Authors: Gianluca Morozzi
Giocherella un altro po’ con la maschera molliccia. «Perciò» scandisce, piano, trattenendo un sogghigno «ho deciso di riattaccarti la faccia.»
Apre la busta di plastica.
Prende il martello.
E la scatola di chiodi.
«Com’è che diceva il Dentista?» pensa Ferro a lavoro finito, sdraiato sul letto a fissare il soffitto. «Com’era quell’espressione che usava sempre?»
«La libbra di carne...» diceva. «La libbra di carne, ci meritiamo la nostra libbra di carne. Lavoriamo come muli, diceva, e dopo aver lavorato come muli, ci meritiamo la nostra libbra di carne.» Poi metteva su una delle sue cassette, snuff movies, si chiamavano, a voler usare i termini tecnici.
Per un po’ erano state belle, le cassette. Poi si erano annoiati, Ferro e il Dentista.
«Non c’è fantasia», aveva sbuffato il Dentista di fronte all’ennesima tortura vistosamente derivativa, «non sanno stimolare lo spettatore. Io, saprei come fare.»
E avevano iniziato a farsele da sé, le cassette.
Lı̀, nella baracca. Con i due congelatori sotto la botola, con le videocamere. E tutti gli intrugli del Dentista.
«E ora sono solo» pensava Ferro guardando il soffitto.
Quel coglione, quel povero coglione. Il Dentista e sua figlia, gli arriva una partita di pasticconi mai sentiti nominare, mai testati, e quei due deficienti buttano giù tutto come fosse aspirina.
In particolare gli dispiaceva per la figlia del Dentista. Sempre piaciuta la figlia del Dentista, c’aveva un culo, un culo da farci dei bei lavori di precisione.
Una volta che stava guidando in mezzo a un temporale l’aveva vista, la figlia del Dentista. Fuori dalla palestra, alla fermata dell’autobus.
Le aveva dato un passaggio, dopo un po’ aveva provato a baciarla. Aveva insistito e insistito, oh, quella non si era lasciata sfiorare, gli aveva concesso giusto una seghina molle e lenta, stando attenta a non sporcarsi.
«Figa di legno» aveva pensato Ferro intanto che veniva.
Il Dentista, di pozioni magiche, ne aveva accumulate per almeno dieci anni di filmini.
Un po’ le tenevano nella baracca, un po’ nel vecchio appartamento da scapolo di Ferro. Di quell’appartamento pieno di pozioni magiche e di videocassette sua moglie, ovvio, non sapeva niente. Ogni tanto Ferro ci faceva un’apparizione, prelevava qualche pozione magica, depositava un nuovo video, e poi spariva.
Nell’appartamento al ventesimo piano, fuori Borgo Panigale.
Ferro scende tardi, già a metà pomeriggio. Ammira il lavoro, gli occhi verdi di Alex smorti e vacui dietro quella che era stata la sua bocca. Il viso inchiodato al contrario, perfettamente teso ai quattro angoli della faccia.
Per raggiungere la perfezione, Alex dovrebbe mugolare qualcosa tipo «Usshidimi, usshidimi, per l’amor di dio». Invece, tace. Nemmeno il brontolare del suo respiro, solo un rumore sordo, ronzante, dal fondo della gola.
Ferro va in cucina, riempie un bicchiere d’acqua del rubinetto. Torna da Alex, beve piano, a piccoli sorsi, sollevando appena la maschera di Darth Maul. Poi parla, a voce bassa.
«Ti devo lasciare fino a stasera, piccolo giglio. Devo andare all’appartamento del Dentista, che la prossima tappa, nello schema che sto seguendo, è il taglio dello scroto.» Si avvicina. «Solo, piccolo fiore, col taglio dello scroto esce un casino di sangue. Il Dentista era bravo a gestire queste cose, l’emorragia era il suo pane quotidiano, io, in confidenza, sono un po’ meno attrezzato. E allora mi serve un po’ di aiuto dalla scienza, piccolo usignolo, vado a prendere qualche pozione magica supplementare, che non voglio mica che mi muori dopo tanto lavoro di forbici e coltello.» Poi si congeda: «Saluta i tuoi gioielli, bimbo, che sono le ultime ore che passate insieme».
Uscendo, Ferro si pente di quella frase cosı̀ volgare. Ha rovinato tutto un discorso accuratamente studiato negli accenti, nel ritmo, nelle cadenze, cazzo, era il Dentista, quello bravo a parlare. Gli tocca cancellare qualche secondo di audio dalla videocassetta.
Prende un altro po’ di coca dal portagioie. Punta la macchina verso la città.
Ferro ha una tentazione, una tentazione fortissima.
Rischiosa, certo, rischiosa da morire. Ma fedele allo schema.
Dopo il taglio dello scroto, nel piano originario, per Alex non c’è futuro. Ci si è già divertiti abbastanza insieme, il video è venuto bene, si può chiuderla lı̀. Ferro non ha ancora pensato al modo più esaltante di ucciderlo, ma ogni cosa a suo tempo.
Solo, sta nascendo un’idea folle, nella sua mente esaltata dalla coca e dall’adrenalina. Il modo più esaltante di ucciderlo, è lasciarlo vivo.
Far sparire ogni traccia compromettente, e mandare la polizia alla baracca tra le montagne. Come quella scena stupenda di Preacher, i poliziotti che trovano il tizio legato alla sedia che mugola: «Ushidetemi» e l’agente che dice: «Non so cosa potranno fare i dottori per questo poveraccio, sarebbe meglio per lui se fosse morto».
Esaltante, esaltante. Rimandarlo nel mondo cosı̀ com’è, parodia smontata e rimontata di un essere umano. Costretto a vivere come la grottesca marionetta che è diventato.
«Potrebbe identificarmi, Alex, denunciarmi?» si domanda Ferro. «Avevo la maschera, va bene, ma gli ho parlato del Pink Cadillac, gli ho detto che è il mio locale, è un rischio, cazzo, è un rischio, ma è bellissimo, divertentissimo, come rischio... ma poi, dopo quello che gli ho fatto, ha ancora qualche barlume di ragione? Quanto basta per mettermi nei guai con la polizia?»
Rimanda la decisione, canticchia
Suspicious Mind
.
Ragiona meglio, se canticchia Elvis mentre guida.
A ferragosto la città è una pietraia battuta dal sole. Nessuno in tangenziale, nessuno sul vialone dell’Ipercoop, niente, nessuno. Il deserto.
«Potrei fermare la macchina in mezzo a una rotonda», pensa Ferro, «fare i miei bisogni sotto un cavalcavia, montare un fornelletto da campeggio, non mi vedrebbe nessuno. C’è solo un cazzo di caldo umido che va bene per le zanzare, cazzo, per le zanzare, mica per i cristiani.»
Svolta a destra verso Casteldebole, passa col rosso, che tanto non c’è l’ombra di un’auto per la strada. Guida fino alle estreme propaggini dell’urbanizzazione, dove due identici palazzi a venti piani torreggiano davanti ai campi verdi. Parcheggia sotto i due palazzi gemelli, dietro un Transit blu mezzo sul marciapiede e mezzo in strada.
All’ultimo piano di quel mostro di cemento, c’è il suo appartamento da scapolo.
Ferro scende, si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto. Cerca nella tasca le chiavi dell’appartamento, tocca qualcosa di duro.
«Ve’» si dice, «il coltello a serramanico. Ho scordato in tasca il coltello a serramanico. Troppo lavoro. Distratto, sto diventando distratto.»
Apre il portone, entra nell’atrio del palazzo. Punta verso i due ascensori.
Davanti all’ascensore di sinistra, ci sono un sedicenne col piercing nel sopracciglio e la maglietta di Bruce Springsteen, e una ragazza dai capelli verdi e l’uniforme di un bar del centro. In attesa. Sulla porta dell’ascensore di destra, c’è il cartello Fuori servizio.
Ferro sbuffa, infastidito. Borbotta un «Buongiorno» seccato e frettoloso al sedicenne e alla ragazza. Non ha mai capito perché si debba salutare gente mai vista né conosciuta solo perché ci si sbatte contro nello stesso atrio, ma tant’è, un minimo di regole di convivenza civile vanno rispettate.
L’idea di stare in ascensore con degli sconosciuti è decisamente sgradevole. Sta per ripiegare sulle scale, ma poi pensa «Sono venti piani a piedi, cazzo, con un caldo da creparci». E allora si rassegna ai pochi secondi di forzata convivenza.
Che la tipa dai capelli verdi è anche carina, se non altro.
Le porte dell’ascensore si aprono. Entra la ragazza. Poi il sedicenne col piercing. Poi Ferro.
Le porte dell’ascensore si chiudono.
L’ascensore comincia a salire.
Claudia esce dal bar con gli occhi lucidi, il labbro inferiore che trema per la rabbia. Cammina veloce, più veloce che può, lontano dal Porco e dall’aria condizionata del suo bar schifoso, dai cocktail con gli ombrellini e i cioccolatini con il caffè.
Non si sogna nemmeno vagamente di piangere, non vuole sprecare una lacrima per quell’essere piccolo, grottesco e insignificante. Ricaccia il pianto indietro, stringe i pugni e accelera ancora il passo. Le lacrime le ha versate per la sua cara nonna, per il suo cagnolino investito da un’auto, mica le spreca per il Porco, certe lacrime di frustrazione.
La voce del Porco le rimbomba in testa mentre cammina svelta per stradine spettrali: «Sei venuta già in uniforme, bellina? Com’è che adesso vieni al lavoro già in uniforme? Ci dormi anche, con l’uniforme?»
Ha trattenuto la risposta in gola mentre prendeva servizio al bar.
Non ci verrei già in uniforme, schifoso maiale, non passerei mezz’ora sull’autobus con quest’uniforme da ballerina di lap-dance, aborto schifoso di essere umano, non verrei in uniforme se tu non mi spiassi quando mi cambio nel retro, bava di lumaca con le braccia che non sei altro.
Vorrebbe essere già a casa, Claudia, togliersi quell’uniforme da hostess di un film porno, lavare via nella doccia tutto lo schifo che sente, accoccolarsi in accappatoio sulla spalla di Bea, raccontarle tutto, farsi rassicurare nel calore delle sue braccia.
Ma Bea, ah, Bea è in un altro continente per due settimane ancora. E per arrivare a casa, merda, c’è da raggiungere la fermata dell’autobus sotto quel sole inumano. Aspettare l’autobus che non passa mai, è domenica, ferragosto, figurarsi. E poi starci mezz’ora, su quell’autobus.
Claudia attraversa il forno deserto di piazza Maggiore. Non c’è un movimento nella grande piazza, un’ala di piccione, un pensionato in bicicletta, niente. La domenica di ferragosto a Bologna è come il mare d’inverno di quella vecchia canzone, pensa Claudia, un concetto che la mente non può immaginare.
Da qualche parte, a un’ora di autostrada, tutti gli abitanti della città sono ammassati sulle spiagge e in riva al mare. Guardando piazza Maggiore e il dio Nettuno che si erge fiero in mezzo al niente, be’, a Claudia sembra di rivedere la copertina di quel primo albetto rubato alla collezione di suo fratello, quello con Superman in mezzo a una strada vuota, un giornale che vortica tra i palazzi, il sole che tramonta dietro il suo mantello, e Superman che urla disperato: «Tutti gli uomini, donne e bambini del mondo sono scomparsi: Signore ti prego, aiutami, non voglio essere l’ultimo uomo sulla Terra!»
Si ferma a bere un goccio d’acqua dalla fontanella sotto il Nettuno, la lascia scorrere fresca nella gola riarsa. Si asciuga la bocca col dorso della mano, guarda la convessa prospettiva di via Indipendenza, i portici che sembrano allungarsi in eterno verso il punto di fuga. Una città senza gente e senza rumori, pensa, è come una discoteca deserta col dj che mette dischi che nessuno balla. E i colori rossi e arancione di Bologna sono virati in un bianco e in un giallo accecante, in questo irrespirabile giorno di ferragosto.
Poi uno stridore spezza il silenzio.
Claudia sobbalza, spaventata dal suono metallico di una ruota arrugginita. Dall’ombra di palazzo Re Enzo sbuca un uomo dalla lunga barba rossiccia, ricurvo, un occhio mezzo chiuso. Ha una tuta mimetica, una ricetrasmittente giocattolo premuta sull’orecchio, spinge un carrello della spesa pieno di sacchetti.
Claudia si irrigidisce. Accelera il passo.
L’uomo in mimetica spinge il carrello verso il centro della piazza. Scorge Claudia con l’occhio buono, urla: «Lecca la terra, schifosa! Lecca la terra, schifosa!» con una vocetta strozzata, muovendosi al rallentatore. Claudia esce in fretta dalla piazza, attraversa via Rizzoli a passo svelto. L’uomo continua a urlare: «Lecca la terra, schifosa!»
Claudia si guarda intorno freneticamente. Se il pazzo mollasse il carrello e cominciasse a inseguirla, non ci sarebbe nessun posto in cui rifugiarsi. Via Rizzoli è tutta un bar chiuso accanto a un negozio di scarpe chiuso, la libreria chiusa accanto al negozio di ottica chiuso, il negozio di dischi chiuso, il fast-food chiuso. Se il pazzo la raggiungesse, la afferrasse per un braccio, le alitasse in faccia alcool misto a succhi gastrici urlando: «Lecca la terra, schifosa! Lecca la terra, schifosa!», Claudia potrebbe anche strillare con tutto il fiato rimasto nei polmoni che nessuno la sentirebbe. Allora tende i muscoli, cerca di rievocare i due anni di judo, la cintura arancione. Sa difendersi, Claudia, nel caso.
Ma il pazzo non la insegue. Si limita a spingere faticosamente il carrello intorno alla fontana del Nettuno sbraitando da solo. Claudia lo sorveglia con la coda dell’occhio fin quando non raggiunge la fermata dell’autobus. Se il pazzo dovesse uscire dalla piazza, è pronta a correre come il vento tra le stradine laterali.
Si ripara dal sole nella striscia d’ombra di un palazzo, che si muore di caldo anche all’ombra, e l’autobus non passa mai, in estate, di domenica, a ferragosto.
Nessuno, non c’è più nessuno. I bolognesi sono al mare, i fuorisede sono a casa, gli spacciatori sono andati a spacciare in riviera. Solo il bar del Porco è rimasto aperto, ma non fa testo, quello. Che il Porco starebbe aperto anche nella notte tra il venticinque e il ventisei dicembre e per tutta la notte, se potesse.
Se lo ricorda bene, Claudia, il primo impatto col Porco. Un lavoro estivo, si era detta, tre mesi in un bar del centro, giusto fino all’inizio dell’anno accademico. Si era presentata al colloquio in jeans e maglietta bianca, con lo zainetto peruviano in spalla. Il Porco l’aveva guardata da dietro il bancone con i suoi occhietti porcini, sudato, grasso, aveva detto: «Sei un po’ bassa».
«Sono bassa... che cavolo vuol dire, devo servire i clienti, mica giocare a basket» aveva pensato lei.
Poi il Porco l’aveva squadrata a sezioni, soppesata a tranci. Aveva soppesato i suoi capelli verdi, dritti sulla testa come quelli di Bart Simpson. Gli occhioni da cartone animato giapponese. Il seno piccolo, proporzionato. Aveva storto il naso.
Poi si era soffermato sulle gambe, il Porco. Le gambe gli erano piaciute.
Le aveva fatto indossare l’uniforme, che ce l’aveva già pronta e della sua misura. Doveva averne a chili nel retro del bar, di quelle uniformi scollatissime e cortissime sulle cosce. Per tutte le tipologie immaginabili di aspiranti bariste.
Poi, mentre Claudia si rimirava incredula nel retro del bar, strizzata in quello straccetto da pornoinfermiera, il Porco l’aveva chiamata da oltre la porta. «Signorina, mi porta un caffè, per favore?»
Era tornata di là. Il Porco era seduto a un tavolino, fingendo di essere un cliente.
A Claudia, lı̀ per lı̀, era venuto da ridere. Sembrava uno dei provini di Bea, mi faccia un provino per il ruolo della barista, signorina, mi porti un caffè, mi faccia vedere come porta un caffè.
E va bene, si era detta, facciamo il provino. Aveva preparato il caffè, aveva riempito il bicchierino d’acqua, aveva messo sul vassoio la tazzina, il cioccolatino, il bicchierino, la bustina di zucchero, era uscita dal bancone, aveva portato il vassoio al tavolino del finto cliente.
«Più piano» aveva detto il Porco, «cammina più piano.» Lei aveva camminato più piano, perplessa.
«Ancheggia un po’» aveva detto il Porco, «ancheggia un po’, che ai clienti queste cose piacciono.» Lei non si era nemmeno sognata di ancheggiare. Va bene camminare più piano, ma se il cliente voleva uno spettacolino di lap-dance doveva almeno infilarle i soldi nella scollatura, scherziamo? Aveva appoggiato il caffè sul tavolino, con la fronte aggrottata.
Il Porco l’aveva guardata tornare al bancone, gli occhi fissi sulle gambe scoperte dalla cortissima uniforme. Poi aveva bofonchiato: «Lei dà un po’ troppe cose per scontate, signorina ».
«Prego?» aveva replicato lei.
«Lei dà un po’ troppe cose per scontate» aveva ribadito il Porco. «Ad esempio, chi le ha detto che io voglio il bicchierino con l’acqua naturale e non gassata, non avrebbe dovuto chiedermelo, prima?»
Claudia l’aveva fissato come si fissa una tenia. Aveva deglutito, cacciato indietro qualche insulto, poi aveva simulato un fintissimo sorriso.
«Mi scusi, signore, come desidera l’acqua, naturale o gassata ?»
L’autobus, finalmente.
Claudia sale svelta, si assicura che il pazzo col carrello stia ancora girando intorno al Nettuno, va a sedersi in fondo. Si rilassa, finalmente.
Cerca nello zainetto peruviano i suoi biscotti ricoperti di cioccolato, ne mangia uno. Mentre l’autobus imbocca una via Ugo Bassi da incubo del dopobomba, ripone il pacchetto nello zaino.
Pensa al Porco, alla prima volta che le ha rifilato una pacca sul sedere. Per spronarla a servire i clienti più in fretta, aveva detto finto scherzoso.
Alla prima volta che lo aveva sorpreso a spiarla, mentre si cambiava nel retro.
Se solo non ci fosse bisogno di lavorare, cazzo, se solo non ci fosse bisogno di soldi. Ricaccia di nuovo indietro le lacrime di rabbia, guarda fuori dal finestrino con le braccia conserte, le gambe stese sotto un altro seggiolino.
Pensa a Bea, a quanto le manca Bea.
«Siamo in un posto nel predeserto» le aveva detto Bea nell’ultima, rapida telefonata. «Si chiama Erfoud, adesso ci spostiamo tra le dune. Ti porto un po’ di sabbia.»
In certi momenti in cui la mancanza di Bea pesava in modo insopportabile, Claudia si sorprendeva ad avercela con lei. Per essersene andata cosı̀ lontano e per cosı̀ tanto tempo. Per averla lasciata sola, in quella terra di nessuno.
Si pentiva subito di quel pensiero, Claudia. Non poteva mica lasciar perdere un’occasione del genere, Bea, dopo tanta gavetta. Una coproduzione internazionale, tre mesi in Marocco tra addestratori di cammelli, falconieri, stuntman famosissimi, un passo avanti incredibile, dopo i film di nicchia, quelli camera e cucina, girati tra portici e birrerie da studenti. Mica poteva dire di no, Bea.
Solo che, merda, tre mesi sono tre mesi. Ancora due settimane da passare senza Bea, ancora due settimane. Si era fatta il calendarietto come i carcerati, Claudia, una fila di X sempre più lunga, ma ancora non lunga abbastanza.
E poi era sempre stata gelosa come una biscia, Claudia. Chissà chi poteva incontrare Bea sul set di una coproduzione internazionale, che gente interessante, là nel deserto, tra le dune...
«Basta, basta» si dice Claudia. Fissare la testa su qualcosa, bisogna fissare la testa su qualcosa che non sia Bea. Comincia a riordinare mentalmente la sua preziosa collezione di Superman.
Fissa i prossimi obiettivi, gli albi rari da aggiungere alla collezione. «I soldi del Porco non possono mica andare tutti in tasse universitarie», pensa.
I prossimi obiettivi sono bersagli semplici. Giusto per cominciare l’anno in scioltezza e senza stress.
Il numero 205 degli Albi del Falco, le origini di Supergirl, ribattezzata Nembo Star. Per coerenza con Superman, che veniva chiamato Nembo Kid. Obiettivo facile. Nessun problema.
Poi, il 31 del Superalbo Nembo Kid, con le origini del secondo Flash. Fattibile.
E dopo, caccia al 33 degli Albi del Falco. Il primo con Batman, chiamato Pipistrello, alla guida della Pipismobile.
Claudia aggiorna mentalmente la sua collezione, mentre l’autobus esce da porta San Felice, si lascia alle spalle la cerchia delle mura. Tutto, pur di non pensare a Bea.
Non aveva mai letto molti fumetti italiani, Claudia, ma le era sempre piaciuta la storia del galeone mai terminato di Dylan Dog.
Fissarsi un compito quasi impossibile da svolgere fino in fondo, inseguire un orizzonte sempre più vicino e mai completamente raggiungibile. Claudia l’aveva imparato dalla sua cara nonna, che aveva iniziato a studiare l’inglese a ottantasei anni.
«Lo so benissimo che non imparerò mai l’inglese», le aveva spiegato la sua cara nonna. «Ma fino al mio ultimo giorno di vita avrò un obiettivo da inseguire, questo caspita d’inglese.»
Claudia si era innamorata di Superman fin da quell’albetto di suo fratello, quello dell’ultimo uomo sulla Terra. E aveva iniziato a collezionare tutto, ogni singola storia di Superman mai apparsa in Italia fin dal 1939.
Se mai avesse completato quella collezione, se avesse mai trovato anche quel Ciclone l’Uomo d’Acciaio sul numero 19 degli Albi dell’Audacia, anche quel Ciclone l’Uomo fenomeno sul numero 299 dell’Audace, allora sarebbe passata a collezionare gli albi americani. Ogni singola storia inedita in Italia.
Mentre è immersa mentalmente nella sua collezione di Superman, in via Saffi sale un uomo tozzo, tarchiato, accaldato, che si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto da naso. Sale sbuffando, sembra stia per soffocare. Si aggrappa rabbioso a un finestrino, lo abbassa borbottando «I finestrini chiusi, come si fa a tenere i finestrini chiusi, si muore qua dentro, come si fa a tenere i finestrini chiusi, volete morire».
«C’è l’aria condizionata» gli fa notare Claudia.
L’uomo si volta di scatto. «Che dice, signorina?» esclama secco.
«C’è l’aria condizionata in quest’autobus» ripete Claudia. «Se abbassa il finestrino, l’aria condizionata non funziona più.»
L’uomo ha l’aria di voler sfondare i finestrini con il cranio, tutti, uno dopo l’altro. Gorgoglia dal fondo della gola: «Signorina, mi vuole insegnare lei come stare al mondo, ma pensa, mi insegna lei come stare al mondo, per non avere caldo bisogna tenere i finestrini chiusi, ah, bel ragionamento, ma pensa te che testa c’ha la gente, io non lo so, che testa c’ha la gente». E la guarda minaccioso, nel caso abbia intenzione di insistere su quella storia dell’aria condizionata e dei finestrini chiusi.
Claudia decide che di matti, per quel giorno, le è bastato quello col carrello e la tuta mimetica. Alza le spalle, guarda l’ospedale Maggiore, e lascia che l’uomo vada a sedersi vicino all’autista. Smadonnando contro il caldo, e l’umidità, e le ragazze che vogliono insegnargli come stare al mondo.
Scende due fermate dopo.
Claudia non ha nemmeno la forza di alzarsi per richiudere il finestrino.
L’autobus si addentra nel groviglio di ponti di ferro, enormi rotonde e larghi stradoni che è la periferia nord-ovest di Bologna. Lambisce i quattro palazzi gemelli che sorgono sulla sinistra calamitando la vista, quattro cubi bianchi con le finestrelle quadrate, le scatole di biscotti, li chiama Bea. «Se uno nasce in un palazzo del genere per forza diventa uno spacciatore o un pornografo» dice Bea. «Va bene che a volte il genio nasce nello squallore, ma qui siamo oltre lo squallore, qualunque slancio di creatività ci resta impigliato, in questo incubo a forma di scatole da scarpe.» Claudia sorride guardando quei quattro cubi di cemento, che anche quei cubi di cemento le ricordano Bea. Tutto, in qualche modo, le ricorda Bea.