Virus (25 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Dapprima non fece caso a quanto si fosse avvicinato. Notò appena il suo alito rovente, fetido, finché una goccia di sudore gli scivolò lungo la faccia. Le atterrò sulla guancia. Gli occhi di Graham erano strani. Aveva le pupille così dilatate che sembravano neri. Brillavano, e lei ci vide riflessa la propria immagine terrorizzata. La cosa si avvicinava. Spalancava la bocca in un grido muto. Anche lui si avvicinò. «Ti amo» sussurrò.

Lei strinse i pugni, e ricordò ciò che ogni madre italiana dice alla propria figlia: prima colpisci alle palle, poi agli occhi. «Vattene. Adesso. Non tornare mai più. Io non ti amo. Non ti ho mai amato. Non mi piaci nemmeno» disse.

Il tanfo peggiorava. Non era solo il suo alito. Tutto il suo corpo mandava un fetore di decomposizione.

«Vattene!» gridò, e poi trasalì, perché la sua voce era rieccheggiata in tutta la biblioteca, ma non era accorso nessuno. Era sola con quel predatore, e adesso lo sapeva anche lui.

Lui si avvicinò come per un bacio. Lei si trascinò sul pavimento nella direzione opposta e si storse la caviglia. «Oooh-merda» le sfuggì, con gli occhi chiusi e i denti stretti. Di nuovo fu percorsa da scintille di dolore, e fu scossa da un tremito incontrollabile, come l'avessero legata sulla sedia elettrica. L'alito di lui era caldo sulla sua guancia. Poi avvertì qualcosa di umido. Impossibile. Impallidì, e per un brevissimo istante il ribrezzo le fece dimenticare il dolore.

La lingua ruvida di Graham Nero le leccava la fronte, il naso e le labbra, fino a raggiungerle il mento e il collo.
Dov'è che ho sbagliato?
le domandò, solo che non sembrava lui. Sembrava suo padre.

D'un tratto fu in piedi. Si raddrizzò la camicia, infilò gli occhiali da sole, prese una confezione di mentine dalla tasca, la aprì, e se la rovesciò in bocca per intero. «Al bosco, Meggie. Stanotte. Dipende da te se sarà piacevole oppure no. Non costringermi a usare le maniere forti» le disse da sopra una spalla mentre usciva.

La saliva di lui le si asciugava sulla faccia mentre rimaneva immobile a guardarlo salire sulla Porsche e sgommare via. Si rese conto in quel momento cosa non andasse nel quadretto fuori dalla finestra. Quella mattina non c'erano uccelli da nessuna parte.

 

18.

Sangue sulla moquette

 

Era pomeriggio tardo, e i raggi del sole cominciavano ad arrossare. Brillando attraverso i rami, accendevano i colori autunnali delle foglie. Fenstad guidava senza farci caso. Nemmeno al fatto che non ci fosse traffico intorno all'ospedale, e che a Corpus Christi quasi nessuno fosse lascito a godersi la bella giornata.

Era appena uscito dalla stanza d'ospedale di Lila Schiffer, dove infine l'aveva convinta a firmare le carte del ricovero. Prima Albert, adesso Lila. Cominciava a prendere la cosa sul personale. Gli esami del sangue di Lila avevano evidenziato livelli di alcol tre volte superiori al limite legale. In terapia gli aveva raccontato di bere il Robitussin solo di tanto in tanto, e solo la sera tardi. Ora sapeva che non era vero. Beveva sempre, anche davanti ai bambini, e così facendo aveva danneggiato se stessa e tutti coloro che le stavano accanto. Fenstad avrebbe dovuto impegnarsi di più. Non avrebbe dovuto fantasticare su Meg Bonelli mentre settimana dopo settimana persone con problemi veri sedevano davanti alla sua scrivania, a pregarlo di risolverli. Forse era per questo che aveva accettato di andare personalmente da Lois Larkin, anche se l'ultima visita a domicilio che ricordasse risaliva a un episodio del
Dottor Kildare.
Non voleva perdere un altro paziente. Be', per questo, e anche perché l'ospedale sembrava una coltura di laboratorio, brulicante di una tosse di origine sconosciuta.

Girava voce che in città fosse arrivata la polizia federale. Quest'influenza si era diffusa tanto in fretta che il funzionario di sanità pubblica all'ospedale si era sentito in dovere di avvertirli, e dato che nessuno era riuscito a stabilire se la causa fosse virale, batterica o chimica, le indagini venivano condotte sia dal Centro Epidemiologico che dall'Ente della protezione ambientale. In quel preciso momento gli scienziati di entrambi i centri interpellavano i pazienti stipati nei corridoi del pronto soccorso, e misuravano i livelli di tossicità nell'acqua, nell'aria e negli uffici pubblici. Quando Fenstad aveva lasciato l'ospedale, le ambulanze in arrivo venivano già smistate verso le città vicine, per due motivi: a Corpus Christi non c'era più posto, forse la città sarebbe stata messa sotto quarantena.

Quel giorno sette pazienti erano passati dal pronto soccorso all'obitorio. Era accaduto in modo così repentino che a Fenstad girava ancora la testa. Erano tutti come soffocati - annegati nel proprio catarro. Aveva visto un ragazzo dell'età di Maddie, con i capelli neri e la mascella tanto squadrata da tagliarci il vetro, tossire un attimo prima, e spirare un attimo dopo. Se n'era andato sorridendo, come se volesse rassicurare tutti di sentirsi benissimo, state tranquilli, mamma e papà.

Alla vista di quel cadavere sorridente che fino a poco prima era stato il figlio di qualcuno, dentro Fenstad si era smosso qualcosa. Aveva pensato a Maddie, e a come si sarebbe sentito se fosse capitato a lei. Come se un uragano avesse demolito la casa che lui aveva impiegato una vita a costruire. Questa infezione misteriosa non era come la noia che da tempo affliggeva Meg, né come il vago imbarazzo sociale di avere un figlio gay e una figlia con i capelli viola, e nemmeno come perdere il lavoro. Questa era una cosa seria.

Chiamò il cellulare di Meg. Non le diede il tempo di dire niente: «Vai subito a prendere Maddie a scuola, compra qualche bottiglia d'acqua, un filtro Heppa e un purificatore d'aria da Target. Ho promesso che sarei passato da Lois Larkin - temo che tenti il suicidio - ma subito dopo ti raggiungo direttamente a casa.» Seppe poi che Meg aveva avuto una pessima giornata in biblioteca e infatti era già a casa a guardare una soap-opera. Non appena l'ebbe informata del numero dei contagiati, lei zoppicò di filato alla Saab per andare da Maddie. «Ti aspettiamo. Abbi cura di te. Ti amo» gli disse.

Dieci minuti più tardi Fenstad si trovava per strada diretto a casa di Lois. Auto della polizia e berline governative erano parcheggiate in cima alla collina nei pressi del bosco. Stavano ancora cercando James Walker, e in ospedale girava voce che fossero scomparse anche parecchie altre persone.

Non era sicuro di cosa significasse tutto ciò. I sintomi dell'influenza erano una congestione toracica, ipersensibilità alla luce, sfogo sulla pelle, alito cattivo e, a dare retta a Lila, un'alterazione della personalità. In meno di due giorni, aveva colpito almeno il venticinque per cento della città, e questo indicava che il contagio si diffondeva nell'aria o che le falde acquifere erano contaminate. Finora non era guarito nessuno, e almeno sette persone erano morte. Non sembrava un'infezione normale; piuttosto una reazione del sistema immunitario. Come se l'organismo venisse invaso da un agente esterno che riconosceva come ostile ma che non riusciva a debellare. I globuli bianchi e le lesioni da ossidazione scatenavano infiammazioni degli organi e dei tessuti a un ritmo vertiginoso. Queste a loro volta causavano lo sfogo sulla pelle e il collasso letale dei polmoni, mentre l'infezione procedeva indisturbata. Era successa la stessa cosa durante l'epidemia di influenza del 1918. Due milioni di vittime. In un capovolgimento perverso dell'ordine naturale, le donne e i bambini, che avevano un metabolismo accelerato e una risposta immunitaria più reattiva alla presenza di agenti estranei, erano stati i primi a soccombere. Fu sopraffatto dalla paura, ricordando che anche nel 1918 la gente aveva cominciato a sparire. Solo che in realtà non erano scomparsi: intere famiglie erano spirate nei propri letti dalla sera alla mattina, e non erano state ritrovate che al termine dell'epidemia.

Con un po' di fortuna, il Centro Epidemiologico ne avrebbe saputo di più entro sera. L'ospedale o forse il governo avrebbero diffuso un comunicato stampa. In caso di cattive notizie, lui e Meg avrebbero dovuto prendere in seria considerazione l'ipotesi di lasciare la città.

In fondo a Micmac Street parcheggiò la Escalade di fronte alla casa di legno dei Larkin. L'intonaco bianco era scrostato, e l'erba rada e brulla, come riarsa. Sul prato c'era un pettirosso morto. Gli mancavano la testa e parte del torace, ma aveva ancora le ali spalancate, come fosse stato catturato in volo.

Suonò alla porta e attese. Il campanello riproduceva la melodia di
Michael Row the Boat Ashore, Hallelujah!
Fenstad non sapeva se ridere o rabbrividire. Suonò ancora due volte, e la canzoncina riprese. Finalmente, e con suo grande sollievo, Jodi Larkin spalancò la porta. Si fece da parte senza aprire bocca, e lui entrò in casa. C'era buio, le tende erano tutte chiuse. L'arredamento era rimasto ibernato agli anni Ottanta, tutto tappezzeria dorata e divani di velluto liso, come un santuario alla memoria di tempi migliori, o semplicemente alla giovinezza. Jodi era una donna minuta e rinsecchita che gli ricordava le foto viste al Dust Bowl dei sopravvissuti alla Grande Depressione: magri e incattiviti.

«Tutto d'un tratto non sopporta più il sole» sussurrò Jodi, come se Lois potesse sentirla. «Non mi chieda perché. La signorina So-tutto con i suoi sogni campati per aria, io non l'ho mai capita. E con tutto quello che ha studiato, guardi che fine ha fatto.»

«Dov'è?» domandò lui.

Con un cenno della testa Jodi indicò in fondo al corridoio. «In camera sua. Da quando è scomparso quel ragazzino non fa che implorarmi di telefonarle, immagino sarà felice di vederla qui, ma chi può dirlo? Per metà del tempo non sembra nemmeno lei. Forse può darle qualcosa per calmarla.»

Jodi gli fece strada. Tendeva ad appoggiarsi di più sul fianco destro, e a lui tornò in mente Meg. Si augurò che lei e Maddie fossero già in casa al sicuro.

La stanza di Lois era buia e umida. L'impiantito di legno scricchiolò quando posò il piede. Alcune delle assi erano sconnesse. L'aria puzzava dell'aroma stantio dei fiori appassiti al funerale di un bambino. Con due falcate decise lui raggiunse la finestra e spalancò le tende, e per un istante ripensò a Maddie:
Il mattino ha l'oro in bocca.
Ripensò anche a sua madre.

«Chiuda le tende, dottor Wintrob» disse Lois. La voce era rauca, e si era portata una mano smagrita agli occhi per proteggerli dal riverbero del tardo pomeriggio. «Il sole... Mi fa
male.
»

Sulle pareti erano appesi due poster di Brad Pitt, entrambi dell'
Esercito delle dodici scimmie.
Una sfilza di animali di peluche stava allineata come di guardia al suo scrittoio rosa. La tappezzeria rosa si stava scollando, e il bianco delle lenzuola con gli orli ricamati era sbiadito e ingiallito dal tempo. Erano passati sette anni da quando Lois si era laureata ed era tornata lì a vivere, ma quella era ancora la cameretta di una bambina.

Lui le palpò il collo, dove i linfonodi si erano ingrossati come un gozzo. Aveva la temperatura più bassa del normale, e le mani coperte da uno sfogo rivelatore. Si era grattata, e le dita sanguinavano. Le mancava un'unghia, e la carne scoperta era rosa acceso. «Ti prego, mamma» disse Lois. «Brucia.»

Jodi richiuse le tende e la stanza tornò buia e stagnante. Fenstad si sorprese a trattenere il fiato. Proprio un bel regalo da portare a casa alla sua famiglia, il contagio. Ma d'altra parte, se questa cosa aveva contaminato l'aria, le sue precauzioni non sarebbero servite a molto. «Da quanto tempo sei in questo stato?» domandò.

Lei sibilò una risposta. Più che una frase, sembrò un respiro che prendeva forma. «Dalla gita nel bosco.»

«C'è una brutta influenza in giro. E a quanto vedo l'hai presa anche tu.» Sedette all'angolo del letto e le tastò il polso. Il battito era lento e affaticato. Il suo alito sapeva di marcio, e irrazionalmente lui ripensò al pettirosso sul prato. Cosa aveva mangiato per puzzare tanto?

Jodi spiumacciò il cuscino dietro la testa di Lois. Poi le avvicinò le labbra alla fronte. Era una dinamica che Fenstad conosceva bene: i due poli di un rapporto di dipendenza che si scambiano le parti. Un gesto che sigillava un legame e lo rendeva ancora più stretto, come un patto di sangue.

Dopo la rottura del fidanzamento con Ronnie Koehler, Lois aveva pensato di lasciare la città. Adesso passava la giornata a letto a guardare quiz televisivi. Albert, Lila, Lois, i ragazzi all'obitorio. Li stava perdendo tutti. Uno dopo l'altro, come anatre al tirassegno.
Pling, pling, pling.

«Vado a prendere la
Guida tv.
Questa settimana ci sono le anteprime dei nuovi programmi della stagione» annunciò Jodi. «Torno subito.»

Quando fu uscita, Fenstad disse: «È stato un periodo difficile».

«Scì» rispose Lois. Poi cominciò a tossire. Un filo di saliva le rimase appeso tra la bocca e il lenzuolo. Lui si avvicinò per allungarle la scatola dei Kleenex sul comodino. Il respiro di lei si fece più affannoso, e Fenstad trattenne a stento un conato. Deglutì in fretta, e ripensò al pettirosso.

«Si sono ammalati in molti, quindi non credo sia una buona idea andare in ospedale. Non avresti le cure necessarie. Ma se ti accorgi che la respirazione peggiora, non dirlo a tua madre. Non aspettare che sia lei a prendere una decisione. Chiama subito il pronto intervento.»

Lei annuì, e lui si convinse che avrebbe seguito il suo consiglio. Aveva la testa sulle spalle, se si escludeva la gente che sceglieva di frequentare. Lei allungò la mano, e lui la prese. Una vocina traboccante di senso di colpa gli suggerì di andarsene - lei era contagiata, poteva infettare anche lui. Rischiava di portare l'infezione a casa alle sue ragazze. Zittì la voce. Non lo pagavano trecentomila dollari l'anno per abbandonare le persone che avevano più bisogno di lui.

La mano di Lois era fredda. Lui le chiuse il palmo in un pugno e lo strofinò. Lois gli piaceva. Ogni volta che l'aveva vista in terapia, aveva sperato che d'un tratto saltasse in piedi, folgorata dall'intuizione di ciò che lui aveva sempre saputo: che era una ragazza adorabile da ogni punto di vista.

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