Authors: Gianluca Morozzi
E quello legato alla sedia non è mica Alex. È lo Spacciatore.
Eh, eh, non si è mica accorto di essere stato svuotato, lo Spacciatore. Non ha più le braccia né i piedi. Aspetta che si veda riflesso nello specchio.
Mio figlio, appena nato. Non era mica grasso, appena nato. Era bello quand’è nato, mio figlio. Chissà come ha fatto a diventare così grasso.
Gloria? Mi sto sposando con Gloria?
Non mi sono già sposato una volta, con Gloria? E lei che insisteva per sposarsi in chiesa, che suo padre era così tradizionalista, e invece ci stiamo sposando al sesto piano. Chissà cosa dirà suo padre, che ci sposiamo al sesto piano del palazzo.
Sta scendendo troppo in fretta, questo ascensore. Troppo, troppo in fretta. Stai a vedere che si sono spezzati i cavi, cazzo, cazzo, ci schianteremo al suolo, è il colmo. Chi è quel ragazzo che prende a calci i lampioni per strada? Sono io?
La cucina di mia nonna? Perché il tavolo è cosı̀ alto? Perché tutto sembra cosı̀ grande?
Nooo, cazzo, ecco, lo sapevo, si sono spezzati i cavi. Abbiamo superato il pianoterra, ora cadiamo nel seminterrato.
È buio, nel seminterrato. È tutto buio. Non si vede più niente.
Siamo fermi? Ci siamo fermati?
Di chi sono queste voci? Le conosco, queste voci.
Cosa stanno dicendo? Che mi aspettavano?
Chi siete?
Ho paura.
Voi, nel buio. Chi siete?
Chi siete? Vi conosco.
Ho paura.
E fuori dall’ascensore fermo, fuori dal palazzo bianco di venti piani, fuori dalla città che inizia finalmente a respirare la frescura della notte, nella baracca in mezzo ai boschi, Alex guarda il mondo attraverso quella che un tempo era la sua bocca. Aspettando il ritorno della Maschera Rossa.
Da quando è impazzito, due ore prima, non teme più la lama del coltello. Attende tranquillo, guarda la luce delle stelle dietro le tende inchiodate alle finestre, e aspetta.
Due ore prima, le pozioni del Dentista hanno esaurito il loro effetto. E Alex, scagliato fuori dal gioco di contrappesi degli antidolorifici e dei calmanti, ha preso coscienza di quello che gli è successo. Fisicamente, e psicologicamente.
La consapevolezza di essere stato ridotto a un pupazzo vivente e l’ondata di inumano dolore hanno bruciato i suoi nervi, in una vampata furibonda.
Come una lampadina che brucia
, è stato il suo ultimo pensiero cosciente.
Né più né meno di una lampadina che brucia
. Alcune sinapsi particolarmente carine hanno abdicato e salutato il mondo. E Alex, semplicemente e giustamente, è del tutto impazzito.
Adesso sta aspettando l’uomo con la maschera rossa.
Aveva promesso di castrarlo con il suo coltello, molte ore prima. Se lo ricorda bene, Alex, si ricorda quelle parole ovattate nel vapore dei calmanti e degli antidolorifici. Solo, l’uomo con la maschera rossa non torna.
E da qualche minuto c’è un rumore strano, al piano di sopra. Come un animale che grufola e si fa largo in un mondo di oggetti che non conosce e non capisce.
«Un cinghiale» dice una vocina persa nella pappa informe che è la mente di Alex, «magari è entrato un cinghiale, e tra poco troverà il modo di scendere al piano di sotto.»
«Come cazzo è entrato un cinghiale dalla finestra del piano di sopra?» domanda un’altra vocina. «Tu lo sai? Io lo so? Io non lo so. Tu lo sai? Preferisci essere divorato da un cinghiale o essere fatto a pezzi un po’ alla volta dalla Maschera Rossa? Scegli tu. Questa è la carta, qui c’è la regina, qui c’è la regina, dov’è la regina?»
Ogni tanto il puzzle della razionalità torna a ricomporsi, a ondate, dietro quella faccia inchiodata al contrario. E un’altra vocina dice: «Magari non c’è nessun animale che grufola al piano di sopra, magari è solo il chiodo che hai conficcato nella fronte, quello a destra, non quello a sinistra, quello a destra è conficcato più a fondo. Magari quel rumore che senti non è altro che il chiodo, il chiodo che scricchiola contro il tuo cranio».
Allora, in quei momenti di razionalità a lampi, Alex pensa di dondolarsi sulla sedia fino a cadere faccia in avanti. E poi, una volta caduto faccia in avanti, di sbattere la testa contro le assi del pavimento, in modo da ficcarsi i chiodi più in profondità. E farla finita. Prima del cinghiale. E prima dell’uomo con la maschera rossa.
Ma, per quanto ci provi, Alex non riesce a smuovere la sedia. Nemmeno di un millimetro.
Il momento di razionalità si dissolve come vapore. Si leva in nubi sottili più in alto della lampadina, oltre la baracca, via, lontano.
E Alex aspetta al centro della stanza, di nuovo pietosamente, fortunatamente, completamente pazzo.
Nel deserto che è il piazzale della stazione di Parma, una ragazza di nome Francesca ha appena finito di piangere fino a consumarsi gli occhi.
Sta aspettando un autobus notturno che forse non arriverà mai. Ha una valigia accanto, e continua a ripetersi: «Perché? Perché mi hai fatto una cosa cosı̀ cattiva? Perché? Perché?»
Quando tutti i passeggeri erano scesi dal treno delle venti e cinquantaquattro e di Tomas non si era vista nemmeno l’ombra, non aveva comunque perso la fiducia. L’aveva chiamato al cellulare trovandolo spento, va bene, aveva chiamato a casa e non aveva risposto nessuno, va bene, ma non aveva perso la fiducia.
Tomas poteva aver perso il treno. Poteva avere il cellulare scarico. Potevano essere improvvisamente rientrati i suoi genitori. C’erano mille potenziali spiegazioni per la sua assenza.
Aveva aspettato il secondo treno in arrivo da Bologna, speranzosa.
Ma Tomas non era arrivato nemmeno col secondo treno.
Né col terzo.
O con il quarto.
Francesca aveva controllato in continuazione il cellulare, sperando in una chiamata senza risposta, in un messaggio, un segnale, una spiegazione. Aveva chiamato Tomas mille volte, e mille volte si era sentita rispondere «L’utente non è al momento raggiungibile».
E i treni erano passati uno dopo l’altro. E la stazione aveva cominciato a popolarsi di facce orribili, rinciucchite dal caldo, ubriachi vagolanti nella sera carica di umidità.
A mezzanotte si era rassegnata.
Aveva trascinato la valigia fuori dalla stazione, singhiozzando, maledicendo quel bastardo di Tomas.
Perché? Perché mi hai illusa? Perché mi hai fatto una cosa così cattiva? Perché?
Ora sta aspettando un autobus notturno, a mezzanotte e mezzo di una domenica di ferragosto. Nel deserto della città, tra zombie strascicati e spacciatori nascosti nell’ombra.
Sospira, alla fine. Abbandona la fermata dell’autobus, si trascina la valigia oltre il piazzale della stazione, verso il ponte sul fiume prosciugato dal caldo, la Parma secca e asciutta. Tornerà a casa a piedi. Pure questo, le tocca.
Prega di arrivare prima dei suoi genitori.
Deve
arrivare prima dei suoi genitori.
Prima che suo padre e sua madre trovino il biglietto sul tavolo.
Prima che tornino a casa inferociti, dopo essersi visti rifiutare il prestito in cui speravano tantissimo, e trovino il biglietto con scritto: «Me ne vado di casa, non cercatemi, starò bene».
Francesca lo sa, ne è sicura: se suo padre legge il biglietto, gli occhi già fuori dalla testa per conto suo, il primo impulso che ha è di strangolare selvaggiamente la figlia. E se in quel momento la figlia rientra dalla porta, be’, non c’è dubbio. Il supermaxieroe la prende e la strozza nel soggiorno di casa.
Per questo Francesca accelera il passo, per quanto può. La valigia è pesante, batte rumorosa sul marciapiede, rimbomba come un petardo nel silenzio della notte.
Supera il ponte ripetendo dentro di sé: «Bastardo. Bastardo. Bastardo». E poi si irrigidisce.
C’è un rumore di passi alle sue spalle.
Francesca gira appena la testa, un formicolı̀o spaventato sulla nuca.
C’è un uomo dietro di lei. Sta camminando lentamente, la brace di una sigaretta ben visibile nel buio.
Il cuore di Francesca salta in gola. Accelera il passo ancora, stringe la mano sul cellulare. Qual è il numero della polizia? C’è qualche bar aperto, qualche posto in cui ripararsi? La città sembra reduce da un inverno nucleare, luci spente, porte chiuse, serrande abbassate. Nemmeno un’auto che passi, nemmeno un ubriaco in bicicletta, nessuno che possa aiutarla in caso di bisogno.
C’è solo quel duplice rumore sotto le stelle. La valigia strisciata a fatica sul marciapiede, e i passi lenti e costanti dello sconosciuto in fondo alla strada.
Merda. Merda. Merda. Se quello si avvicina, lascio la valigia e corro via come il vento. Sono sempre stata lenta a correre. Merda. Alle gare di corsa campestre della scuola arrivo sempre tra le ultime, insieme alle ciccione. Ci mancava solo questa. Tutta colpa di quel bastardo.
Ti odio, Tomas.
Ti odio.
Dovevamo già essere oltre il confine, a quest’ora. E invece sono qua, nel deserto, a trascinarmi una valigia, a guardare la brace della sigaretta di uno sconosciuto alle mie spalle.
Ti odio. Giuro che ti odio.
Cento metri, e il suono dei passi dello sconosciuto è sostituito dal cigolı̀o di un portone che si apre. Francesca gira di nuovo la testa. Lo sconosciuto sta tranquillamente entrando in casa sua.
Francesca respira di nuovo. Allenta la presa sul cellulare, e continua la sua lenta, interminabile marcia. A metà strada, si vede passare davanti l’autobus notturno.
Non si arrabbia nemmeno. Non ne ha più la forza.
Casa sua, eccola.
Si era illusa di poter volare via da quella casa, Francesca. E invece è ricaduta a terra con un tonfo pensantissimo.
Prima di entrare, fa un ultimo tentativo. Chiama per l’ultima volta il cellulare di Tomas, ripete a occhi chiusi «Rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, bastardo, ti odio, ti odio, ti odio».
Ma l’utente, come al solito, non è al momento raggiungibile.
E allora Francesca sospira, si trascina la valigia sulle scale, e va incontro al suo destino.
Fai che i miei non siano ancora tornati. Fai che non siano ancora tornati, tipregotipregotipregotiprego.
Arriva al pianerottolo.
Cerca le chiavi.
E in quel momento sente le voci al di là della porta. Suo padre e sua madre.
Che sono già rientrati. E stanno urlando nel loro appartamento, nel cuore della notte.
Appoggia la valigia sul pianerottolo e si siede sull’ultimo gradino, abbracciandosi le ginocchia.
Rientrare in casa, non ne ha il coraggio. Non sa cosa fare. Non sa dove andare.
E allora rimane lı̀, anche quando si spegne la luce delle scale. Rimane lı̀ nel buio, senza sapere cosa fare e dove andare, ascoltando le urla terribili dietro la porta.
Nel deserto del Marocco, a sud di Erfoud, Bea è tra le dune a guardare le stelle.
Nelle prime settimane di lavorazione, riusciva a comunicare con Claudia almeno una volta al giorno. Si dicevano cose mielosissime in quelle prime settimane di lontananza, cose affatto autoironiche, del tipo se guardiamo la stessa stella alla stessa ora sapremo che ci stiamo pensando. Cose cosı̀, bleah.
Ma Bea non ha più tempo per le mail o le telefonate, adesso che le riprese si sono fatte veramente dure. Il regista la sta spremendo in tutti i modi, lui, il maestro di spada, il capo stunt, i cavalli, i maledetti cammelli, la stanno massacrando fisicamente e psicologicamente. I cammelli, soprattutto.
Guarda il cielo, cerca la loro stella, sua e di Claudia, ma per quanto si sforzi non riesce a trovarla. Le costellazioni sembrano diverse e aliene, in mezzo alle dune. Tutto sembra diverso, in mezzo alle dune.
Guarda i camper lontani, verso la linea dell’orizzonte. «Meglio andare a dormire» si dice, «che domani sarà un delirio. Tutte quelle scene sui cammelli, i maledetti cammelli, con quella roba schifosa che sputano. Bestie bastarde.»
Spazzola via con le mani la sabbia dai pantaloni in tela leggera.
Risale in macchina.
E guida lentamente sulla sabbia, sotto il cielo stellato.
A due ore di aereo dal deserto del Marocco, in una periferia di città cotta dal sole di quel lungo giorno, Claudia sta respirando come un mantice in iperventilazione. Il cuore batte cosı̀ forte che sembra volerle aprire il petto, schiacciata dal corpo ormai immobile di Aldo Ferro. Lo Zippo è schizzato via da quella mano inerte. È buio di nuovo.
Lentamente, deglutendo saliva acida, scivola fuori da quell’ammasso di carne fredda e morta. Nella cabina, adesso, l’odore è insopportabile.
Claudia cerca lo Zippo, allunga la mano a tentoni sulla gomma a bolle. Tocca cose viscide, liquide, morbide e molli,
(
non voglio sapere cosa sto toccando. Non voglio sapere cosa sto toccando. Non voglio sapere cosa sto toccando
)
la lama del coltello, da cui si ritrae subito.
Proprio quando si è convinta che lo Zippo sia caduto nel vano, lo trova. In una pozza di liquame schifoso, fluido e denso.
Lo raccoglie, con le dita che tremano violentemente. È scossa da brividi devastanti che la squassano in tutto il corpo.
Accende la fiammella. Illumina la cabina.
Ferro è in una posizione ridicola e innaturale. Sembra che abbia la testa infilata in una sagoma di cartone, di quelle con un ovale in cui mettere la faccia per scattare una foto buffa, col viso su un corpo di cowboy o di culturista.
Solo che ha le braccia rilasciate mollemente lungo i fianchi. Le ginocchia radenti a terra.
E la testa schiacciata tra le porte.
Col sangue che gocciola sul binario di scorrimento, ritmicamente, come un rubinetto che perde.
«È morto?» rantola Tomas.
Claudia si gira. Il ragazzo è immobile sul fondo della cabina. La osserva con gli occhi acquosi e vacui.
«Sı̀» risponde lei, poi crolla, sopraffatta dalla tensione, dalla puzza di escrementi, di sangue, di sudore. Vomita tra la camicia country ripiegata e lo stivale destro di Ferro, quello sfilato dopo l’incidente della caviglia. Rigetta cioccolata, caffè, succhi gastrici, tremando per le violente convulsioni, la divisa strappata lungo la coscia sinistra. La pallina di metallo che l’ha resa forte e risoluta è tornata nell’universo alieno da cui proveniva.