che per le scale

               
de l’etterno palazzo più s’accende,   

9
             
com’ hai veduto, quanto più si sale,

               
se non si temperasse, tanto splende,

               
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,

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sarebbe fronda che trono scoscende.

               
Noi sem levati al settimo splendore,   

               
che sotto ’l petto del Leone ardente

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raggia mo misto giù del suo valore.

               
Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,   

               
e fa di quelli specchi a la figura

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che ’n questo specchio ti sarà parvente.”

               
Qual savesse qual era la pastura   

   

               
del viso mio ne l’aspetto beato

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quand’ io mi trasmutai ad altra cura,

               
conoscerebbe quanto m’era a grato

               
ubidire a la mia celeste scorta,

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contrapesando l’un con l’altro lato.   

               
Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,   

               
cerchiando il mondo, del suo caro duce

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sotto cui giacque ogne malizia morta,

               
di color d’oro in che raggio traluce   

               
vid’ io uno scaleo eretto in suso   

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tanto, che nol seguiva la mia luce.

               
Vidi anche per li gradi scender giuso   

               
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume

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che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

               
E come, per lo natural costume,   

   

               
le pole insieme, al cominciar del giorno,

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si movono a scaldar le fredde piume;

               
poi altre vanno via sanza ritorno,   

               
altre rivolgon sé onde son mosse,

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e altre roteando fan soggiorno;

               
tal modo parve me che quivi fosse

               
in quello sfavillar che ’nsieme venne,

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sì come in certo grado si percosse.   

               
E quel che presso più ci si ritenne,   

               
si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:

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“Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.

               
Ma quella ond’ io aspetto il come e ’l quando   

               
del dire e del tacer, si sta; ond’ io,

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contra ’l disio, fo ben ch’io non dimando.”

               
Per ch’ella, che vedëa il tacer mio   

               
nel veder di colui che tutto vede,

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mi disse: “Solvi il tuo caldo disio.”   

               
E io incominciai: “La mia mercede   

               
non mi fa degno de la tua risposta;

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ma per colei che ’l chieder mi concede,

               
vita beata che ti stai nascosta

               
dentro a la tua letizia, fammi nota

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la cagion che sì presso mi t’ha posta;

               
e dì perché si tace in questa rota   

               
la dolce sinfonia di paradiso,   

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che giù per l’altre suona sì divota.”

               
“Tu hai l’udir mortal sì come il viso,”   

               
rispuose a me; “onde qui non si canta

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per quel che Bëatrice non ha riso.

               
Giù per li gradi de la scala santa   

               
discesi tanto sol per farti festa

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col dire e con la luce che mi ammanta;

               
né più amor mi fece esser più presta,

               
ché più e tanto amor quinci sù ferve,

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sì come il fiammeggiar ti manifesta.

               
Ma l’alta carità, che ci fa serve

               
pronte al consiglio che ’l mondo governa,

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sorteggia qui sì come tu osserve.”

               
“Io veggio ben,” diss’ io, “sacra lucerna,   

               
come libero amore in questa corte

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basta a seguir la provedenza etterna;

               
ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,

               
perché predestinata fosti sola   

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a questo officio tra le tue consorte.”

               
Né venni prima a l’ultima parola,

               
che del suo mezzo fece il lume centro,

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girando sé come veloce mola;

               
poi rispuose l’amor che v’era dentro:

               
“Luce divina sopra me s’appunta,   

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penetrando per questa in ch’io m’inventro,   

               
la cui virtù, col mio veder congiunta,

               
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio

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la somma essenza de la quale è munta.

               
Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;

               
per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,

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la chiarità de la fiamma pareggio.   

               
Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara,   

               
quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso,

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a la dimanda tua non satisfara,

               
però che sì s’innoltra ne lo abisso   

               
de l’etterno statuto quel che chiedi,

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che da ogne creata vista è scisso.

               
E al mondo mortal, quando tu riedi,

               
questo rapporta, sì che non presumma

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a tanto segno più mover li piedi.

               
La mente, che qui luce, in terra fumma;

               
onde riguarda come può là giùe

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quel che non pote perché ’l ciel l’assumma.”

               
Sì mi prescrisser le parole sue,   

               
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi

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a dimandarla umilmente chi fue.

               
“Tra ’due liti d’Italia surgon sassi,   

               
e non molto distanti a la tua patria,

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tanto che’ troni assai suonan più bassi,

               
e fanno un gibbo che si chiama Catria,

               
di sotto al quale è consecrato un ermo,

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che suole esser disposto a sola latria.”   

               
Così ricominciommi il terzo sermo;

               
e poi, continüando, disse: “Quivi

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al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

               
che pur con cibi di liquor d’ulivi   

               
lievemente passava caldi e geli,

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contento ne’ pensier contemplativi.

               
Render solea quel chiostro a questi cieli

               
fertilemente; e ora è fatto vano,

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sì che tosto convien che si riveli.

               
In quel loco fu’ io Pietro Damiano,   

               
e Pietro Peccator fu’ ne la casa

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di Nostra Donna in sul lito adriano.

               
Poca vita mortal m’era rimasa,

               
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,   

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che pur di male in peggio si travasa.

               
Venne Cefàs e venne il gran vasello   

   

               
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,

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prendendo il cibo da qualunque ostello.   

               
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi

               
li moderni pastori e chi li meni,

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tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

               
Cuopron d’i manti loro i palafreni,

               
sì che due bestie van sott’ una pelle:

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oh pazïenza che tanto sostieni!”

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