Paradiso (60 page)

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Authors: Dante

BOOK: Paradiso
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l’altra, traendo a la rocca la chioma,   

               
favoleggiava con la sua famiglia   

126
         
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.

               
Saria tenuta allor tal maraviglia   

               
una Cianghella, un Lapo Salterello,

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qual or saria Cincinnato e Corniglia.

               
A così riposato, a così bello   

   

               
viver di cittadini, a così fida

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cittadinanza, a così dolce ostello,

               
Maria mi diè, chiamata in alte grida;   

               
e ne l’antico vostro Batisteo

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insieme fui cristiano e Cacciaguida.

               
Moronto fu mio frate ed Eliseo;   

               
mia donna venne a me di val di Pado,   

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e quindi il sopranome tuo si feo.

               
Poi seguitai lo ’mperador Currado;   

               
ed el mi cinse de la sua milizia,

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tanto per bene ovrar li venni in grado.

               
Dietro li andai incontro a la nequizia

               
di quella legge il cui popolo usurpa,

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per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

               
Quivi fu’ io da quella gente turpa   

               
disviluppato dal mondo fallace,

               
lo cui amor molt’anime deturpa;

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e venni dal martiro a questa pace.”

PARADISO XVI

               
O poca nostra nobiltà di sangue,   

               
se glorïar di te la gente fai

3
             
qua giù dove l’affetto nostro langue,

               
mirabil cosa non mi sarà mai:

               
ché là dove appetito non si torce,

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dico nel cielo, io me ne gloriai.

               
Ben se’ tu manto che tosto raccorce:   

               
sì che, se non s’appon di dì in die,

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lo tempo va dintorno con le force.

               
Dal “voi” che prima a Roma s’offerie,   

               
in che la sua famiglia men persevra,

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ricominciaron le parole mie;

               
onde Beatrice, ch’era un poco scevra,   

               
ridendo, parve quella che tossio

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al primo fallo scritto di Ginevra.

               
Io cominciai: “Voi siete il padre mio;   

   

               
voi mi date a parlar tutta baldezza;   

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voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.

               
Per tanti rivi s’empie d’allegrezza   

               
la mente mia, che di sé fa letizia

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perché può sostener che non si spezza.

               
Ditemi dunque, cara mia primizia,   

               
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni

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che si segnaro in vostra püerizia;

               
ditemi de l’ovil di San Giovanni

               
quanto era allora, e chi eran le genti

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tra esso degne di più alti scanni.”

               
Come s’avviva a lo spirar d’i venti   

               
carbone in fiamma, così vid’ io quella

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luce risplendere a’ miei blandimenti;

               
e come a li occhi miei si fé più bella,

               
così con voce più dolce e soave,

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ma non con questa moderna favella,   

               
dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘
Ave
’   

               
al parto in che mia madre, ch’è or santa,

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s’allevïò di me ond’ era grave,

               
al suo Leon cinquecento cinquanta   

               
e trenta fiate venne questo foco

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a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

               
Li antichi miei e io nacqui nel loco   

               
dove si truova pria l’ultimo sesto

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da quei che corre il vostro annüal gioco.   

               
Basti d’i miei maggiori udirne questo:   

               
chi ei si fosser e onde venner quivi,

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più è tacer che ragionare onesto.

               
Tutti color ch’a quel tempo eran ivi   

               
da poter arme tra Marte e ’l Batista,   

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erano il quinto di quei ch’or son vivi.

               
Ma la cittadinanza, ch’è or mista

               
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,   

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pura vediesi ne l’ultimo artista.   

               
Oh quanto fora meglio esser vicine   

               
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo

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e a Trespiano aver vostro confine,

               
che averle dentro e sostener lo puzzo

               
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,

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che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

               
Se la gente ch’al mondo più traligna   

               
non fosse stata a Cesare noverca,   

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ma come madre a suo figlio benigna,

               
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,   

               
che si sarebbe vòlto a Simifonti,

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là dove andava l’avolo a la cerca;

               
sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;   

               
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,

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e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.

               
Sempre la confusion de le persone   

               
principio fu del mal de la cittade,

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come del vostro il cibo che s’appone;

               
e cieco toro più avaccio cade

               
che cieco agnello; e molte volte taglia

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più e meglio una che le cinque spade.

               
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia   

               
come sono ite, e come se ne vanno

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di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

               
udir come le schiatte si disfanno

               
non ti parrà nova cosa né forte,

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poscia che le cittadi termine hanno.

               
Le vostre cose tutte hanno lor morte,

               
sì come voi; ma celasi in alcuna

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che dura molto, e le vite son corte.

               
E come ’l volger del ciel de la luna   

               
cuopre e discuopre i liti sanza posa,

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così fa di Fiorenza la Fortuna:

               
per che non dee parer mirabil cosa

               
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini

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onde è la fama nel tempo nascosa.

               
Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,   

               
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,

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già nel calare, illustri cittadini;

               
e vidi così grandi come antichi,

               
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,

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e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

               
Sovra la porta ch’al presente è carca   

               
di nova fellonia di tanto peso

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che tosto fia iattura de la barca,

               
erano i Ravignani, ond’ è disceso

               
il conte Guido e qualunque del nome

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de l’alto Bellincione ha poscia preso.

               
Quel de la Pressa sapeva già come

               
regger si vuole, e avea Galigaio   

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dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.

               
Grand’ era già la colonna del Vaio,   

               
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci

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e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.   

               
Lo ceppo di che nacquero i Calfucci

               
era già grande, e già eran tratti

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a le curule Sizii e Arrigucci.

               
Oh quali io vidi quei che son disfatti   

               
per lor superbia! e le palle de l’oro

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fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

               
Così facieno i padri di coloro   

               
che, sempre che la vostra chiesa vaca,

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si fanno grassi stando a consistoro.

               
L’oltracotata schiatta che s’indraca   

               
dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente

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o ver la borsa, com’ agnel si placa,

               
già venìa sù, ma di picciola gente;

               
sì che non piacque ad Ubertin Donato

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che poï il suocero il fé lor parente.

               
Già era ’l Caponsacco nel mercato

               
disceso giù da Fiesole, e già era

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buon cittadino Giuda e Infangato.

               
Io dirò cosa incredibile e vera:   

               
nel picciol cerchio s’entrava per porta

126
         
che si nomava da quei de la Pera.

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