Gai-Jin (95 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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Da allora aveva mangiato poco, solo il riso che si cucinava personalmente sul focolare e un pò di carne o di pesce arrosto preparati per gli altri ospiti e per gli avventori del bar, facendoli prima assaggiare a Timee per precauzione.

Il cibo fa schifo, il posto fa schifo e quella donna fa schifo, ancora qualche giorno qui e darò i numeri. Poi gli caddero gli occhi sul sacchetto di monete e le sue labbra si dischiusero in un sorriso crudele.

La notte dell'incendio nell'altra locanda stava dormendo su una branda in uno squallido tugurio sul retro del locale che gli era costato gli ultimi soldi. Molto prima di tutti gli altri venne destato e strappato al sonno dal suo senso del pericolo, sviluppato sin dall'infanzia.

Si sporse e, mentre il fuoco già lambiva gli ultimi gradini della scala di legno, vide che qualcuno lanciava nella sala principale un'altra fiasca d'olio tappata con uno straccio in fiamme.

Un cane isterico per la paura corse giù per le scale, raggiunse due gatti che tentavano disperatamente di scappare e i tre animali cominciarono a rincorrersi impazziti per la stanza facendo cadere le bottiglie di alcolici sul pavimento di pietra.

L'incendio divampò. Dall'affollato piano superiore ora giungevano grida e trambusto e uomini mezzi nudi si buttavano terrorizzati dalla scala lambita dalle fiamme scappando in strada.

La scala prese fuoco, poi una fiammata improvvisa ne avvolse le pareti e la balaustrata. Nella sala arroventata il vento creato dal calore trasformò il fuoco in un implacabile assassino.

Gli stipiti della porta d'ingresso bruciavano furiosamente tanto che le fiamme quasi sbarravano il passo. Altri ospiti della locanda, alcuni con i vestiti indossati di fretta già in fiamme, in preda al panico, inciampando l'uno sull'altro, gridando, si precipitavano alla rinfusa giù dalle scale per guadagnare l'uscita.

Nel giro di pochi minuti il fuoco era dappertutto e l'edificio condannato.

Ori, che non aveva paura perchè sapeva come affrontare le fiamme e aveva individuato d'istinto la via di fuga in caso di emergenza nel momento stesso in cui aveva preso possesso della stanza, si era subito disteso sul pavimento per evitare il fumo, coprendosi la bocca con uno straccio imbevuto di birra.

La salvezza dipende sempre dal non lasciarsi prendere dal panico, pensò, e da qui si può uscire dalla finestrella con le imposte in fondo alla sala, ben lontana dalla scala in fiamme, che sbuca nel vicolo sul retro.

Mentre si accingeva a scappare, vide il corpulento oste in camicia e berretto da notte lottare contro altre persone stringendo sotto il braccio una cassaforte di ferro.

L'uomo allontanò furiosamente da sé un avversario, lo gettò nelle fiamme, una vampata lo trasformò a sua volta in una torcia urlante e infine precipitò con gli altri due rovinando a terra tra le macerie della scala.

Ora il piano superiore era completamente isolato. La scatola gli era scivolata dalle braccia inerti cadendo lontano sul pavimento. Un uomo malamente ustionato barcollò attraverso l'incendio per guadagnare l'uscita. Le fiamme che stavano consumando avidamente i corpi del proprietario e degli altri due si avvicinarono non meno avide alla scatola.

Ori si lanciò senza esitazione nel fuoco, afferrò l'oggetto, corse verso la finestrella, ne spalancò senza fatica le imposte marcite e si trovò al sicuro nell'aria fresca del vicolo. Subito sgattaiolò verso il recinto di fronte, lo scavalcò e sempre tenendosi basso strisciò tra la spazzatura e le erbacce della Terra di Nessuno dirigendosi verso il pozzo abbandonato.

Raggiunta la meta, si guardò indietro senza più fiato. Le fiamme che avvolgevano la locanda arrivavano fino al cielo e tutt'intorno si era radunata una folla che gridava e imprecava. Due uomini saltarono dalle finestre superiori, altri rovesciavano secchi d'acqua sulle baracche e sugli edifici vicini invocando aiuto.

Nessuno lo aveva notato.

Coperto da tutto quel rumore, senza far caso a una nuvola di zanzare e insetti notturni, Ori fece leva sotto il coperchio con un piede di porco rotto trovato li vicino e aprì la scatola. Alla vista di quel tesoro sobbalzò.

Si infilò velocemente due sacchi di monete nelle tasche dei pantaloni e ne nascose un terzo nel camice. Poi, con grande cura, seppellì la dozzina di sacchi rimanenti e, in una buca diversa, la scatola.

La mattina seguente, dopo un giro per la Città Ubriaca, scelse una locanda isolata e lontana dai rottami della casa bruciata.

Dieci dollari messicani nella mano del proprietario e il peso evidente dell'intero sacchetto gli valsero un servizio puntuale e untuoso e una grande stanza di sua scelta. Il proprietario, un uomo dagli occhi blu sprofondati nelle orbite, proprio come quelli di lei, pensò con un'improvvisa fitta all'inguine i indicò il sacchetto.

“Vi rapineranno con tutta quella roba, giovane straniero.”

Ori non capì, ma le parole gli divennero presto chiare quando apparve Timee.

Comprese anche che se Timee fosse stato pagato alla stregua del padrone, lui si sarebbe potuto sentire al sicuro sia in casa che in strada, e che quando fosse uscito la sua stanza sarebbe rimasta inviolata.

Così, consapevole del pericolo che correva fidandosi di ceffi di quel genere, si assicurò la loro protezione definitiva spiegando pazientemente a gesti che quella era solo una minima parte della sua ricchezza. Il resto era al sicuro nel villaggio, confidò, ed era disposto a spendere generosamente anche per ogni altra cosa di cui avesse avuto bisogno.

“Siete il capo, dite cosa volete e l'avrete. Io sono Bonzer, australiano.” Come quasi tutti nella Città Ubriaca, continuava a grattarsi le morsicature di pulci e pidocchi, aveva denti radi e storti e puzzava. “Capo”?

Vuole dire ichiban! Il numero uno. Wakarimasu ka?”

“Hai, domo.” La porta si aprì distraendolo dai suoi pensieri. Timee entrò con un boccale di birra. “Capo, ora vado a mangiare.” Tossì. “Fame, cibo, wakarimasu ka?”

“Hai.” La birra placò la sete di Ori ma non bastò a calmargli la mente.

Non era paragonabile alla birra del villaggio, o a quella di casa, di Satsuma, a quella dello Yoshiwara, o della Locanda dei Fiori di Mezzanotte a Kanagawa, o di qualsiasi altro posto.

Sto diventando matto, pensò confuso. Quella puttana gai-jin con la pancia dalla pelle di rospo che puzzava di pesce era peggio della peggiore delle vecchie streghe che ho avuto, eppure con lei ho fatto due volte le Nuvole e la Pioggia, e non avrei mai smesso.

Cos'hanno di particolare? Gli occhi azzurri, la pelle bianca e quei peli del pube chiari, castani, in questo la puttana non era molto diversa da lei ma in tutto il resto sì. Inconsciamente le sue dita si misero a giocherellare con la croce che portava seminascosta intorno al collo. Le labbra si piegarono in un sorriso torvo.

Nel tunnel aveva ingannato Hiraga, il pezzo di metallo che aveva gettato nel pozzo era il suo ultimo oban d'oro.

Sono contento di aver tenuto la croce, mi impedisce di dimenticare.

E mi è stata utile anche per far credere a quegli stupidi gai-jin che sono un cristiano. Perché le loro donne mi fanno impazzire?

E' karma, concluse sicuro, karma che non ci siano risposte e che non ci saranno mai, salvo... salvo mandarla nell'aldilà.

Il ricordo di quel collo morbido sotto le dita e della sua virilità dentro di lei lo fece fremere di desiderio rinnovando lo spasmo. Come se l'altra donna non fosse mai esistita. Di nuovo la stanza prese a fluttuare e a schiacciarlo. Posò i piedi sul pavimento, mise in tasca il Derringer, si infilò il giubbotto di pelle e scese di sotto.

“Capo?” Timee tossì e abbandonò la ciotola colma di riso e stufato, pronto ad accompagnarlo.

Ori gli fece cenno di rimanere di sopra con l'altro per fare la guardia e uscì.

 

Hiraga lo vide subito. Era seduto sulla panca di un lurido bar sull'altro lato della strada sterrata, davanti a un boccale di birra ancora pieno, circondato da una folla chiassosa di uomini che bevevano, chi in piedi, chi sdraiato su una panca ubriaco fradicio, o che andavano barcollando nei dormitori, nelle stanze in affitto, al bar preferito o nelle case da gioco ammassate in un quartiere malfamato, peggiore addirittura di quelli londinesi.

Erano europei, asiatici, manovali e operai di sangue misto, armati come minimo di un coltello e vestiti in modo simile al suo, reduci dalla giornata di lavoro nei cantieri di vele, nei magazzini di forniture navali, nelle nuove officine di assistenza alle macchine o nelle decine di altre attività che riguardavano le navi.

Agli operai, ai mendicanti e agli sfaccendati si mescolavano panettieri, macellai, produttori di birra e usurai, quelli che sostenevano quella zona di Yokohama e quelli che la sfruttavano, separati dal villaggio e dalla “città alta”, come chiamavano il quartiere dei mercanti, per comune accordo.

“Nella Città Ubriaca” gli aveva spiegato Tyrer, “vivono forse centocinquanta anime, per la maggior parte gente alla deriva.

Hanno poche regole.

Ciascuno per sé, ma guai se qualcuno viene sorpreso a rubare: si raduna subito una folla per picchiarlo a sangue. L'unica polizia di cui dispongono sono le pattuglie dell'esercito e della marina che a volte vanno a cercarvi i disertori, o anche solo per conservare la pace tra soldati e marinai pronti a darsi battaglia e sedare le risse e i disordini.

Gli spacci di birra e di gin, il gin è tremendo, se non stai attento ti manda all'altro mondo, rimangono aperti finché ci sono avventori e lo stesso vale per le bische.

“Evitale, ed evita anche le ragazze di Ma Fortheringill. Lei odia i giapponesi a causa dei prezzi concorrenziali del nostro Yoshiwara, sia benedetto. In fondo, vicino alla porta Sud, dopo Hog Lane, c'è la zona peggiore della Città Ubriaca. Non ci sono mai stato, meglio se te ne tieni alla larga anche tu, è lì che i più depravati e le anime perse tentano di sopravvivere.

Oppio, mendicanti, la feccia, prostituzione maschile. Il macello. Il cimitero. Le malattie. E orde di ratti...”

Quel poco che Hiraga aveva capito aveva aumentato il suo desiderio di verificare di persona. Ora ne aveva finalmente l'occasione. A parte qualche insulto distratto che avrebbe potuto essere rivolto a chiunque, nessuno lo disturbò e nella luce fioca ma sufficiente dell'imbrunire pedinare Ori non fu difficile.

La sua preda, apparentemente senza meta né guardie del corpo, vagabondava in direzione della spiaggia.

Hiraga allungò le dita tremanti dall'eccitazione e strinse la pistola che teneva in tasca, ansioso di impugnarla, puntarla e porre fine a quella minaccia per il suo futuro finalmente a pochi passi di distanza.

Poi si sarebbe ritirato con cautela verso la Legazione, al sicuro, attraversando la Terra di Nessuno o lungo la spiaggia.

Adesso erano entrambi vicino alla piccola piazza principale che si affacciava sulla passeggiata e sul mare dove i bar, le osterie e le case da gioco si contendevano i clienti. Il quartiere, incuneato al confine estremo dell'Insediamento, era chiuso tra il mare e la recinzione intorno alla porta Sud.

La recinzione, alta e robusta come quella intorno alla porta Nord, arrivava fino alla battigia.

L'unico varco era costituito dalla porta medesima, barricata e sorvegliata dalle guardie.

La piazza era stipata soprattutto di soldati, marinai e mercanti britannici, con qualche francese, americano, russo ed euroasiatico. Ori passò attraverso la folla senza difficoltà e si fermò sul bordo della passeggiata a fissare il mare. Le onde erano alte un metro e il mare era nero e sporco. Mezzo miglio a nord, riconobbe le luci lontane degli edifici mercantili che ora si accendevano: quelle della Legazione francese, poi quelle del piano superiore del palazzo Struan, che con l'edificio della Brock dominavano il lungomare.

Questa notte? Devo provare questa notte?

I piedi cominciarono a portarlo in quella direzione. All'improvviso udì un rumore sordo, simile a quello di un treno che passasse pochi metri sotto la spiaggia, e la terra ondeggiò. Come tutti quelli che si trovavano nella piazza, Ori barcollò in preda alla nausea. Si lasciò cadere carponi aggrappandosi al suolo. La terra tremò, si alzò, si abbassò e finalmente si fermò. Seguì un attimo di silenzio che sembrava arrivare al cielo.

Poi i primi gemiti, le urla e le bestemmie vennero soffocati da una seconda scossa. Di nuovo la terra tremò, non forte come prima ma pur sempre minacciosa, e altre scosse che sembravano non finire mai la gonfiarono, la squassarono e infine cessarono. Da un tetto le tegole caddero a cascata.

Gli uomini strisciavano via in cerca di un rifugio. Di nuovo scese un silenzio quasi palpabile, tacquero gli uomini, tacquero i gabbiani e tutti gli animali. La terra sembrava attendere, sospesa, e tutto si fermò con lei. La gente abbracciava il suolo, pregava, imprecava, pregava, attendeva.

“E finito per Dio?” qualcuno gridò.

“Sì...”

“No...”

“Aspettate, credo...” Un altro rombo. Gemiti di paura. Il rumore si fece acuto, la terra sembrò contorcersi e gridare e si fermò di nuovo. Crollarono alcune baracche, si sentirono invocazioni d'aiuto. Nessuno si mosse. Tutti attesero congelati la scossa successiva, quella finale, ma non arrivò.

Non ancora.

Seguirono momenti che parvero eterni. Poi Ori intuì che il pericolo era finito e, primo nella piazza, si alzò felice: questa volta non era morto, era vivo, incolume, rinato, ma già si preparava istintivamente alla nuova minaccia, la folle corsa per sfuggire all'incendio che sempre seguiva un terremoto e ne costituiva l'aspetto più pericoloso. Il terremoto, che per qualcuno era una nemesi, per tutti gli altri segnava una rinascita: così lo consideravano da tempo immemorabile gli abitanti della Terra degli Dei, chiamata anche Terra delle Lacrime.

All'improvviso Ori fu turbato da una fitta allo stomaco, che poi svanì. Oltre la piazza, sopra la folla ancora distesa al suolo tra conati di vomito e imprecazioni, vide Hiraga che lo fissava. Dietro, a una cinquantina di metri, si stavano alzando da terra le guardie samurai, e qualcuno di loro già lì scrutava con curiosità.

Quasi nello stesso istante in cui Ori, intuita la fine del terremoto si era alzato, Hiraga e quei samurai avevano fatto lo stesso, con il medesimo sentimento di estatico sollievo e di rinascita. Hiraga però si rese conto di essere in piedi solo quando vide che Ori lo stava fissando.

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