Gai-Jin (28 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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Dev'essere meraviglioso, anche se soltanto la metà di quello che dice è vero.

Potrò averne una anch'io? Potrei comprare un contratto? André dice che qui molti lo fanno e che poi affittano una casetta nel quartiere di Yoshiwara, in un luogo segreto e fuori mano: “Si dice che tutti i ministri ne posseggano una e che sir William ci vada puntualmente una volta alla settimana; pensa che nessuno lo sappia ma invece gli altri lo spiano e ridono, tutti tranne quell'olandese che è impotente, e il ministro russo che preferisce esplicitamente compagnie d'altro genere ...”.

Dovrei correre il rischio, se me lo potessi permettere? Dopotutto André me ne ha fornito una buona ragione: “Per imparare in fretta il giapponese, monsieur, la cosa migliore è procurarsi un dizionario da camera da letto... è l'unico modo” .

Ma l'ultimo pensiero prima di lasciarsi travolgere dal sonno fu per André: mi chiedo perchè sia stato tanto gentile con me, tanto loquace. E' raro che un francese si dimostri così disponibile con un inglese. Molto raro. E' strano che non abbia menzionato Angélique nemmeno una volta...

 

Mancavano pochi minuti all'alba.

Ori e Hiragai ancora avvolti negli indumenti ninja, uscirono dal nascondiglio sulla proprietà del tempio di fronte alla Legazione, scesero dalla collina correndo in silenzio, attraversarono il ponte di legno e si immersero nei vicoli.

Hiraga precedeva. Un cane li vide; ringhiando cercò di ostacolare la loro corsa e morì. Il breve arco tracciato dalla spada di Hiraga fu fulmineo; continuarono a correre con le lame sguainate addentrandosi sempre più nelle viscere della città. Ori seguiva Hiraga con cautela. La ferita aveva cominciato a infettarsi.

Al riparo di una baracca, Hiraga si fermò in un angolo protetto.

“Qui siamo al sicuro, Ori!” sussurrò.

Con gesti rapidi i due uomini si sfilarono gli indumenti ninja e li riposero in una sacca che Hiraga si mise a tracolla. Indossarono due anonimi kimono.

Hiraga ripulì la sua spada con grande cura usando uno straccio di seta con cui tutti i samurai avevano l'abitudine di proteggere le loro lame e poi infilò l'arma nel fodero.

“Pronto?”

“Sì.” Hiraga ripartì orientandosi in quel labirinto di vicoli con passo sicuro, tenendosi al riparo dove poteva ed esitando negli spazi aperti fino a quand'era certo che fossero soli. Non voleva vedere e soprattutto incontrare nessuno.

Erano diretti al loro nascondiglio.

Erano rimasti a spiare la Legazione fin dal primo mattino. I bonzi, i preti buddisti, li avevano ignorati quando Hiraga si era svelato spiegando il motivo della loro presenza.

Tutti i bonzi erano accesi xenofobi e disprezzavano gli stranieri i quali, ai loro occhi, erano tutt'uno con i gesuiti, il nemico più odiato e temuto.

“Ah, shishi, siate i benvenuti” aveva detto il vecchio monaco.

“Non abbiamo mai dimenticato che i gesuiti cercarono la nostra rovina né che gli shògun Toranaga sono il nostro flagello. “

Dalla metà del quindicesimo secolo fino agli inizi del diciassettesimo soltanto i portoghesi conoscevano la rotta per arrivare in Giappone. Alcuni editti papali avevano inoltre conferito al Portogallo un diritto esclusivo sulle isole e ai gesuiti portoghesi il diritto al proselitismo.

Nel giro di pochi anni il numero di daimyo convertiti al cattolicesimo insieme ai loro sudditi era cresciuto a tal punto da permettere al dittatore Goroda di farsene schermo per massacrare migliaia di monaci buddisti che all'epoca gli erano apertamente ostili e avevano un certo seguito nella popolazione.

Il tairò Nakamura che succedette a Goroda ne ampliò ulteriormente i poteri e mise i bonzi e i gesuiti gli uni contro gli altri ricorrendo all'inganno, alle persecuzioni, alle torture e alle uccisioni. Poi venne Toranaga.

Toranaga, tollerante nei confronti delle religioni ma non verso l'ingerenza straniera, si rese conto che tutti i daimyo convertiti avevano combattuto contro di lui a Sekighara.

Tre anni più tardi divenne shògun e dopo altri due anni abdicò in favore del figlio Sudara pur conservando tutto il potere nelle sue mani com'era nella consuetudine giapponese.

Tenne a freno gesuiti e buddisti con intransigenza ed eliminò o neutralizzò tutti i daimyo cattolici. Suo figlio Sudara inasprì la repressione e il nipote, lo shògun Hironaga, portò a compimento il progetto elaborato con tanta cura nel legato: mise ufficialmente fuori legge la cristianità in Giappone punendo i trasgressori con la morte. Nel 1638 Hironaga distrusse l'ultimo bastione cristiano di Shimabara, vicino a Nagasaki, dove alcune migliaia di ronin, trentamila contadini e le loro famiglie si erano riuniti per ribellarsi a lui.

Quelli che si rifiutarono di abiurare vennero crocifissi o passati a fil di spada come criminali comuni. Soltanto uno sparuto gruppetto scelse l'abiura.

Poi Hironaga rivolse la sua attenzione ai buddisti; accettò con grazia il cosiddetto dono delle loro terre e li rese innocui.

“Siate benvenuti, Hiraga-san e Ori-san” aveva ripetuto il vecchio monaco. “Noi siamo con gli shishi, con sonno-joi e contro lo shògunato.

Siete liberi di andare e venire come desiderate. Se avete bisogno d'aiuto non avete che da chiederlo.”

“Prendete nota del numero di soldati, dei loro andirivieni, quali stanze sono occupate e da chi.” I due samurai aspettarono e spiarono tutto il giorno. Al tramonto indossarono gli abiti ninja e per due volte Hiraga cercò di avvicinarsi alla Legazione. Durante uno dei due tentativi arrivò persino a scalare il recinto per una ricognizione ma dovette ritirarsi in gran fretta quando una sentinella rischiò di scontrarsi con lui.

“Non ci entreremo mai di notte, Ori” sussurrò. “Né di giorno.

Troppi soldati.”

“Per quanto tempo pensi che si fermeranno.” Hiraga sorrise.

“Fino a quando non li staneremo.”

Erano ormai quasi giunti al nascondiglio, una locanda che sorgeva a oriente del castello. L'alba era prossima, il cielo più luminoso e le nubi meno fitte del giorno precedente. Davanti a loro la strada era deserta.

Deserto anche il ponte.

Hiraga lo imboccò con sicurezza ma fu costretto a fermarsi. Una pattuglia della Bakufu di dieci uomini stava sbucando dall'ombra. Tutti si misero in guardia, le mani sull'elsa della spada.

“Venite avanti e datemi i vostri documenti di identificazione” gridò il samurai in capo.

“Chi sei tu per sfidarci?”

“Hai visto le nostre insegne” ribatté furente l'uomo facendo scricchiolare un'asse del ponte. I suoi uomini si schierarono dietro di lui.

“Siamo guerrieri di Mito, nono reggimento, guardiani dello shògun.

Dichiarate la vostra identità.”

“Siamo stati a spiare sulla palizzata nemica. Fateci passare.”

“Sembrate ladri. Cos'avete in quella borsa eh? Presentatevi!” La spalla di Ori doleva. Quando si era accorto della suppurazione non ne aveva fatto cenno a Hiraga e gli aveva taciuto anche il dolore. La testa gli girava all'idea di doversi battere ma pensò che in fondo rischiava soltanto una morte ammirevole.

“Sonno-joi!” gridò all'improvviso scagliandosi contro il samurai sul ponte. Gli altri mossero un passo all'indietro per lasciar loro spazio mentre Ori colpiva con tutta la sua forza, si riprendeva dal colpo mancato, attaccava un'altra volta e dopo una finta metteva a segno il colpo.

L'uomo giaceva morto ai suoi piedi.

Poi Ori si slanciò verso un altro uomo che battè in ritirata. Provò con un terzo che a sua volta si ritirò.

L'anello di uomini cominciava a chiuderglisi intorno.

“Sonno-joi!” gridò Hiraga correndo al fianco di Ori. Insieme tennero a bada il gruppo.

“Dichiaratevi!” ripeté senza scomporsi un giovane samurai. “Io sono Hiro Watanabe e non voglio uccidere né essere ucciso da un samurai sconosciuto.”

“Sono uno shishi di Satsuma!” rispose Ori con fierezza aggiungendo come d'abitudine un falso nome: “Riyama Takagaki”.

“E io sono di Choshu e il mio nome è Shodan Moto. Sonno-joi” gridò Hiraga, e si slanciò contro Watanabe che si ritrasse senza paura.

“Non ho mai sentito parlare di nessuno di voi due” sibilò Watanabe.

“Non siete shishi, siete due balordi.”

Il suo fendente venne parato.

Da abile uomo d'armi Hiraga usò la forza dell'assalitore per fargli perdere l'equilibrio, si scostò e lo infilò nel lato scoperto, poi si ritrasse e in un unico movimento posò la lama sul collo dell'uomo decapitandolo, mentre con una giravolta si rimetteva perfettamente in guardia.

Seguì un profondo silenzio.

“Chi è stato il tuo maestro?” qualcuno gli chiese.

“Toko Fujita è stato uno dei miei sensei” rispose Hiraga preparandosi a uccidere ancora.

“Eeee!” Si trattava di uno dei più rispettati maestri di Mito, morto a Edo nel terremoto del '55 in cui perirono centomila persone.

“Sono shishi, e gli uomini di Mito non uccidono gli shishi, che sono dei loro” disse a bassa voce uno degli uomini. “Sonno-joi!”

Il samurai mosse un passo in avanti incerto su quello che avrebbero fatto i compagni, la spada sempre sguainata. Ori e Hiraga lo guardarono, poi si guardarono l'un l'altro. Si mosse anche un altro uomo. Benché le spade fossero ancora tutte sguainate i samurai avevano aperto un varco per lasciarli passare.

Hiraga si irrigidì aspettandosi una trappola ma Ori annuì dimentico del dolore, incurante della vittoria o della morte. Con calma ripulì la lama e la infilò nel fodero. Si inchinò rispettosamente ai due morti e si avviò attraverso lo stretto passaggio tra gli uomini senza guardare né a destra né a sinistra.

Un momento dopo Hiraga lo seguì con altrettanta lentezza.

Appena giunsero all'angolo cominciarono a correre e fino a quando non furono molto lontani non si fermarono.

Samurai 1866

Capitolo 10


 

I cinque rappresentanti della Bakufu entrarono con gran calma nel cortile anteriore della Legazione a bordo dei loro palanchini.

Arrivavano con un ora di ritardo all'appuntamento preceduti da samurai con gli stendardi dagli emblemi ufficiali e circondati da guardie.

Sir William lì accolse dall'alto della scalinata che conduceva all'imponente ingresso.

Accanto a lui i ministri francese, russo e prussiano e i loro aiutanti, Phillip Tyrer e altri membri del personale della Legazione da un lato e dall'altro una guardia d'onore composta da soldati scozzesi e da alcuni soldati francesi voluti da Seratard. L'ammiraglio Ketterer e il generale erano rimasti a bordo, in riserva.

I giapponesi s'inchinarono cerimoniosamente, sir William e gli altri alzarono i cappelli. In gran pompa condussero i giapponesi nell'enorme salone delle udienze cercando di trattenere l'ilarità davanti a quegli abiti stravaganti: i cappellini neri e laccati sul cranio rasato e legati con nodi elaborati sotto il mento, i sontuosi mantelli, i kimono da cerimonia di seta multicolore, i pantaloni voluminosi, i sandali con il cinturino e le calze-scarpe infradito, tabi, i ventagli infilati nelle cinture insieme alle immancabili due spade.

“Quei cappellini non sono grandi abbastanza neanche per pisciarci dentro” disse il russo.

Sir William, prese posto al centro di una fila di sedie con accanto i ministri. Anche Phillip sedeva a un'estremità, per raggiungere il numero previsto per una delegazione ufficiale. I rappresentanti della Bakufu presero posto di fronte agli inglesi; gli interpreti sedettero sui cuscini tra i due gruppi. Dopo lunghe discussioni stabilirono che ciascun gruppo avrebbe tenuto cinque guardie le quali presero posto dietro i loro padroni guardandosi in cagnesco.

Gli avversari si presentarono seguendo un rigido protocollo.

Toranaga Yoshi fu l'ultimo: “Tomo Watanabe, ufficiale di seconda classe” disse fingendo un'umiltà che non gli apparteneva. Aveva occupato l'ultimo posto all'estremità della fila giapponese e indossava abiti molto semplici.

Tutti gli altri e le guardie erano stati istruiti, con la minaccia d'una severa punizione in caso di disobbedienza, di trattarlo come se fosse il membro meno importante della delegazione.

Tornò a sedersi. Come sono brutti questi nemici, pensava, come sono ridicoli con quei cappelloni alti, quegli strani stivali e i vestiti brutti, pesanti e neri.... ecco perchè puzzano!

Sir William spiegò prudente e con semplicità: “Un suddito inglese è stato assassinato da un samurai Satsuma”.

Alle cinque del pomeriggio l'umore degli europei era pessimo, i giapponesi invece sempre cortesi, sorridenti, apparentemente imperturbabili. In una dozzina di modi diversi i loro portavoce avevano sostenuto che... erano tanto dispiaciuti ma non avevano alcun potere legale sul feudo di Satsuma, non conoscevano gli assassini e non sapevano come fare a trovarli, comunque si, era una faccenda sgradevole, tuttavia no, non sapevano come ottenere riparazione, comunque si, tenuto conto di alcune circostanze una riparazione si poteva pretendere, tuttavia no, non era possibile incontrare lo shògun, comunque si, lo shógun sarebbe stato onorato di concedere un'udienza al suo ritorno, tuttavia no, non nell'immediato futuro, comunque sì, gli chiederemo subito un appuntamento per una data precisa, tuttavia no, non poteva essere per questo mese perchè i suoi impegni attuali non erano ancora stati resi ufficiali, comunque sì, al più presto, no, il prossimo incontro e tutti gli incontri successivi non avrebbero dovuto svolgersi a Edo, si a Kanagawa, comunque erano spiacenti, non questo mese, forse il prossimo, no, molto spiacenti, non abbiamo l'autorità...

Ogni punto era stato tradotto dall'inglese all'olandese al giapponese, discusso come al solito lungamente dai giapponesi e poi risottoposto in tono pedante alla traduzione in olandese e poi in un inglese salmodiante con tutte le più cortesi richieste di spiegazioni sui punti più insignificanti.

Yoshi trovava l'intera procedura molto interessante. Era la prima volta che si trovava accanto a un gruppo numeroso di gai-jin e che prendeva parte a un incontro dove persone che non erano di pari rango potevano discutere di politica anziché limitarsi ad ascoltare e obbedire.

Tre degli altri quattro membri della delegazione giapponese erano ufficiali poco importanti della Bakufu.

Tutti avevano usato nomi falsi, una consuetudine quando si trattava con gli stranieri. L'uomo che parlava inglese sedeva accanto a Yoshi. Si chiamava Misamoto. Yoshi gli aveva ordinato di ricordare ogni particolare, di riferirgli discretamente tutte le cose importanti che non venivano tradotte con precisione e di tenere la bocca chiusa quando non era interrogato. L'uomo era un criminale condannato a morte.

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